L’ultimo a fare risuonare, pur col suo stile felpato che privilegia i non detti, ma che tocca la sensibilità degli ascoltatori e dei lettori, l’allarme dei rischi del ritorno del populismo è stato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’assemblea di Confindustria. Nel suo discorso il presidente della Repubblica si è riferito ad un modo di fare politica basato sulla strumentalizzazione delle paure e sull’agitazione ed evocazione delle paure recondite e delle tensioni sociali tipico del populismo, che attraverso esse si sviluppa e si espande imponendosi di nuovo nel dibattito pubblico.
Seguendo la stessa colonna sonora il Presidente ha ricordato quale può essere la vera agenda prioritaria del Paese. Fatta, non di tormentoni o di annunci, ma dalla risoluzione dei veri nodi e problemi concreti del Paese. Un’agenda regolarmente messa in secondo piano specie da quel risuonare forte dell’eco del populismo (o in alcuni casi di populismo sovranista) di cui si è nutrito questo strano scorcio dell’estate allargata.
Forse il punto di svolta è avvenuto con il caso Vannacci e con il conseguente “vannaccismo”. Come è noto, si tratta di uno strano generale che per una decina di giorni è diventato il tormentone di molti organi di opinione. Onestamente ho trovato per certi versi patetico, ridicolo e triste il fatto che uno degli argomenti che più hanno dominato il confronto pubblico e le pagine dei principali giornali, fosse quello che riguarda un libro scritto da un certo generale Vannacci…
L’aspetto più patetico, però, e che tanto dice sullo stato del nostro confronto pubblico, è che la discussione su un libro letto comprato da molti ma forse letto da pochi (per fortuna!) di un generale abbia occupato il posto del confronto sui veri problemi del Paese. Ma, si sa, l’agenda della politica italiana è da tempo fatta di fogli sparsi e volatili, che nemmeno la tostissima presidente del Consiglio Meloni riesce a mettere insieme, e i veri problemi del Paese spesso finiscono per lo meno in certe fasi nello sgabuzzino del dimenticatoio.
Un libro che fonde la banalizzazione e volgarizzazione delle idee e dei temi di una certa destra politica, con pregiudizi, noncuranza verso i diritti civili tutelati dalla Costituzione e attacchi gratuiti verso le minoranze, che ha generato un rigurgito dei principali vizi e tormentoni del populismo ben nascosto dietro la bandiera pseudo libertaria del “vannaccismo”. Sul tema, a mio avviso, la posizione più seria, rigorosa e dignitosa mi sembra l’abbia assunta il ministro della Difesa Guido Crosetto in una lunga intervista concessa al Corriere della sera del 22 luglio.
Non lo so se il presidente del Consiglio Giorgia Meloni che ha abbastanza ereditato il modello togliattiano del “partito di lotta e di governo” (ovviamente lei non fa “lotta” ma a quello ci pensano i Donzelli di turno), stia calcolando i possibili effetti positivi in termini elettorali e di consenso che possono derivare dal ridicolo e pericoloso tormentone in atto provocato da questa specie di libro scritto da un generale, mentre, invece, anche in questa fase la Schlein sembra solo trovare la dimensione di partito di “lotta”(seppur sembra aver trovato finalmente un tema di “governo” con la battaglia del salario minimo).
Purtroppo tanti italiani, più o meno consapevoli, della loro impronta populistica e dilettantistica, hanno fatto circolare, nonostante abbiano letto meno libri di altri autori ben più seri, il libro di questo bravo generale, ma meno bravo scrittore.
Un libro che però ha innescato un tentativo di sposalizio intellettuale di certe frange della destra populista (da Salvini alle componenti più reazionarie di Fdi) con la nuova para formazione di estrema destra di Alemanno, che sembra che stia cavalcando gli effetti del ridicolo tam tam sul libro per accreditarsi con la frangia più estremista dell’elettorato di Fratelli d’Italia.
Il punto però è che se non fosse partito, soprattutto a destra, uno strano gioco di squilli di trombe e fiato ai vari “tromboni”, in una condizione in cui fra l’altro la sinistra, a cominciare da quella di Schlein e di Conte, ha ben poco da opporre e proporre, quel libro sarebbe già caduto nell’estivo dimenticatoio, il quale fu anche una delle mie speranze estive, purtroppo disattese…
Fui obbligato a tornare sulla questione, pur avendo auspicato un “pietoso velo di silenzio”, non perché io temessj in sé gli effetti del libro del “folgorante” generale Vannacci, ma perché, conoscendo come funziona il gioco di specchi tra certa stampa (e televisione) e certa politica, temevo gli effetti del “vannaccismo”, così come a suo tempo, sulla scia della vicenda Delmastro-Donzelli, temevo il “donzellismo”. Ma i rischi del “vannaccismo” potevano essere ben peggiori e maggiori, perché bene o male per il Donzelli di turno ci può essere una brava presidente del Consiglio come Giorgia Meloni che tira il freno a mano di fronte agli eccessi di questi personaggi, mentre il caso del generale è figlio di un fenomeno a spettro ben più largo.
Il “vannaccismo” attingeva, infatti, da quella dose mai spenta, e più che mai ravvivatasi nei giorni scorsi, di populismo presente nella società italiana, in certi partiti (non solo in Salvini, per ragioni di concorrenza politica in questa fase) e in certi spezzoni di essi. Un populismo ben miscelato con grandi dosi di dilettantismo, ovviamente. Il “top” di questa miscela, in fondo, credevo la avessimo già avuto con il governo Conte 1 della scorsa legislatura.
Il rischio oggi è che suonino le sirene e si alzino a 9 colonne le bandiere, si aprano nuovi spazi e nuovi varchi, anche in vista di quella rincorsa già in atto verso le elezioni europee. Un rigurgito populista che si è manifestato prima dietro la bandiera del vannaccismo e poi sotto quella di sgangherate proposte economiche e gaffe politiche. Mi riferisco ovviamente alla proposta di tassa sugli extraprofitti delle banche e sulle ultime tensioni europee come quelle emerse con il “caso Gentiloni”.
Ma se il primo è il rigurgito di un populismo pseudo sociale che rinnovando il conflitto tra “elite” e “popolo”, esaurisce la sua funzione in proposte bizzarre poi rigettate dalle autorità europee, per fortuna, il secondo invece pregiudica direttamente il nostro ruolo all’interno dell’Unione Europea, posizionandoci come un anello debole all’interno dello scenario continentale.
Il caso Gentiloni, è, infatti, figlio dello slogan e della cultura (per così dire) del “prima gli italiani”, e mi sembra solo l’ultimo dei casi di questa strana estate allargata agitati nello shaker del populismo sempre in funzione, come quello di certi bar di Forte dei Marmi.
Vari sostengono che anche il forte lancio mediatico sull’inasprimento alle pene dei minori sia un altro ingrediente agitato nello shaker del populismo, come del resto ne è una forma inedita il richiamo alla iericrazia, come si è visto con il caso di Ustica.
Ma ci sono ingredienti e ingredienti in questo pericoloso shaker. Quello basato sull’equivoco del “prima gli italiani” sul caso Gentiloni che tanto ha intrattenuto opinione pubblica e lettori, ad esempio, è tra i più pericolosi. Non solo perché rischierebbe di isolare l’Italia nel gioco europeo, avvicinandola come preferirebbe Salvini ad una alleanza minoritaria con Marine Le Pen, ma perché, attraverso una “cultura” di allarmi, di tormentoni, di sirene populiste si distoglie l’opinione pubblica dai veri problemi del Paese che passano in sordina dietro le “priorità” dell’ultima moda o dell’ultimo tweet, vanificando ogni progettualità seria per queste elezioni europee.
È necessario quindi per affrontare le sfide del lavoro povero, del PNRR e delle principali emergenze in atto, uscire dalla retorica di un populismo, più evocato strumentalmente in vista delle europee che realmente egemone, i cui clamori potrebbero non superare le europee del 2024, ma i cui vizi ed errori potrebbero scavalcare di gran lunga questa data.
Luigi Tivelli – Presidente dell’Academy Spadolini di politica e cultura