Il gattopardismo è una realtà o una tentazione? Le opinioni si sono rincorse dal tempo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa con l’eccellente romanzo Il Gattopardo (1958) ben volgarizzato dal relativo film di Luchino Visconti, del 1963, che ebbe una favolosa giovane Claudia Cardinale come protagonista femminile insieme a magnifici attori maschili (Burt Lancaster e Alain Delon).
La questione, in ambito ecclesiale, è stata suscitata da un attento giornalista francese (Jean-Marie Guénois) che si occupa dell’attualità religiosa per il prestigioso Le Figaro. In un suo recente libro sul presente pontificato, egli parla del gattopardismo spirituale, ritenendo che nella più antica istituzione del mondo, la Chiesa, la tempesta “rivoluzionaria” odierna ne scuota le fondamenta (Pape François – La Révolution, Gallimard). In verità, il dibattito tra conservatorismo e rivoluzione non è solo di oggi e richiama alla memoria quel fare e disfare della tessitrice Penelope, la cui spoletta correva tra i fili del telaio di una storia sempre in movimento.
Così, mentre oggi si cerca di avere un’adeguata conoscenza dello status della Chiesa – e le pubblicazioni in questi ultimi dieci anni non sono mancate a motivo di pratiche religiose tradizionali venute meno, di punti fermi dottrinali indeboliti, di natalità e vocazioni in crisi, di proclami ambientali più che teologici e di discusse forme di sinodalità – emergono opinioni che portano a chiedersi quale sia la realtà ecclesiale e dove conduca.
In verità, la costante tentazione di cadere in un gattopardismo in quella che era la società religiosa del suo tempo era presente all’epoca di Gesù, il quale con il suo insegnamento, metteva in guardia dal «lievito dei farisei e dal lievito di Erode» (Mc 8, 15), cioè da un lievito che pervadeva sia i tessuti religiosi, sia politici ed economici insieme. L’evangelista Marco sembra assai interessato nel mostrare quanto il Cristo intendesse allertare contro quell’attitudine del suo tempo: «Vennero i farisei e si misero a discutere con lui, chiedendo un segno dal cielo, per metterlo alla prova» (Mc 8, 11); il suo magistero, infatti, appariva pericoloso per la società religiosa e civile di allora e, ai Discepoli perplessi, il Maestro domandava: «Non comprendete ancora?» (Mc 8, 21).
Ora, però, perché non si cada – per la Chiesa oggi – nelle sabbie mobili dell’incertezza di uno stato patologico cronico, ma anche – per il singolo fedele – in un presupposto ansiogeno, Gesù aveva proclamato che egli non era venuto a fare una contestazione distruttiva e denigrante: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento. In verità io vi dico … non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto» (Mt 5, 17-18). Il Maestro va oltre il gattopardismo di un tutto cambi perché nulla cambi, come pure di una rivoluzione senza prospettiva; al contrario, arriva al cuore della questione perché relaziona la persona con la propria metànoia, cioè il cambiamento profondo di chi aderisce con tutto il cuore al suo messaggio più profondo: le Beatitudini del Regno (cfr. Mt 5, 1-48); per retta comprensione, la Chiesa è chiamata essa stessa ad una adesione semper fidelis et semper reformanda; una Chiesa cioè che non disgiunge il rinnovamento dalla continuità.
Anche oggi, pur nelle contraddizioni in atto, ci si domanda, dunque, se nella Chiesa viga il gattopardismo ecclesiologico o ci si debba attendere una reale rivoluzione.
La comprensione, in termini più analitici di una simile questione, fu chiaramente enucleata da Benedetto XVI in un noto discorso alla Curia romana il 22 dicembre 2005, quando, a un certo punto del suo articolato pensiero, richiamando il quarantennale della conclusione del Concilio, si domandava: «Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito in modo giusto … insufficiente o sbagliato?». Pur riconoscendone il difficile cammino, commentava il Papa, «tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti.
Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l'”ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare».
Fu la prima e fondamentale risposta, dopo la sua elezione alla Cattedra di Pietro, ad una questione che circolava da tempo. Poi Benedetto XVI concluse facendo memoria degli eventi del 19 aprile di quell’anno, allorché, con «non piccolo spavento» disse, era stato eletto a succedere a Giovanni Paolo II. Nella penombra del suo ritiro nel monastero dei giardini vaticani, rimase sempre una sentinella vigile sulla Chiesa che aveva amato.
Gattopardismo dunque o rivoluzione? Alii et alii dicunt… La “risposta” data a suo tempo da quel nobile Pontefice – il quale riteneva che ogni rinnovamento nella Chiesa debba avere una solida base teologica – non è messa da parte neanche oggi. Papa Francesco si inscrive in questa linea cercando di portare avanti le strade aperte dal Vaticano II in chiave di continuità, ponendo le radici nella tradizione viva e vitale della Chiesa.
Esattamente un anno fa, nell’omelia della celebrazione del 60° anniversario dall’inizio del Concilio Vaticano II diceva: «Fratelli e sorelle, torniamo al Concilio, che ha riscoperto il fiume vivo della Tradizione senza ristagnare nelle tradizioni; che ha ritrovato la sorgente dell’amore non per rimanere a monte, ma perché la Chiesa scenda a valle e sia canale di misericordia per tutti».
Fernando Filoni – Cardinale – Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro