Cosa può fare l’intelligenza artificiale applicata alla Difesa? Intervista a Filippo Del Monte, di Aviorec Composites

Considerate le evidenti connessioni tra difesa e sapere tecnologico abbiamo intervistato Filippo Del Monte di Aviorec Composites sugli sviluppi dell’intelligenza artificiale in ambito militare

La competizione geopolitica internazionale ruota intorno al predominio sul nuovo fuoco di Prometeo: l’intelligenza artificiale. La supremazia statunitense sulle nuove tecnologie è stata messa in discussione dal lancio di DeepSeek, il nuovo modello informatico cinese che, nonostante la limitata disponibilità di chip all’avanguardia, è pronto a contendere ad OpenAi il trono di miglior intelligenza artificiale del pianeta.

Quello che molti hanno definito il “momento Sputnik” della rincorsa al sapere tecnologico, rappresenta uno snodo fondamentale nella contesa tra Stati Uniti e Cina per la leadership internazionale. Infatti, se durante la Guerra Fredda la conquista dello spazio sancì il dominio economico e militare statunitense, in questo frangente solamente chi potrà assicurarsi il controllo dell’intelligenza artificiale potrà pretendere di assurgere al rango di leader nell’agone internazionale.

Considerate le evidenti interconnessioni tra difesa e sapere tecnologico, abbiamo intervistato Filippo Del Monte di Aviorec Composites per dialogare sugli sviluppi dell’intelligenza artificiale in ambito militare.

Gli scenari internazionali sono chiari: la leadership statunitense si trova di fronte ad una sfida impegnativa. Se fino a due settimane fa il predominio in campo tecnologico di Washington sembrava incontrastato, oggi Pechino ha iniziato a mostrare le proprie carte. La sfida, in questo momento, sembrerebbe solamente in ambito civile, ma in campo militare permane una supremazia statunitense?

Come ogni tecnologia, anche quella dell’intelligenza artificiale ha una evidente natura “dual use”; dunque ogni progresso nel campo dell’IA ha risvolti sia civili che militari. La competizione globale tra Stati Uniti e Cina riguarda anche l’IA e, di conseguenza, quello che serve per portare avanti la ricerca tecnologica nel settore, come chip e terre rare, solo per citare cose di cui ormai si legge e si parla spesso. Una delle questioni all’ordine del giorno è legata al legame intrinseco tra costi e qualità del prodotto, in questo caso l’IA, che la Cina ha dimostrato di poter bypassare.

Il caso DeepSeek è emblematico da questo punto di vista, dove l’azienda cinese ha utilizzato dei microprocessori inferiori, non avendo accesso a quelli più potenti prodotti negli Stati Uniti, con una differenza sostanziale tra i 5,6 milioni di dollari che ha speso DeepSeek per il modello R1-Zero e i 100 milioni di dollari stimati per lo stesso modello prodotto da un’impresa americana. Questo è anche frutto del protezionismo – che è la risposta comune da parte degli Stati che vedono minacciati propri settori strategici – con cui gli Stati Uniti, tra le proteste di operatori del settore come Nvidia, gestiscono il mercato dell’IA. La costruzione di oligopoli o sistemi concorrenziali imperfetti può avere ricadute pericolose anche per quei settori dell’economia di solito agganciati alla sicurezza nazionale o che hanno dirette ricadute su di essa, sempre più oggetto di misure protezionistiche.

Durante l’AI Summit di Parigi promosso dal presidente Macron, l’Unione europea ha annunciato di voler partecipare alla competizione tecnologica con InvestAI, un investimento di 200 miliardi. In ambito militare, a che punto siamo con l’utilizzo di tecnologie afferenti all’intelligenza artificiale da parte delle forze armate europee?

Anche nel caso di InvestAI, l’innovazione portata da DeepSeek fa riflettere, perché l’azienda cinese ha mostrato che si può essere tecnologicamente competitivi anche senza spendere le cifre astronomiche delle big tech statunitensi. Questo è un chiaro messaggio per l’Europa, anche in virtù delle trasformazioni delle piattaforme militari, che nel prossimo futuro saranno sempre più integrate con tecnologie di intelligenza artificiale, di cui si comincia a parlare e che si iniziano a sperimentare, specie in ambito aeronautico e di sorveglianza ed elaborazione dati.

 E di quelle italiane?

Occorre fare una premessa. La guerra in Ucraina ha messo in chiaro che il tempo della “sosta” post-storica e dell’orientamento al peacekeeping, frutti del “riflusso” geostrategico dell’Italia di inizio anni ’90, è terminato. Anche le Forze Armate devono essere adeguate ai tempi in cui viviamo. Lo ha detto anche il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il generale Masiello, che occorre una “revolution in military affairs” che metta in primo piano la ricerca e lo sviluppo tecnologico del nostro strumento militare.

Questo significa anche che una priorità è quella di assumere una impostazione, insieme dottrinaria ed operativa, aperta alle tendenze più innovative. C’è la necessità concreta di fare sintesi tra le varie aree capacitive delle singole componenti e interforze, così come nelle capacità di difesa dello spettro elettromagnetico e nell’utilizzo di tecnologie sempre più integrate e multidominio.

L’Italia già ha o avrà a breve piattaforme con queste caratteristiche. È un passo avanti importante per il nostro Paese, ma le trasformazioni che la guerra russo-ucraina ha portato nel modo di ragionare e anche di interpretare il combattimento si vedranno sul medio-lungo periodo. Si può dire che, allo stato attuale, si è in una fase di “apprendimento” delle esperienze provenienti dai campi di battaglia. Questo vale anche per l’industria di settore, che alle esigenze delle Forze Armate deve rispondere.

Ritiene che gli investimenti sia in ambito europeo che nel contesto italiano siano adeguati a mantenere un certo grado di competitività delle nostre forze armate?

Ad oggi gli investimenti per la difesa in Europa sono assolutamente insufficienti rispetto a quelle che sono le esigenze reali delle forze armate. Se lo strumento militare serve per attuare una politica di deterrenza nei confronti di potenziali aggressori, non si può dire che l’obiettivo sia stato raggiunto.

Uno degli elementi dei quali si discute maggiormente è quello di rafforzare la base industriale della difesa europea, attraverso programmi cooperativi di sviluppo e produzione di armi e sistemi continentali, che possano essere impiegati collaborativamente con quelli statunitensi, ma che dagli USA non dipendano sotto il profilo delle licenze e della componentistica. Una strategia “autonomista” per la difesa europea può essere costruita, però, solo sul lungo periodo, quando non saranno le contingenze del momento, come la guerra d’Ucraina, a dettare la linea di politica militare e di politica industriale da seguire.

Al momento, infatti, al netto di eccellenti sistemi prodotti in Europa, una reale autonomia strategica non esiste e le forze armate dei Paesi europei sono dipendenti dagli armamenti acquistati dagli Stati Uniti o prodotti su licenza. Questo è dovuto al fatto che gli alleati europei dell’America hanno un problema di economia politica nei loro sforzi di produzione di armi, legato al potere di mercato degli Stati Uniti, frutto di una storica spesa superiore all’Europa e con un ampio margine di crescita.

A tal proposito, l’Italia si è fatta promotrice di un’idea ambiziosa: inserire le spese dell’IA all’interno del budget per la Difesa dal momento che, come dichiarato dal ministro Crosetto a Il Foglio, l’intelligenza artificiale è “un asset strategico e quindi indissolubilmente legato alla difesa della nazione”.

La proposta del ministro Crosetto è estremamente realistica e di buon senso. Se gli investimenti nella ricerca dell’IA fossero inseriti tra le spese per la Difesa, essi potrebbero contribuire al raggiungimento del 2% del pil richiesto in sede Nato. Tuttavia, bisogna individuare quali possano essere i filoni di ricerca di reale interesse strategico sotto il profilo militare. Quando si parla di intelligenza artificiale, spesso ci si limita a considerare quella generativa, dimenticando che il vero valore militare è insito nelle tecnologie applicate alla computer vision, alla video analytics, alla robotica e ai sistemi di sorveglianza. Tutti elementi che possono essere applicati sulle piattaforme di ogni dominio, ma anche impiegate per usi civili. Ancora una volta, dunque, torna il “dual use” come tema fondamentale anche sotto il profilo delle scelte economiche della difesa.

Mi preme sottolineare, comunque, che l’entusiasmo per l’IA potrebbe portare l’Europa a puntare tutto su un’unica tecnologia di riferimento, dimenticando che l’interazione tra innovazione, processo decisionale e ingegneria nella Difesa è un elemento da tenere sempre in considerazione proprio in virtù della spinta tecnologica degli ultimi anni.

Infine, ricollegandomi al suo intervento durante la manifestazione Rimland, il Forum sulla Geostrategia e Geoeconomia tenuto nel dicembre scorso ad Anagni, qual è l’autonomia decisionale che deve essere lasciata a questi strumenti avanguardistici?

Tutte le teorie sulle modalità d’impiego dell’IA, che vanno dallo svolgimento di compiti rischiosi sul campo di battaglia, come i rifornimenti ed il supporto logistico in area contesa, al sostegno “gregario” del soldato e delle piattaforme “manned”, fino ad arrivare all’elaborazione continua di dati, si ritrovano indistintamente ad affrontare la questione della divisione dei compiti tra intelligenza umana ed intelligenza artificiale. È una riflessione alla quale, sia sotto il profilo squisitamente tecnico-militare che industriale, non si può sfuggire.

Il tema dell’estensione capacitiva dell’IA – che c’entra poco con esigenze non più rimandabili come l’impiego delle nuove tecnologie per il rafforzamento delle capacità operazionali multidominio – investe il campo della prassi concreta e quotidiana per ufficiali e soldati e per chi allo sviluppo dell’IA e dei sistemi d’arma lavora.

C’è chi punta a creare le condizioni tecniche affinché gli stati maggiori euro-occidentali abbiano la possibilità di superare, qualora optassero per questa strada, il concetto di “human-in-the-loop”, dotando piattaforme come i droni di sistemi di IA con capacità “decisionale”; ma c’è anche chi ritiene che gli esseri umani mantengano un vantaggio notevole sull’intelligenza artificiale per compiti che richiedono conoscenza tacita e capacità di contestualizzare determinate situazioni, con il cervello dell’uomo che resta superiore a sensori ed algoritmi e che, pertanto, l’IA possa fornire un utile supporto ai decisori umani, mai scavalcarli.

 

Lorenzo Della Corte

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