Il “pasticcio” sul “decreto-legge riparatore” delle conseguenze della sentenza sugli immigrati mi ha rinforzato nell’idea che la legge, molto spesso, è la gamba sghemba del diritto. Ma non è colpa di certi costituzionalisti che vedono soltanto bellezze nella Costituzione e non si avvedono che la tripartizione dei poteri è più mito che realtà. Il governo, inteso come esecutivo; il parlamento, inteso come legislativo; la magistratura, intesa come giudiziario, non solo sono intrecciati tra loro ma anche sottoposti e connessi alle leggi europee. Chiunque osservi spassionatamente la questione di attualità constata che l’intreccio, la connessione, la sottoposizione hanno generato un inestricabile, giuridico, nodo gordiano che neppure Ulpiano o Cicerone riuscirebbero a sbrogliare correttamente. Solo Alessandro Magno ci riuscirebbe a suo modo, troncandolo con un colpo di spada.
Il nodo, anziché ingenerare la massima prudenza negli esponenti dei poteri suddetti, ne ha scatenato l’improntitudine, che li ha spinti a pronunciare gli uni sugli altri meno giudizi che pregiudizi. Qui vorrei rimarcare un aspetto particolare della discussione che occupa gl’interlocutori e l’opinione pubblica. È stato detto, da autorevoli commentatori (hanno una cattedra universitaria), che il “decreto-legge riparatore” non avrebbe potuto riparare un bel niente perché la legge non può inficiare una sentenza.
Pertanto il presidente della Repubblica avrebbe dovuto rifiutarsi di autorizzarne la presentazione alle Camere.
Poteri non scritti
Lasciando da parte la questione se e quanto il presidente possa “sindacare” formalmente un decreto-legge che il governo assume sotto la sua esclusiva responsabilità, sappiamo che nelle fattispecie delicate il presidente della Repubblica esercita riservatamente i poteri non scritti di consigliare, ammonire, indirizzare, riassunti nell’espressione “moral suasion”. Tuttavia, esperita oppure no la persuasione autorevole, bisogna contestare l’opinione che il capo dello Stato possa opporsi a un “decreto-legge riparatore” che egli non condivida in quanto scelta “politica” del governo.
Mentre, ovviamente, egli può e deve eccepire tutti i rilievi di ordine giuridico che siano opponibili in quanto costituzionalmente rilevanti.
A riguardo è stato richiamato il caso Eluana Englaro. Si ricorderà che la magistratura sentenziò che quella sventurata giovane aveva il diritto di morire e che l’ospedale aveva il dovere di assicurarglielo. Contro le sentenze il governo Berlusconi insorse, anche con ignobili motivazioni (“la giovane donna può ancora diventare madre”, essendo in stato vegetativo da 17 anni!) e nel febbraio 2009 approvò un decreto-legge per evitare la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione in pazienti in stato vegetativo. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, rifiutò di firmare il decreto definendolo palesemente incostituzionale.
Vanificare una sentenza
Alle ore 20 dello stesso giorno e malgrado il monito del presidente della Repubblica, il consiglio dei ministri si riunì in una sessione straordinaria per deliberare un disegno di legge con gli stessi contenuti del decreto precedente. Il 9 febbraio 2009 il Senato, nonostante osservasse la chiusura in quel giorno, si riunì ugualmente per discutere del disegno di legge. Il 9 febbraio 2009, nella serata, arrivò la notizia della morte di Eluana, alla quale erano state progressivamente sospese alimentazione e idratazione a partire dal 6 febbraio. Il governo ritirò il disegno di legge.
A parte che il caso Englaro rappresenta, all’evidenza, una fattispecie radicalmente diversa e non può essere qui invocato per analogia, resta che il presunto divieto al decreto-legge, ergo alla legge, di vanificare una sentenza (divieto che pretendono di ricavare dalla tripartizione dei poteri nella Costituzione ed invocano nella fattispecie), seppure fosse esistito avrebbe nel tempo subìto tali e tante infrazioni da poter essere considerato tacitamente abrogato.
Non tiriamo in ballo Montesquieu
Quei costituzionalisti che vedono soltanto bellezze nella Costituzione non si sono mai accigliati, non dico scandalizzati, di fronte al Legislativo (decreto-legge oppure legge parlamentare) che, con l’acquiescenza di tutta la magistratura, annulla sentenze definitive su clausole contrattuali lecitamente stipulate; o all’esecutivo che, con l’acquiescenza della stessa magistratura che ha emesso le sentenze, ne frustra l’operato graduando la forza pubblica nell’esecuzione di sentenze definitive; o alla magistratura che, con l’acquiescenza del Legislativo, teorizza e pratica con pensieri, parole, azioni, un abnorme “controllo generale di legalità” (effetto, invece, dell’armonico ed efficace funzionamento dei tre poteri!), anziché limitarsi a sentenziare in particolare sui casi sottoposti al suo giudizio.
Perciò, non tiriamolo in ballo a comodo nostro, il barone di Montesquieu, nelle nostre ultime vicende, che hanno poco a che fare con il venerato nome del Diritto e molto con il “confusionarismo” giuridico nell’alto e nel basso delle istituzioni di un’Italia che vive in un permanente stato di “semilegalità” nell’alto e nel basso della società.