L’incipit dell’ultimo libro (Conoscenza, governo degli uomini e governo della legge, Rubbettino, 2024, pag.101) di Lorenzo Infantino, emerito studioso del liberalismo e professore di filosofia delle scienze sociali nella Luiss, chiarisce di per sé il fondamento della breve ma densa dissertazione sulle origini e sulla natura della società libera.
Conviene citarlo per intero: “Accade spesso che l’essere umano si attribuisca meriti che non ha. La sua maggiore pretesa è quella di possedere una conoscenza di cui è palesemente privo. Michel de Montaigne ha affermato che l’uomo, ‘la più calamitosa e fragile di tutte le creature’, è nello stesso tempo ‘la più orgogliosa’, perché è afflitto da una ‘malattia originaria’, cioè dalla ‘presunzione di sapere’”.
La presunzione e la fragilità dell’essere umano sono tali e tante da fargli nutrire la convinzione di aver deliberatamente creato la civiltà, sebbene non in un unico atto, in un fiat, ciò che non fu concesso neppure a Dio. La “società aperta”, come hanno definitivamente appurato e dimostrato i settecenteschi pensatori britannici Mandeville, Hume, Smith, Burke, costituisce la “secrezione” del processo di civilizzazione, un prodotto dell’evoluzione umana generato inconsapevolmente dalla cooperazione spontanea degli individui.
Da molti anni il professor Infantino “rivolge l’attenzione ai rapporti fra conoscenza e ordine sociale”. Il lettore potrebbe qui domandarsi cosa c’entri la conoscenza dopo la stigmatizzazione, con Montaigne, della presunzione di sapere, che Hayek, il grande pensatore novecentesco del filone britannico, definiva addirittura “fatale” per la libertà. Ebbene, la conoscenza di cui scrive Infantino non solo c’entra eccome, ma rappresenta il plinto della conservazione della società libera, perché infatti coincide con la conoscenza socratica: scio me nescire, so di non sapere, che poi costituisce la più alta saggezza concessa all’uomo.
Il libro esplora, appunto, “il nesso che unisce le premesse gnoseologiche, di cui a volte non siamo consapevoli, e il tipo di società in cui viviamo”. Il “presupposto gnoseologico” della cooperazione sociale e dell’evoluzione naturale “è rappresentato dalla rinuncia ad ogni fonte privilegiata della conoscenza e dal riconoscimento della nostra condizione di ignoranza e fallibilità”. Siamo uguali anche perché ugualmente ignoranti che sbagliano, quanto ai problemi generali dello sviluppo sociale, sebbene esistano, per nostra fortuna, geniali innovatori in specifici campi delle conoscenze teoriche e pratiche.
La gnoseologia della “ignoranza egualitaria” costituisce pure una potente prova a favore del “governo limitato” ovvero della “democrazia costituzionale”, dal momento che, essendo i rappresentanti sicuramente ignoranti e fallibili quanto i rappresentati, non hanno alcun diritto di arrogarsi poteri illimitati, che presuppongono conoscenze tanto vantate quanto impossibili ad ottenersi. Perciò introvabili nelle persone preposte a governare e legiferare, spesso elette in base ad imperscrutabili motivi ed a ragioni biasimevoli, quando non investitesi del potere da se stesse addirittura con la forza.
Ignoranza, fallibilità e debolezze
Ecco il punto focale. Il “governo degli uomini” pretende di disconoscere ignoranza e fallibilità, loro effettive ed eguali debolezze, presumendo “l’attribuzione del monopolio di una superiore conoscenza a particolari individui”. Invece l’ignoranza egualitaria è presupposta dal “governo della legge” che implica “l’irrinunciabile condizione del processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori”.
Bisogna qui chiarire e sottolineare che le espressioni “governo degli uomini” e “governo della legge” vengono adoperate da Lorenzo Infantino nel loro vero e antico significato filosofico e politico. Chiarimento e sottolineatura vieppiù indispensabili perché al giorno d’oggi, ma da circa un secolo, hanno perduto il senso loro proprio e finito per evocare confusi e generici concetti politici, fino all’ovvietà. Che nelle democrazie i politici facciano le leggi e governino con esse, è una banalità sulla bocca di tutti.
Nondimeno, la commistione e compenetrazione tra legiferare e governare sono divenute così intense che le due espressioni, dal designare realtà politiche contrapposte, hanno finito per costituire una sorta di endiadi o dittologia, come “governo di leggi e di uomini”, cioè sistemi politici dei quali viene da molte parti lamentata la crisi ma senza intenderne la causa profonda: esser diventati democrazie illimitate e illiberali perché conformate, per colpa di politici e giuristi, alla stregua di ordinamenti più somiglianti al modello di “governo degli uomini” che al modello di “governo della legge”.
Vedi alla voce “rule of law”
Che cos’è esattamente il “governo della legge”, dal momento che anche nel “governo degli uomini” i governanti agiscono sulla base di norme paragiuridiche, che loro stessi, direttamente o indirettamente, impongono? A rigore, il “governo della legge” dovrebbe chiamarsi “governo del diritto”. Vale a dire, cioè, che il diritto, increato dalla volontà umana, governa l’azione umana. L’espressione “Stato di diritto” andrebbe benissimo se, purtroppo, non fosse diventato “Stato di leggi”, il che non è affatto la stessa cosa. Del resto rule of law, “governo della legge”, viene tradotto con “Stato di diritto”, ma l’espressione inglese ha un significato profondamente diverso: indica “una dottrina, un principio o un precetto legale autorevole applicato ai fatti di un caso appropriato”, mentre government by law significa “rispetto del giusto processo legale” (Merriam-Webster’s, Dictionary of Law).
Insomma il rule of law nasce con le corti di common law. Designa la giustizia ordinaria e l’uguaglianza legale piuttosto che il governo propriamente detto e il governare in senso generale. “Sembra potersi dire che, inteso nel senso inglese, il rule of law è privo di equivalenza nella civil law ed esprime, in talune di esse, dei valori fondamentali della cultura giuridica occidentale” (Francesco de Franchis, Law Dictionary, 1984, pag. 1306).
Il “governo degli uomini”, infatti, ha inventato la “giustizia sociale”, trasferendo la giustizia, cioè la conformità al diritto, dalle aule dei tribunali alle assemblee parlamentari e facendone lo strumento mediante il quale, sotto la spinta dell’illusorio quanto lusinghiero proposito di parificare pretestuosamente o di attenuare arbitrariamente le differenze delle posizioni materiali, perpetua le peggiori ed ingiustificate discriminazioni, spesso con l’avallo delle stesse Costituzioni, divenute a riguardo pressoché inutili per preservare l’uguaglianza legale delle persone.
Agli albori della civiltà giuridica
Il diritto è costituito dalle norme generali ed astratte, destinate a sconosciuti soggetti presenti e futuri, che prescrivono le modalità della condotta nell’indifferenza alle intenzioni e agli scopi dell’agente. Una norma giuridica esemplare del vero diritto è rappresentata dall’articolo 2043 del Codice civile: “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Un principio risalente quasi inalterato agli albori della civiltà giuridica.
Anche le norme fondamentali del codice della strada partecipano della natura del vero diritto, com’è del tutto evidente, considerando che le regole stradali servono tutti senza riguardare nessuno. Purtroppo la legiferazione si è sempre più allontanata dal formulare soltanto le regole giuridiche di giusta condotta. Ha raggiunto l’apice dell’antigiuridicità con le cosiddette leggi-provvedimento, contraddizioni in termini, nelle quali s’intravede tra le righe il profilo compiaciuto o addolorato del destinatario.
Possiamo usare la metafora della scacchiera di Adam Smith, citato da Lorenzo Infantino, per mostrare l’essenziale differenza tra le regole dei due sistemi. I proclivi al “governo degli uomini” ritengono di “poter disporre i diversi membri di una grande comunità così facilmente come la mano dispone dei diversi pezzi degli scacchi sulla scacchiera” e sono convinti che “i pezzi della scacchiera abbiano come principio di movimento quello che la mano imprime loro, mentre nella grande scacchiera della comunità umana ogni singolo pezzo ha un proprio principio di movimento, del tutto diverso da quello che il legislatore decide di imprimergli”.
Le regole degli scacchi, per quanto affascinanti nella loro matematica astrazione e cogenza, sono tuttavia una gabbia inviolabile. Perfino la regina, il pezzo favorito dalla più ampia gamma di mosse, ne è prigioniera. Il sistema totalitario è, al dunque, una scacchiera dove un capo al potere, da solo o con accoliti, presumendo di possedere una salvifica verità manifesta per giudicare e per agire, muove i governati, obbedienti nell’abalietà, come pezzi sulla scacchiera. È un uomo che governa altri uomini mediante ordini camuffati da leggi, emanando disposizioni che non sono regole generali di giusta condotta ma minuziosi precetti di organizzazione. Come se imponesse a tutti gli utenti stradali il percorso e la destinazione, gli orari e gli spostamenti, anziché lasciarli liberi di scorrazzare a piacere, lecitamente, nel rispetto del codice.
Il modello (inquinato) del governo della legge
Il totalitarismo, sottolinea Lorenzo Infantino, “è il gradino più alto nella scala del potere dell’uomo sull’uomo, la più estrema manifestazione del ‘governo degli uomini’”. Il XX secolo ha dimostrato che il gradino più alto e la più estrema manifestazione sono stati raggiunti, attingendo la perfezione del genere. Nella realtà geopolitica il “governo degli uomini” e per converso il “governo della legge” possono essere classificati in categorie a scalare oppure a misura della prevalenza dell’uno sull’altro nello stesso sistema.
Infatti, e purtroppo, il modello ideale del “governo della legge” è stato inquinato e distorto, dove più dove meno nel mondo, dal “governo degli uomini”, fino all’aberrazione di teorizzarlo e praticarlo sotto il nome di “democrazia illiberale”.
Diversi motivi, riconducibili tutti alla comune matrice umana dell’impazienza e della presunzione, hanno concorso all’alterazione: innanzitutto, la stolta passione di cambiare per cambiare, senza prudenza e riflessione; poi, la fragilità dei limiti al potere politico, pretestandone la sovranità assoluta; infine, la natura stessa del governo rappresentativo, nel quale i governanti e i parlamentari hanno finito per inseguire i voti che li inseguono, in spregio dell’uguaglianza legale. Soltanto sotto l’imperio del diritto l’individuo conserva la vera libertà, cioè la facoltà naturale di fare ciò che gli piace, se non impedito dalla legge, restandosene al riparo dalle arbitrarie volontà altrui, autorità comprese. Ed è questa libertà che gli consente di agire, come rileva il nostro Autore, secondo l’individualismo vero e il razionalismo vero, cioè imparando dalle conseguenze inintenzionali negative e profittando delle conseguenze inintenzionali positive, attraverso tentativi, esperimenti, errori, con la mobilitazione delle conoscenze di tutti i partecipi dell’interazione sociale.
Il libro del professor Infantino contiene la critica dei pensatori che orgogliosamente hanno sostenuto, consapevoli o inconsapevoli, idee coerenti con il “governo degli uomini”: da Descartes e la ricerca del “fondamento inconcusso” ai filosofi che variamente esaltano il modello spartano. La più larga parte è, ovviamente, dedicata ai maestri del pensiero liberale, a quei filosofi “darwiniani prima di Darwin” che per primi prospettarono una concezione alternativa delle creazioni e delle istituzioni della civiltà: dalla proprietà alla morale, dal linguaggio alla moneta, dal diritto all’ordine sociale.
Come Charles Darwin, a metà dell’Ottocento, rivoluzionò le idee sulle specie viventi fornendo la spiegazione scientifica dell’evoluzione per selezione naturale, così prima di lui, nel Settecento, Mandeville, Smith, Hume, Burke (e Montesquieu) dimostrarono che gli elementi costitutivi della società libera erano il frutto dell’azione umana ma non di un disegno umano.
Non erano stati pensati da chicchessia, ma si erano originati evolutivamente dalla cooperazione spontanea di individui inconsapevoli degli esiti finali di lungo termine delle loro azioni. Si erano imposti perché riconosciuti e verificati quali esiti inintenzionali positivi, che risolvevano i problemi della comunità e miglioravano la convivenza civile.
“In natura tutte le specie viventi interagiscono tra loro. Può succedere che alcune specie si evolvano di pari passo con altre: in questo caso parliamo di coevoluzione” (Sarah Darwin e Eva-Maria Sadowski, Evoluzione, Aboca, 2024, pag. 36). Possiamo ben dirlo: il “governo della legge” è il meraviglioso caso fortuito della “coevoluzione” di individui della stessa specie, liberi, indipendenti, responsabili.