Non è uno scontro tra titani, ma l’urto di due eccessi. Giorgia Meloni, una giovane leader, ruspante e combattente, abituata agli scontri verbali, querela per diffamazione Luciano Canfora, un vecchio professore, antichista coltissimo, appartenente alla sinistra dura e pura perché innamorato del comunismo. L’accusa di Canfora: Meloni è “neonazista nell’anima”.
Come giudicare la controversia? I punti di vista sono tanti. Il mio è che la Meloni ha sbagliato due volte: la prima, a non contraccambiare a Canfora di essere “uno stalinista nell’animo”; la seconda, a non fregarsene del giudizio di Canfora. Forse non lo ha ricambiato perché la replica diffamatoria, ammesso che Canfora consideri diffamatorio “stalinista”, avrebbe eliso “neonazista”. I due battibeccanti sarebbero stati su un piede di parità, escludendo le querele reciproche.
Non mi convince neppure il punto di vista secondo cui, divenuta la Meloni presidente del Consiglio dei ministri, la carica dovrebbe imporle di rimettere la querela. Sono due gli aspetti cruciali della questione: l’uno politico e l’altro giudiziario, che possono essere intrecciati oppure no.
Un presidente del Consiglio ha senz’altro il diritto, anzi il dovere di querelare un cittadino che gli attribuisca condotte politiche ignominiose: esemplare, e non solo in tal senso, fu il caso Alcide De Gasperi-Giovanni Guareschi. Il padre di Don Camillo, che pure aveva contribuito decisamente alla vittoria elettorale della Dc e del presidente De Gasperi nel 1948, gli imputa di aver chiesto agli Alleati di bombardare Roma, pubblicando sul “Candido”, diffusissimo giornale da lui diretto, due lettere false che avrebbero dovuto provare l’asserzione. De Gasperi querela Guareschi. Il tribunale condanna il querelato ad un anno di carcere. Guareschi accetta la condanna e va in galera a scontare la pena. Come ognuno vede, il caso è del tutto diverso, moralmente, politicamente, giuridicamente: la diffamazione è specifica, qualificata, infamante, a livello di alto tradimento. De Gasperi, gigante politico, persona integerrima, non solo fa bene a querelare Guareschi, caduto in un abbaglio, ma obbedisce addirittura ad un preciso dovere: rimettere alla magistratura l’accertamento giudiziario della sua condotta che, come fattispecie astratta, integrava una condotta criminale ignominiosa per il capo del Governo.
Il caso Meloni-Canfora, ripeto, se non coinvolgesse la presidente del Consiglio, resterebbe nell’ambito proprio degli screzi politici e delle polemiche personali. Meriterebbe un trafiletto di giornale perché sono personaggi pubblici. Ma qui vengono in considerazione i caratteri della nostra società e in genere della società liberale, che protegge la libertà di parola come sua qualità essenziale.
Secondo la “dottrina Hamilton” sul Primo Emendamento della Costituzione USA, “la libertà di stampa consiste nel diritto di pubblicare la verità, anche se costituisca censura al governo, alla magistratura, o ad individui, e di non essere puniti purché i motivi di tale agire siano onesti e i fini giustificati.” Tuttavia, considerando la “vigorosa rudezza del dibattito politico americano”, se gli attori nei processi per diffamazione e calunnia “sono così sfortunati di ricoprire cariche pubbliche o di aspirare a ricoprirle, debbono essere pronti ad addossarsi il quasi impossibile compito di provare che il convenuto ha agito con dolo particolare (special malice)”.
La signora Meloni, sia come militante, sia come deputata, sia come capo partito è consapevole ed abituata alla vigorosa rudezza del dibattito politico italiano. Non dovrebbe sentirsi offesa da Canfora, il cui epiteto, pur squalificante agli occhi di chi se ne senta personalmente immune, appartiene al mondo degli slogan aspramente offensivi della lotta politica, benché storicamente abbia il significato che indiscutibilmente ha.
Se fossi o fossi stato la presidente Meloni, mi sarei attenuto e mi atterrei al monito di Bertrand Russell, sebbene non sia, presumo, tra i suoi autori preferiti: “Non credo che le controversie siano dannose, generalmente parlando. Non sono le controversie e le aperte divergenze che mettono in pericolo la democrazia. Al contrario, esse sono la sua migliore difesa. È condizione essenziale della democrazia che i gruppi di maggioranza estendano la tolleranza ai gruppi dissenzienti anche col rischio che i propri sentimenti vengano offesi. In una democrazia è necessario che la gente impari a sopportare le offese…”
In conclusione, non vorrei essere nei panni del giudice che dovrà decidere. Se ne uscirà assolvendo Canfora per mancanza di dolo? Stabilirà che “neonazista nell’anima” non costituisce espressione diffamatoria sebbene diffamante? Sancirà che profferirla rientra nel diritto di manifestazione del pensiero? Purtroppo, il giudice dovrà sentenziare, a meno che la Meloni rimetta la querela, ciò che nell’interesse della libertà politica e della presidente del Consiglio sarebbe opportuno, anche per evitare un precedente destinato alla giurisprudenza nel Paese dei legulei.