Se dovessimo basarci su considerazioni meramente logiche e utilitaristiche, senza riguardi per l’etica che pure dovrebbe guidare la condotta di chi ha responsabilità di popoli e di sistemi complessi come sono le nazioni, il conflitto deflagrato in Medio Oriente dopo il pogrom del 7 ottobre scorso in Israele e che si va estendendo ai confini settentrionali dello Stato ebraico, sarebbe dovuto finire già da tempo. Invece si sta trasformando in una guerra di logoramento ma, non sembri una contraddizione in termini, a forte intensità; sempre che Israele non decida un’offensiva campale anche in Libano. Nonostante gli sforzi di una parte importante della comunità internazionale, le ostilità vanno avanti, come animate da una ineluttabile necessarietà; come fossero il risultato di eventi avversi, di calamità mosse da un cosmico, inesorabile e ruinoso determinismo e non dalle decisioni di uomini; ai quali nulla sembra importare se non la volontà di dissolvere il nemico, e che potrebbe trasformarsi in un suicidario cupio dissolvi. In circa mezzo secolo che seguo i fatti di questo travagliato quadrante, non mi era mai successo di provare una sofferenza così viva e un senso di sciagura incombente come in questa fase delle ostilità. Al centro della scena si staglia una figura luciferina, il premier israeliano Benjamin (Bibi) Netanyahu, su cui incombe il compito mostruoso che si è autoassegnato. Compito esiziale che potrebbe finire con l’annientamento del popolo palestinese o con la distruzione dello Stato di Israele.
Una celebre frase di Rabin
Io ho sempre sperato che malgrado le difficoltà – e spesso le ostilità – interposte dai palestinesi, in Israele potesse inverarsi la speranza racchiusa in una celebre frase di Yitzhak Rabin al tempo della prima intifada: rispondere alla violenza come se non esistesse il processo di pace e proseguire nelle trattative come se non ci fosse l’intifada. Rabin, assassinato in un attentato commesso da un ebreo come lui, ma appartenente alla destra religiosa più radicale, credeva invece in negoziati volti a restituire ai nemici una parte importante dei territori occupati, in cambio della pace.
Quanto ai palestinesi, naturalmente non possono non addolorarmi le decine di migliaia di vittime della repressione israeliana nella Striscia di Gaza, ma non riesco a fare a meno di pensare che se ai tagliagole di Hamas e a chi lo fiancheggia stesse a cuore la sorte della propria gente più di quanto sta al nemico israeliano, tanti lutti si sarebbero evitati. Nello scenario apocalittico (purtroppo non privo di potenziale realismo) che ho evocato, per me la perdita peggiore sarebbe Israele; intendo lo stato che ho conosciuto da ragazzo, dove ho vissuto e lavorato a lungo e in cui attualmente, oltre agli elettori del governo più reazionario che Israele abbia mai avuto, per fortuna vivono alcuni milioni di cittadini che quel governo lo osteggiano strenuamente. Tra questi, io “goy” posso contare alcuni dei miei più cari amici, ai quali non fanno velo differenze di religione, di etnia, di genere o di scelta di vita. Chiarito ciò, tento una mia analisi della situazione.
L’illusione di Netanyahu
Dopo gli eccidi del 7 ottobre, la reazione (peraltro non immediata) di Israele, per quanto pesantissima ed esplicata in fasi di crescente durezza, avrebbe dovuto far comprendere “urbi et orbi” quello che già era chiaro a molti, direi quasi tutti, in Israele e nei circuiti planetari ad esso vicini o contro di esso schierati: Hamas, la Jihad islamica e gli altri gruppi di resistenza e terroristici collegati non sarebbero stati annientati, cancellati dalla faccia della terra, come Netanyahu aveva dichiarato e, fingendo, ancora dichiara. Affidata ad altre leadership, più oneste intellettualmente e politicamente, ancorché parimenti determinate e probabilmente più efficienti – quelle dei grandi sionisti laburisti come Ben Gurion, Golda Meir, Rabin, Barak, e persino delle destre del Likud e non solo, rappresentate da Begin, Shamir, Sharon – le risposte israeliane sarebbero state ben diverse.
Esaurita la fase “a caldo” seguita al pogrom, scovati e distrutti i primi tunnel che popolano la vita ctonia di Gaza come un verminaio, quei leader avrebbero in primo luogo salvaguardato gli ostaggi mentre erano ancora vivi almeno in maggioranza, senza avventurarsi cinicamente in operazioni militarmente squilibrate, fornendo ai sunnominati tagliagole l’alibi del fuoco amico da parte di Tsahal (le forze armate israeliane) anche contro gli ostaggi e l’occasione di eliminare altri prigionieri per rappresaglia alla rappresaglia della rappresaglia della rappresaglia… A “bocce ferme”, si sarebbero incaricati il Mossad, lo Shin Bet e gli altri apparati segreti dello Stato di punire autori e mandanti del pogrom, nella misura del massimo numero possibile ma riducendo al minimo le perdite civili.
Forse, come era successo dopo gli attentati di Monaco, Roma e tanti altri ancora, ci sarebbero voluti mesi, anche anni, addirittura decenni, ma alla fine la vendetta ebraica sarebbe andata a segno. Non avrebbe, come sta facendo ancora, sparato nel mucchio per colpirne uno; sapendo che una volta ucciso (come è avvenuto nel luglio scorso a Teheran) un Ismail Haniyeh, uno Yahya Sinwar ne avrebbe preso il posto. E se domani, sempre coventrizzando Gaza e dinamitando la sua sotterranea tremolina o i “santuari” terroristici all’estero, verrà fatto fuori anche questo, gli succederà un altro capo più o meno uguale e funzionale, da vivo come da morto, a regimi come l’Iran, per i quali i palestinesi sono gli eterni utili idioti e carne da drone.
Probabilmente, una parte non trascurabile degli abitanti della Striscia non avrebbe approvato gli eccidi e i sequestri di ostaggi compiuti il 7 ottobre; oggi, dopo che decine di migliaia di civili sono stati uccisi nelle azioni dell’esercito con la Stella di Davide (oltre 40.000 secondo fonti palestinesi, che hanno appena diffuso un elenco di 34.000 nomi, circa la metà dei quali sarebbero bambini, e oltre centomila i feriti) è difficile immaginare che ci siano palestinesi che condannano il pogrom; comunque sfido chiunque a trovarne uno solo che lo dichiari apertamente.
Stato di guerra permanente
È sotto gli occhi di tutti che la finalità del premier israeliano è di dilatare le ostilità il più a lungo possibile, trovando sempre nuovi spunti per intensificare le attività militari, anche ben oltre i 365 kmq di Gaza. La Striscia, com’è di tutta evidenza, serve a Netanyahu come una sorta di “falso scopo”. Mentre una parte considerevole e oggi probabilmente maggioritaria della popolazione israeliana, pentita di aver rieletto due anni fa Netanyahu per un sesto mandato, vorrebbe mettere fine allo stato di guerra permanente con i palestinesi, riconoscendo il loro diritto a uno Stato indipendente mediante trattative vere e accettando anche l’egida della comunità internazionale e di organismi quali il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la Corte internazionale di giustizia dell’Aia, l’Unione europea, Amnesty International e la Human Rights Watch, ce n’è un’altra, ben più agguerrita, che ormai neanche troppo copertamente mira all’annessione di quanto più territorio possibile sottraendolo alla Cisgiordania, occupata dalla Guerra dei Sei giorni del 1967.
È la terra delimitata dalla linea armistiziale di 57 anni fa, che comprende anche Gerusalemme est. Quest’ultimo un punto spinosissimo quanto altri mai, dato che la città è stata proclamata da subito “capitale unica e indivisibile” dello Stato. Sulla questione gerosolimitana, peraltro, mentre la parte occidentale (dove sorgono tutte le strutture che, piaccia o no, ne fanno la capitale, Presidenza, Parlamento, Governo, ministeri, Corte suprema, sacrario dell’Olocausto e numerose altre) non è sostanzialmente messa in causa da nessuno, a parte la ridicola insistenza di molti, anche in Europa, di ostinarsi a indicare un inesistente “governo di Tel Aviv”, potrebbe forse esserci un margine per una sorta di status speciale per Gerusalemme est, pur senza riconoscerla come capitale di uno Stato palestinese. Poi forse, col tempo, una volta che la pace e la convivenza tra i due popoli fosse radicata e consolidata, chissà che lo “status speciale” non potrebbe allargarsi fino a includere una condizione di “capitale morale” – se non politica – della Palestina. Si capisce, però, che anche semplicemente indicare ipotesi come queste, date le circostanze attuali, suoni come un amaro o velleitario vaneggiamento.
C’è infatti l’altra parte degli israeliani, per i quali la Giudea e la Samaria (i nomi biblici corrispondenti alla Cisgiordania) devono diventare parte essenziale di Eretz Yisrael, il Grande Israele caro ai sovranisti, che secondo la Bibbia ebraica (che non comprende come sacre alcune parti dell’Antico Testamento cristiano) fu promesso da Dio agli ebrei. Sono gli israeliani che formano la destra radicale, oggi maggioritaria alla Knesset, come l’ala estremista del Likud e il laico Yisrael Beiteinu (Israele è la nostra casa) e i partiti ultraortodossi ancora più oltranzisti. Gli esponenti più noti ne sono Itamar Ben-Gvir, leader di Potere ebraico e ministro della Sicurezza nazionale, e Bezalel Smotrich, capo dei Sionisti religiosi e responsabile del dicastero delle Finanze. Due posti, come si vede, di primissimo piano, affidati a due facinorosi dai toni messianici, adorati dalle frange più militarizzate dei coloni e che vivono entrambi presso insediamenti illegali della Cisgiordania. In particolare Ben-Gvir, che ha subito decine di incriminazioni per atti violenti, prima di diventare deputato si è formato in organizzazioni che praticano il terrorismo ed era vicino al Kach, un movimento disciolto dalla Corte suprema negli anni ’80 per attività sovversiva.
Esiti apocalittici
È con questi e altri simili elementi che il premier porta avanti la sua politica, basata su una tattica che mira a dilatare il tempo e lo spazio. Lo spazio, è evidente, è quello che come ho detto, partendo da Gaza e dalle vendette per il pogrom di un anno fa si prefigge l’allargamento delle ostilità in tutta l’area mediorientale. Non si deve però cadere nell’errore di interpretare la sua come una semplice tattica dilatoria povera di motivazioni. Queste ci sono e rivestono la massima importanza. Sia per una strategia politica ad ampio raggio, sia per un effettivo tornaconto personale. Difficile dire quali dei due scopi prevalga sull’altro, tanto più che almeno in parte sono coincidenti. Da un lato – dilatazione spaziale – c’è la vagheggiata annessione di Giudea e Samaria (che naturalmente dal punto di vista del leader israeliano e di chi lo sostiene sarebbe un successo di portata biblica) e dall’altro c’è la dilatazione nel tempo, che allontanerebbe – e forse addirittura scongiurerebbe – la sua incriminazione con vari capi di accusa: sul piano interno per corruzione, frode e abuso di potere, mentre per crimini di guerra e contro l’umanità secondo la Corte penale internazionale. Reati, questi ultimi, in sé molto più gravi (e ascrivibili anche alla leadership di Hamas), ma molto difficili da provare; là dove i primi, se comprovati, costringerebbero Netanyahu alla detenzione o in alternativa a una latitanza all’estero.
Ma restando anche alle semplici e ipotetiche previsioni di breve periodo, come spesso succede nelle situazioni di crisi internazionali non è affatto improbabile che le cose possano sfuggire di mano, creando scenari bellici che potrebbero assumere esiti apocalittici. È pur vero che, indipendentemente dalla fine del bipolarismo, gli Stati Uniti restano la nazione più potente di tutte e che sarebbe ben difficile che cessassero di garantire, se necessario, la loro protezione a Israele. Che peraltro, benché non lo abbia mai ammesso ufficialmente, è a sua volta, da diversi decenni, una potenza nucleare di tutto rispetto.
Lo sguardo rivolto a Washington
In questi giorni, commentatori e analisti di politica internazionale ripetono spesso che Netanyahu seguita ad alimentare scontri di ogni genere col mondo circostante per guadagnare tempo in attesa delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, confidando nel ritorno del suo amico Donald Trump alla Casa Bianca. Io però non credo che in caso di affermazione di Kamala Harris Israele verrebbe “scaricato”. Penso che la situazione resterebbe nella sostanza invariata, venendosi a creare una specie di camera di compensazione tra le politiche dei due candidati nel loro atteggiamento verso Israele.
Questo per almeno tre ordini di motivi: l’elettorato ebraico in Usa è sempre stato nella sua maggioranza (dal 60 al 70 per cento) a favore del partito democratico; Trump, che ha fatto dell’infingimento e della bizzarria “tanto per mischiare le carte” una cifra della sua leadership, potrebbe sorprendere il mondo con una linea ancora più isolazionista, o meglio “monroiana”, di quella che va ventilando nella campagna elettorale, prendendo qualche distanza in più anche da Israele; l’eventuale contrasto della nuova amministrazione, democratica o repubblicana che fosse, verso la continuazione della politica aggressiva di Israele verso i vicini servirebbe essenzialmente a impedire la possibile marcia indietro di alcuni Paesi arabi e/o islamici di cruciale importanza, prima fra tutti l’Arabia Saudita, dal clima filo-occidentale determinato dagli accordi di Abramo, lanciati da Trump e tutt’altro che sconfessati da Biden.
Se dunque si può immaginare che comunque andassero le cose la politica degli alleati occidentali verso Gerusalemme resterebbe invariata, e che quindi Israele seguiterebbe costantemente a godere della protezione occidentale (magari concessa obtorto collo ma inevitabile), potrebbe però cambiare la percezione nei confronti di Israele mostrata sinora, non solo dagli amici ma anche dagli ebrei della diaspora. Che non perdonerebbero al regime del premier di aver cambiato, forse per sempre, il volto di un paese e il significato del sionismo. Un termine ispirato a principi egalitari d’impronta che oggi definiamo socialdemocratica, che 76 anni fa aveva dato vita a una nazione che avrebbe potuto continuare a essere un modello e fonte di ispirazione per molti, mentre rischia di trasformarsi in uno dei tanti stati-canaglia o stati-imbelli (v. Libano) che inquinano il mondo.
Lo scenario fratricida, non così impossibile
Tutto ciò, senza voler neanche immaginare uno scenario oggi non così impossibile: una guerra civile, fratricida, tra gli israeliani espressione di uno spirito democratico e di una sostanziale laicità statuale e il mondo dei numerosi cittadini che, talvolta senza confessarlo, appoggiano i coloni, nel frattempo moltiplicatisi in armi e protetti da corpi militari e di polizia, sempre meno attenti a prevenire e a punire le turpitudini degli abitanti degli insediamenti nei confronti dei palestinesi. Sono infatti in numero crescente i reparti che si fingono “distratti” in presenza di soprusi e nefandezze di ogni genere perpetrate contro gli arabi da civili non in divisa ma con abiti di foggia paramilitare, i quali per armamenti, capacità tecnica e logistica nulla hanno da invidiare ai soldati “veri”. Anche perché, i coloni, soldati lo sono già stati e, fino almeno ai 40 anni di età, ancora vengono richiamati ogni anno per alcune settimane come riservisti.
Se il piano del governo più contrario all’etica (anche ebraica) mai avutosi in Israele andasse a buon fine, per quanto riguarda la Cisgiordania il risultato potrebbe essere la ripetizione di ciò che avvenne per le Alture del Golan. Dopo la loro occupazione con la Guerra del 1967, nel 1981 il governo israeliano presieduto da Menachem Begin (ala più a destra del Likud) passò i due terzi di quel territorio sotto la propria amministrazione civile (l’altro terzo era stato restituito alla Siria), rendendo la sua annessione un fatto compiuto. Ciò anche mediante forti incentivi alle famiglie di nuovi immigrati che volessero trasferirsi negli insediamenti sorti nel frattempo, e nonostante che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con la risoluzione 497, avesse dichiarato l’annessione “nulla e inefficace”.
Se si comparano le superfici delle Alture del Golan controllate da Israele, circa 1.300 kmq, e quelle della Cisgiordania, superiori di quattro volte e mezzo (5.860 kmq), si comprende come i 365 kmq di Gaza siano ben poca cosa, anche dato il modesto valore strategico della Striscia rispetto alle Alture e alla Cisgiordania. Si comprende quindi che la Striscia stia servendo per quello che si definiva nelle scienze militari classiche (in artiglieria) il da me già richiamato “falso-scopo”: ossia servirsi di un bersaglio fittizio, per rapportarsi a quello reale, balisticamente non raggiungibile in modo diretto.
Ciò a meno di non volerne prioritariamente sterminare l’intera popolazione (quasi due milioni), diventando così responsabili di un vero genocidio, come assai impropriamente, per disonestà intellettuale e per ignoranza, sostengono certi strenui detrattori di Israele. In realtà, al di là di chi sia o potrebbe essere il suo governo, le distruzioni in corso a Gaza ricadono in altre terribili fattispecie come i “crimini di guerra”, purtroppo ricorrenti in questo genere di atti offensivi e di catene di vendette e contro-rappresaglie; non si possono però definire “genocidio”.
In relazione alle stragi del 7 ottobre, chiarito che come facilmente prevedibile era impensabile la “evaporazione” di tutte le organizzazioni armate nella Striscia, di guerriglia e terroristiche, si è capito che il continuo gioco al rilancio deciso da Netanyahu non solo non sarebbe servito a salvare tutti gli ostaggi – attualmente un centinaio nelle mani di Hamas e del Jihad islamico, dei quali appena la metà sarebbero ancora in vita – ma avrebbe fatto tutto il possibile per coinvolgere i nemici circonvicini, facendo assumere loro un ruolo di antagonisti principali.
Oltre mille raid, migliaia di missili, vittime a centinaia
A riprova di ciò c’è un massiccio dislocamento di forze da Gaza verso i confini settentrionali con Libano e Siria, dove in queste ore si susseguono sviluppi bellici gravissimi. Per restare a cifre di 48 ore fa, Israele ha compiuto circa 1.300 raid nel Libano meridionale e nella valle della Beqaa, dove sono concentrate le basi dei miliziani di Hezbollah, avvertendo reiteratamente la popolazione libanese di evacuare immediatamente quelle aree per non rimanere vittima dei bombardamenti. Ciononostante, le vittime accertate sono state almeno 600 e più di mille i feriti; nella maggioranza tra i guerriglieri sciiti ma anche tra i civili, tra cui decine di bambini. Il Partito di Dio ha risposto, lanciando centinaia di missili, razzi e droni contro gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, colpendo anche l’importante città portuale di Haifa, la terza del paese, e vari centri abitati dell’Alta Galilea. Uno scenario simile ma non uguale a quello di Gaza nelle settimane seguite al pogrom, data la ben maggiore potenza di fuoco e l’estensione della rete di tunnel di Hezbollah rispetto a quelle di Hamas nella Striscia.
A Gaza le risposte di Hamas erano state abbastanza velleitarie e quasi per “dovere d’ufficio”. L’offensiva/rappresaglia continuata di Israele, invece, come si sa è stata ed è tuttora pesantissima, con incursioni aeree distruttive seguite da cannoneggiamenti dei punti più nevralgici della Striscia. Lì però il prezzo maggiore lo hanno pagato i civili, moltissimi i bambini, e la “bassa forza” palestinese. Esseri ritenuti non più che “vuoti a perdere” dai capi delle milizie e, a maggior ragione, dagli israeliani.
Netanyahu e la spinta dei ministri messianici
Per proseguire nel gioco al rialzo e tirare dentro i nemici storici di altre nazioni, Hezbollah libanesi, Houthi yemeniti e, indirettamente, gli iraniani che li appoggiano militarmente ed economicamente, “Bibi” ha disposto che si allentassero ulteriormente i controlli di Tsahal sull’attività dei coloni in Cisgiordania. Il premier ha dato il tacito assenso alla costruzione di numerosi nuovi insediamenti, spinto dai suoi ministri messianici e suprematisti, e sostituito diversi capi di esercito e polizia, che erano di formazione laica ed alcuni di antica nomina laburista, con elementi più giovani e quindi meno esperti, appartenenti al nuovo corso di estrema destra e confessionale dell’esecutivo.
Il ministro della Difesa, Yoav Gallant, che stava per essere sostituito con un altro esponente del Likud, sembra che resterà al suo posto anche per l’escalation militare nel nord del Paese, della quale è uno dei protagonisti, non potendo non replicare, con potenza di fuoco moltiplicata, secondo il costume israeliano, alle controffensive che vengono dal Libano e, in misura minore, dalla Siria; offensive che però, per quanto riguarda l’aggravarsi degli scontri, sono essenzialmente risposte date dalle milizie sciite eterodirette da Teheran a iniziative israeliane.
Quando la scorsa settimana sono avvenute in Libano e in Siria migliaia di esplosioni di cercapersone (i teledrin predecessori degli smart phone), walkie talkie e anche pannelli solari, usati da membri dell’Hezbollah, di fronte a decine di morti e molte centinaia di feriti, con un numero consistente di vittime anche tra la popolazione civile estranea ai miliziani, si è capito subito che le serie di mini attentati (ovviamente non rivendicati formalmente da Israele, ma scopertamente opera del Mossad) preludevano all’escalation nei Territori (qui per mano dei coloni), in Galilea, al confine col Libano, e nel Golan, alla frontiera con la Siria.
Allo stato, contrariamente a quanto si pensava appena qualche giorno fa, sembrerebbe che Israele non sia intenzionato a cominciare operazioni militari di terra in Libano e ancora meno in Siria, insistendo su continui raid aerei contro entrambi i vicini. A questi, come ho detto, si risponde col lancio di centinaia di vettori esplosivi da parte delle milizie sciite, in larga parte intercettati e neutralizzati dall’iron dome, la “cupola di ferro” ormai da anni messa a punto da Israele.
Dagli Usa devono essere giunti segnali chiari all’Iran che Gerusalemme non verrebbe lasciata sola, anche nella più o meno trasparente riprovazione del suo operato da parte di Washington. Tanto più che mancano solo poche settimane alle elezioni negli Stati Uniti e a entrambi i candidati, Harris e Trump, sarà necessario ogni singolo voto, anche della comunità ebraica, per aver ragione dell’avversario.
“Bibi” sembra però ignorare minacce e avvertimenti di nemici e alleati. Vista con occhio distratto, la cartina di Israele (Territori compresi) può ricordare la sagoma di una nave da guerra, con la prua verso il basso. Sul ponte di comando si può immaginare Netanyahu a dirigere le operazioni. Ma più che un Dottor Stranamore, che ogni giorno esperimenta tattiche diverse per tenere calda questa guerra di logoramento a intensità crescente, mi viene in mente un Achab, ossessionato dalla sua balena. Malgrado tutto sono costretto a sperare che non sia il Leviatano a vincere. Perché, se prevalesse Moby Dick, a differenza che nel capolavoro di Melville non si salverebbe neanche Ismaele per raccontarcelo.
Carlo Giacobbe – Giornalista . Già corrispondente da Israele e da varie capitali. Autore di alcuni libri, tra cui Il sionista gentile