“Help! Help!” “Aiuto, Aiuto”. L’urlo disperato squarcia il buio della notte e sovrasta l’ululato del mare in tempesta. Il marinaio di guardia sul veliero Ong “Trotamar III” – un piccolo natante di colore giallo (per essere più facilmente avvistato) che solca il Mediterraneo per soccorrere migranti in difficoltà – percepisce quell’urlo e, per sincerarsi di aver sentito bene, spegne il motore della barca. “Help, Help”.
Di nuovo quell’urlo. Ormai non ci sono dubbi: qualcuno invoca aiuto. Il marinaio accende subito il faro ed ispeziona il mare buio innanzi a sé, fende l’oscurità facendo dirigere la barca verso il punto da cui gli è parso che quell’urlo – incredibile, pazzesco, forse inumano – provenga. Ed ecco, tra i flutti, una ragazzina, con indosso un giubbotto salvagente, disperatamente aggrappata a due ciambelle di salvataggio (in realtà due camere d’aria, forse di camion), che galleggia e prova a farsi vedere. L’equipaggio del veliero le lancia subito una cima, poi mette in mare un gommone, raggiunge la ragazzina e la porta subito a bordo. È mezza congelata, stanca, non parla, trema soltanto.
I marinai provano a tranquillizzarla, le danno una coperta termica, le dicono che finalmente è al sicuro. Poi la sua temperatura corporea piano piano risale, la bimba sta meglio, riesce a parlare. Racconta di essere partita da Sfax, in Tunisia, su un barchino di ferro mezzo arrugginito insieme ad altre quarantacinque persone, fra cui anche un suo fratello più grande. Poi, ad un certo punto, improvvisamente, forse per uno spostamento brusco di alcuni dei migranti, il barchino si è capovolto e si è inabissato. Con il suo carico umano. Inizialmente vicino a lei c’erano alcune persone, poi non le ha viste più. È rimasta così, sola, in balia dei flutti “per tre giorni” (forse anche meno: per chi si trova in quelle condizioni, attaccato ad un salvagente nel mare in tempesta, il tempo scorre molto più velocemente e le ore possono sembrare giorni).
Degli altri naufraghi nessuna notizia. Nemmeno di suo fratello. L’ennesima tragedia del mare, che, qui da noi, non fa più notizia. A parte il miracolo di questa bambina di 11 anni, Yasmine, che incredibilmente ce l’ha fatta.
Difficile anche solo immaginare come ha vissuto quei momenti: sola, in mezzo al mare in tempesta, con onde alte 2-3 metri, di notte e a dicembre, aggrappata disperatamente ad una camera d’aria, senza mangiare e senza bere, sperando di essere avvistata da qualcuno. Poi la luce del veliero, un barlume di speranza, le sue grida disperate e, finalmente, la salvezza.
Alla sua età avrebbe dovuto essere a scuola, nel suo paese d’origine, la Sierra Leone. Uno stato dell’Africa occidentale a ridosso dell’equatore, con un indice di sviluppo molto basso (180° su 187 Stati), dunque estremamente povero e con un indice di mortalità infantile molto alto. Uno Stato da cui chi può fugge.
Non a caso il padre, preoccupato dell’avvenire dei suoi due figli, li ha portati con sé, fino in Tunisia (oltre seimila chilometri di distanza) e, appena ha potuto, li ha imbarcati su quel barchino insieme ad altri disperati in cerca di un futuro migliore. Lui li avrebbe raggiunti dopo.
Ma quel viaggio, purtroppo, come tante altre volte in passato (e – c’è da giurarlo – tante altre in futuro), non è giunto a conclusione: il barchino si è capovolto, i naviganti sono morti. Tranne lei, Yasmine, disperatamente attaccata a quel salvagente improvvisato e alla vita, a testimoniare dell’ennesima tragedia del Mediterraneo, dell’ennesima tragedia dell’immigrazione, di cui, senza di lei, nessuno avrebbe saputo nulla.
Tanti, troppi sono stati, in questi anni i corpi di bambini morti annegati, adagiati su una spiaggia o stretti fra le braccia di impotenti soccorritori: tante le bare bianche negli hangar di Lampedusa, piccole macchie chiare in mezzo a distese di feretri contenenti corpi senza nome, vittime delle miserie del mondo e dell’indifferenza dell’Occidente.
Ma Yasmine ce l’ha fatta. Ora attende solo di ricongiungersi presto a suo padre (sempre che non vi siano altri ostacoli, dal momento che una recente legge ha reso più difficoltoso il ricongiungimento dei familiari).
Qualcuno ha parlato di “miracolo di Natale”. Sì, forse è davvero così, è un miracolo. “Ma quanto durerà?”, si chiede Donato Carrisi (sul Corriere della Sera). Durerà poco, perché – scrive sempre Carrisi – “da qualche parte c’è un’altra barca di ferro che ha appena preso il mare. Su quella barca altri figli da salvare. E su una spiaggia dell’Africa adesso c’è un altro padre col braccio teso verso l’orizzonte, le lacrime agli occhi e un’indicibile paura al cuore”.
Roberto Tanisi – Magistrato, già presidente di tribunale e di corte d’appello