“Sarà l’età dell’oro dell’America”, dice Donald Trump quando si presenta alla folla dei suoi sostenitori a Palm Beach, con alle spalle una selva di bandiere a stelle e strisce e la moglie Melania che squaderna un sorriso stampato da copertina di Vogue. “Il paese ci ha dato un mandato senza precedenti”, ripete, e quasi quasi non sembra crederci fino in fondo neanche lui. Eppure è impossibile dissentire: la mappa elettorale, aggiornata dai principali media statunitensi in tempo reale, è un immenso blocco rosso fuoco che occupa la parte centrale degli Usa, mentre il blu democratico è solo una sorta di cornice ai lati che lambisce i due oceani, l’Atlantico e il Pacifico.
L’abbaglio colossale
Per molti è l’american dream, per molti altri è l’american nightmare, l’incubo americano, immagine perfetta di un paese spaccato in due. Ma anche la fotografia di una specie di colossale abbaglio collettivo: e no, non quello di chi ha votato per l’ex tycoon, l’uomo sotto processo per incitamento all’assalto di Capitol Hill, il tempio della democrazia.
L’abbaglio, l’errore prospettico colossale che ha accompagnato l’elezione del quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti d’America – il ritorno di Trump alla Casa Bianca dopo la parentesi di Joe Biden – va oltre le categorie di destra e sinistra, va oltre le categorie classiche della politica, quelle per cui gli schemi logici, sociali, economici, finanche pre-politici normalmente ordinano i fenomeni di ogni società in divenire. All’alba livida del trionfo trumpiano – completo, ben maggiore di quello di otto anni fa – appare necessario prendere atto, finalmente, del fatto che non siamo ad un incidente di percorso della storia americana: i numeri sono tali perché con assoluta evidenza hanno dato il proprio voto a Trump non solo i disperati dell’America profonda, ma anche gli americani moderati che sulla carta avrebbero potuto sentirsi estraniati dal Trump dei tanti processi a cui deve rispondere, dalla sua comunicazione borderline (tipo quando, pochi giorni fa, ha simulato del sesso orale durante un comizio), dall’incitamento della folla che ha assaltato Capitol Hill, dalle battute sui portoricani, da quelle sugli haitiani che “mangiano cani e gatti”.
Sì, bisogna prendere atto del fatto la narrativa incarnata dal magnate ed ex tycoon che sbaragliò senza colpo ferire l’orgoglioso partito repubblicano – ormai svuotato al suo interno – è più potente non solo di qualsiasi altra narrativa, ma finanche dei fenomeni di cambiamento sociale, delle tecniche demoscopiche, dell’economia intesa come politica di governo: Trump ha ottenuto un sostegno convinto da tutte fasce sociali, da tutti i gruppi etnici di cui è disseminato un paese fatto di diversità quale sono gli Stati Uniti. Ossia: hanno votato per Trump una buona fetta dei latinos, segmenti crescenti anche se non maggioritari delle comunità afro-americane, in massa i cittadini di origini arabe. Quasi tutte le fasce d’età hanno preferito Donald a Kamala.
Dove sono andati i voti delle donne
Stando allo studio sui flussi elettorali elaborati “sul campo” dai ricercatori della Edison Research (che hanno battuto oltre 500 seggi in tutto il paese e hanno condotto migliaia di interviste sia tra chi ha inviato il proprio voto per posta sia tra gli early voters), il voto trumpiano ha contradetto tutte le previsioni della vigilia: l’ex tycoon a sorpresa ha esteso la fetta di voto femminile a proprio favore rispetto al voto del 2020, e questo nonostante che i temi dell’aborto e dei diritti delle donne avessero una forza formidabile nella campagna elettorale.
È vero, The Donald ha perso qualcosa in quanto a voto bianco, ma comunque ne ha conquistati di più di Kamala Harris, così come ha esteso nettamente il sostegno del mondo cristiano. Il voto delle altre confessioni o dei non credenti per la maggior parte è andato alla candidata democratica, ma in misura decisamente minore rispetto a quanti avessero scelto Joe Biden quattro anni fa.
I sondaggi, le star del cinema e della musica che in massa hanno dato il proprio sostegno a Kamala Harris (da Taylor Swift a Harrison Ford, da Bruce Springsteen a Lady Gaga, da Meryl Streep a Beyoncé), ma anche fior fior di politologi e sociologi, per non parlare dei democratici ai vertici come di quelli di base, così come i grandi quotidiani della possente tradizione giornalistica americana: hanno sbagliato tutti. Sono saltati tutti i parametri che normalmente sostengono qualsivoglia teoria politica: anche per questo è stato un errore prospettico pure quello delle rilevazioni demoscopiche, che mostravano non solo e non tanto una partita sul filo del rasoio, con i due duellanti perfettamente appaiati (e così non è stato), ma anche e soprattutto un quasi incessante trend in crescita di Kamala Harris. Tutto sbagliato.
Qual è l’America profonda, davvero?
Ed era un totale abbaglio l’ormai famoso sondaggio Selzer che vedeva la democratica in vantaggio in Iowa, era un’illusione ottica la storia delle code infinite ai seggi a suggerire una crescita dell’affluenza che sembrava aiutare Kamala, si è dissolta al vento l’epopea delle donne che andate in massa alle urne per votare contro un sessista conclamato, accusato di stupro, ma soprattutto per affermare il diritto di decidere sul proprio corpo. Persino la demografia alza le mani dinnanzi all’uragano Trump: si era detto e ripetuto che la somma delle infinite minoranze – anche questa è certamente America profonda – per numeri e per forza fosse ormai una maggioranza che s’impone nei fatti sulla maggioranza bianca, e si era detto che fosse giunto il tempo di una donna alla Casa Bianca, per di più di colore e figlia di migrazione, perché questa è l’essenza dell’America. Si era detto che quella che nel 2016 era la travolgente “novità” Donald Trump oggi non è più tale, ché nel frattempo ci sono state le condanne e l’attacco a Capitol Hill con tanto di assalitore cornuto, si è ricordato ad ogni curva che decine di membri di primissimo piano della precedente amministrazione Trump hanno deciso di votare Kamala Harris, con l’ex chief of staff John Kelly che non ha esitato a definire il suo ex superiore un “fascista”, così come si sono completamente dissociati l’ex vicepresidente Mike Pence, l’ex consigliere per la sicurezza John Bolton, gli ex segretari alla difesa Mark Esper e Jim Mattis, l’ex capo dell’Fbi James Comey. Molti di loro preconizzavano la sconfitta di Trump.
Eppure: a sentire gli inviati alla campagna dell’ex tycoon, fino all’arrivo dei primi dati si respirava un’atmosfera “quasi di panico” perché l’idea era che si andava a perdere, a fronte anche dei vari comizi semi-deserti del tycoon che sbiadivano dinnanzi ai gioiosi happening democratici. E neanche si può dire che la campagna repubblicana fosse meglio organizzata di quella di Kamala: era piuttosto sgangherata, senza un centro visibile, con Trump a farfugliare talvolta frasi incomprensibili, laddove quella dem appariva sicuramente più coesa, meglio organizzata e, soprattutto, ben finanziata da fiumi e fiumi di milioni di dollari. Evidentemente non è bastato, nemmeno alla lontana.
E allora, oggi non si può che dire che a spingere l’elettore trumpiano alle urne sia stata l’inflazione, la desolazione di trovarsi alle prese con i beni sempre più inaccessibili al supermercato, che siano stati il lavoro povero e gli affitti alti ad attrarre l’americano medio a The Donald, come dimostrato da un altro dato di Edison Research: del 45% di cittadini Usa che afferma di star peggio economicamente che nel 2020, quattro su cinque hanno votato Donald.
It’s the economy stupid, sentenzia a tambur battente la Cnn sul suo sito. Eppure Joe Biden aveva messo a segno una serie di evidenti successi in campo economico, dalla riduzione drastica della disoccupazione ai grandi pacchetti d’investimenti: il grande mantra di ogni teoria politica è che alla fine è l’economia a muovere il voto, questa volta questo dogma è andato a senso unico, in direzione Trump. Perché, per dirla sempre con la Cnn, “se si paga a caro prezzo una tazza di caffè o non ci si può permettere di comprare una casa, ci si sente esclusi dal sogno americano”.
Ovviamente, zero di zero contano le valutazioni di politica estera (se non il vaghissimo sentiment per cui un Trump alla Casa Bianca metterebbe rapidamente fine ai conflitti in Ucraina e in Medio Oriente), non conta quasi nulla nelle motivazioni dell’elettore americano il sospetto di un possibile appeasement nei confronti di Vladimir Putin, e men che mai l’ondata delle operazioni di destabilizzazione lanciate dalla Russia in mezzo mondo, dai fiumi di fake news alle offensive d’intelligence passando per i fondi a forze politiche intese a scardinare lo status quo. Casomai è sentita con simpatia l’idea di imporre pesanti dazi alla Cina e all’Europa (nel caso dell’Ue con effetti pesanti sulla nostra crescita, ma tant’è).
Una cesura più radicale di quella del 2016
Dunque? Tutto quel che ci rimane è che questo voto rappresenta una cesura, più radicale di quella delle elezioni del 2016, quando The Donald sbaragliò Hillary Clinton contro ogni sondaggio, contro ogni previsione. E forse tutto questo ha a che vedere con i dissesti provocati dalla globalizzazione, con uno spostamento collettivo di quel che è percepito come realtà, e non solo (ma anche) con il fatto che la visione del mondo dei democratici – con i suoi richiami ottimisti a JFK o in stile Obama – evidentemente non è in sintonia con il sentimento maggioritario dell’americano medio (a cui risuona di più il miraggio spaziale del miliardario Elon Musk), così come sembrano caduti nel vuoto tutti gli allarmi secondo cui il ritorno alla Casa Bianca di Trump rappresenta un grave pericolo per la democrazia. E allo stesso modo è già evaporata nello spazio cosmico l’idea che il paese fosse pronto per una presidente donna e di colore. No: l’America profonda ha scelto a grande maggioranza un uomo anziano, un maschio bianco, il presidente più vecchio della storia degli Stati Uniti.
Quella che vi abbiamo narrato non è la storia del popolo contro le élites, è qualcosa di più: è qualcosa di mitologico e messianico, è l’epopea dell’eroe che torna, è la realtà che è al tempo stesso fiction e realtà (altro che star di Hollywood).
Benvenuti nella nuova età dell’oro dell’America.
Roberto Brunelli – Giornalista