Erdogan e la guerra di Siria

Guerra civile, caduta di Bashar, fine di una dinastia, interrogativi sul futuro. L’attivismo di Erdogan. Un quadro storico-politico della Siria negli ultimi anni

Dal giorno 8 dicembre, dopo la caduta di Damasco, Bashar al-Asad e i suoi familiari si trovano a Mosca, che ha concesso loro asilo per motivi umanitari. Finisce così la storia di una dinastia che ha governato la Siria, con alterne vicende, per oltre cinquant’ anni.
Tutto inizia con Hafiz al-Asad, uomo forte che governò con pugno di ferro il suo paese dalla cosiddetta “rivoluzione correttiva” del 13 novembre 1970 alla sua morte nell’ anno 2000. Hafiz, già allievo dell” Accademia Militare di Homs e quindi pilota militare addestrato in Urss, in seguito al colpo di stato del 1966 organizzato dal partito Baath diventò ministro della difesa, esercitando un’ influenza crescente nella politica siriana fino a diventare presidente e leader incontrastato del paese. Dal 1970 o subito dopo al 2000 Hafiz cumulò le cariche di Presidente della Siria, Primo Ministro, Segretario generale del Comando nazionale del Partito Ba’th (fazione siriana) nonché di segretario regionale dello stesso partito.

Ma cos’era il partito Ba’th? e quali erano le sue determinanti culturali?

Il partito Ba’th, per esteso Partito del Risorgimento Arabo Socialista, era una forza politica laica con vocazione panaraba ed ispirazione socialista (anche se non legata alla lotta di classe) , fondato nel 1947 dai siriani Michel Aflaq ( di religione cristiano ortodossa) e Salah al-Din Bitar (musulmano sunnita) . Il Baathismo promuoveva la fondazione di un grande stato arabo, laico e socialista.
Nella fondazione del partito Baath ebbe un notevole rilievo anche Zakī al-Arsūzī , siriano di religione alawita di Alessandretta che dopo la fine dell’ impero ottomano ed in base ad un ideale panarabo si oppose alla assegnazione della sua città alla neocostituita Repubblica di Turchia. Va anche ricordato Akram al-Ḥurānī , siriano di Hama e fondatore del Partito Socialista Arabo, nonchè deputato per cinque legislature a partire dal 1943. Grazie a lui al nome del partito Baath verrà aggiunto l’aggettivo “socialista”, originariamente non presente.

L’ex presidente siriano Bashar al-Assad (LaPresse)

Morto Hafiz al-Asad nel 2000 in seguito ad un attacco cardiaco, il figlio Bashar fu eletto presidente della Siria il 17 luglio dello stesso anno.
Bashar inizialmente fu considerato un riformatore vista la sua intenzione di promuovere la normalizzazione delle relazioni tra Siria ed Israele ed un certo accenno di rasserenamento nelle relazioni turco siriane, storicamente molto tese, con l’ elezione di Erdogan ad Ankara. Le cose cambiarono nell’ anno 2011 con la Primavera Araba e con lo scoppio di una serie di rivolte popolari duramente represse dal governo, che sfociarono in una sanguinosa guerra civile.
L’ opposizione infatti fondò l’Esercito siriano libero, ma nacquero anche un certo numero di altre formazioni armate, molte delle quali di ispirazione islamista. In un paese molto diviso e con pesanti ingerenze straniere l’opposizione era sostenuta dalla Turchia e dal Qatar mentre sul fronte opposto la Russia, l’Iran e Hezbollah ( partito armato libanese sciita ed antisionista, su posizioni filoiraniane ) appoggiavano il regime di Damasco.
In un quadro geopolitico che andava progressivamente complicandosi le regioni a maggioranza curda confluirono nell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est, nota anche come Siria del Rojava ; si tratta di una sorta di regione autonoma situata proprio nel nord-est del paese che non era riconosciuta dal governo di Bashar.

In tale contesto l’ attore più pericoloso era al-Dawla al-Islāmiyya, cioè un’ organizzazione paramilitare nonchè terroristica con vari padri e importanti ramificazioni internazionali, fondata con il nome di Al-Queida in Iraq da Abu Musaq al-Zarquawi e da Abu Bakr al-Baghdadi come Stato Islamico. Al-Baghdadi il 29 giugno 2014, in coincidenza con la presa della città di Mawsil in Iraq, si autoproclamò emiro di un califfato dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, entità che nel periodo tra il 2013 ed il 2015 riuscì a a prendere il controllo di buona parte della Siria centrale e orientale.
Nel periodo tra il 2016 e il 2017 le forze del governo di Bashar, con un contributo importante degli alleati esterni tra cui i russi, ripresero il controllo su gran parte del territorio nazionale. Dal 2020 all’ autunno 2024 il conflitto si stabilizzò con una suddivisione de facto del paese; abbiamo già detto del governo ufficiale, mentre l’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est occupava le regioni nordorientali e l’opposizione controllava le zone del nord-ovest.

E negli ultimi mesi del 2024 le cose cambiarono rapidamente

In tale contesto l’opposizione – molto sostenuta dai turchi – attaccò a fondo occupando Aleppo e mentre l’ esercito di Bashar si lasciava travolgere i ribelli conquistarono Damasco, provocando la caduta del regime. I ribelli raggiunsero subito la prigione di Sadynaya, 30 km a nord della capitale, considerata da Amnesty International un mattatoio di esseri umani, e liberando migliaia e migliaia di prigionieri.

Dopo la caduta di Damasco gli insorti continuarono la loro marcia entrando a Deir Ez Zor, prima città della Siria orientale e settima del paese ed una delle prime a rivoltarsi nel 2011 contro il regime di Bashar. In un’ atmosfera da 8 settembre almeno duemila militari dell’esercito siriano regolare abbandonarono le uniformi rifugiandosi in Iraq, come dichiarato alla Reuters da Turki al-Mahlawi, sindaco della città di frontiera di al-Qaim.
L’ offensiva è stata rapidissima, dal 27 novembre al 7/8 dicembre.

Secondo Mariano Giustino, giornalista molto esperto nelle questioni mediorientali che cura una rassegna stampa turca sempre molto informata, le forze ribelli probabilmente hanno lanciato la loro campagna a fine novembre con l’approvazione dello stesso Erdogan, che in un primo momento aveva bloccato l’offensiva di Hay’at già in preparazione ad ottobre.
La guerra in Siria, peraltro, non si può ancora considerare finita dato che nella settimana di Natale nel nord del paese è terminato un cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti tra I ribelli sostenuti dalla Turchia e la milizia curda in terra siriana. Gli sviluppi di questa vicenda sono tutti da verificare e secondo molti osservatori il ridimensionamento dell’ Amministrazione Autonoma della Siria del Nord Est potrebbe essere uno degli obiettivi dei ribelli filo turchi che hanno abbattuto il governo di Bashar .

Chi governa oggi a Damasco?

Al Jolani attuale presidente della Siria (AP Photo/Omar Albam)

Iniziano i giri di valzer della politica internazionale. Ursula von der Leyen e Annalena Bearbock, ministro degli esteri tedesco, visitano Ankara per parlare con Erdogan. Allo stesso tempo gli americani vanno a Damasco e revocano il mandato di cattura e la taglia milionaria pendenti sull’ ex-jihadista Al-Jolani, che fa discorsi di tregua e pacificazione.
Oggi a Damasco governa Hay’ at Tahrir Al Sham (HTS o “Organizzazione per la liberazione del Levante”) una formazione sunnita in precedenza affiliato ad al-Qaida e considerata terroristica dagli Usa e dall’ UE, ma anche dalla Turchia che però su questo ( ed altro) ha chiuso non solo un occhio, ma tutti e due. Le cose stanno cambiando e Middle East Eye riporta che una delegazione di diplomatici Usa è arrivata venerdì 12 dicembre a Damasco dove ha incontrato alcuni rappresentati di Hay’at, la fazione di ribelli di cui Al Jolani (al secolo Ahmad al Sharaa) è leader, decidendo come primo passo di revocare il mandato di cattura e la taglia di 10 milioni di dollari che pendevano sulla sua testa. Sia come sia gli americani considerano ancora il gruppo un’organizzazione terroristica, tanto che alla vigilia di Natale hanno aumentato i soldati di stanza in Siria che sono arrivati al numero di 2.000.

Il ruolo della Turchia

Vale la pena di ricordare che in questi anni la Turchia ha sostenuto in tutti i modi Hay’ at; il gruppo si riforniva attraverso il confine turco siriano, lungo oltre 900 km e non certo impermeabile, mentre forze turche lo proteggevano dagli attacchi dell’esercito di Bashar al-Asad. Hay’at nel frattempo controllava la provincia di Idlib attraverso un governo con 11 ministeri, esercitando la sua autorità con l’ imposizione di tasse ed persino concedendo licenze per l’ installazione di antenne telefoniche, tanto che molti dei sudditi lo consideravano quasi un dato di normalità; nello stesso tempo la Turchia ha anche gestito gli aiuti internazionali nelle aree occupate da Hay’ at.

Il giro di visite ad Ankara e a Damasco

In questa situazione il ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock, venerdì 12 dicembre si era recata ad Ankara per incontrare Hakan Fidan, il ministro degli Esteri turco. Fidan ha elaborato la strategia di Erdogan in Siria coordinando operazioni di intelligence oltre ad azioni militari contro le milizie curde, considerate dal governo Erdogan vicine al Pkk.
Nell’ occasione la Baerbock ha chiesto alla Turchia di svolgere un ruolo costruttivo nella transizione pacifica, dichiarando che “La Siria potrà essere ricostruita e le persone potranno tornare solo se nessuno dovrà più temere di essere perseguitato”, avvertendo che “la Siria non deve diventare né il gioco di potenze straniere né un esperimento per forze radicali”, con un trasparente riferimento ad Hay’at. A seguire il ministro ha lanciato un monito sul rischio di (ulteriori) violenze nella Siria del nord, con particolare riferimento alla situazione dei curdi nella città di Kobane* e al timore di attacchi da parte delle milizie filo-turche.

La questione siriana è a tal punto scottante che martedì 17 dicembre anche la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen si è recata ad Ankara per incontrare Erdogan. Tale visita era già stata anticipata dalla presidente in un tweet su X, facendo riferimento ad una conversazione telefonica avuto con lo stesso Erdogan dopo la caduta del regime siriano. I colloqui tra i due seguono l’annuncio dell’ UE relativo all’ operazione “Ponte Aereo” per consegnare le prime 50 tonnellate di forniture sanitarie alla Siria tramite la Turchia. In seguito agli incontri Ursula von der Leyen ha annunciato ulteriori cospicui aiuti, non meno di un miliardo di euro, per gli oltre 3 milioni di profughi siriani registrati che sono ospitati in Turchia ( anche se il numero degli irregolari resta ignoto) e ciò sulla base di un accordo del 2016 tra Ankara e l’ UE, stipulato al fine di impedire ai rifugiati di raggiungere l’Unione passando per la Turchia. In questi giorni, comunque, si è saputo che migliaia di profughi siriani sono in fila ai confini per ritornare in patria , e secondo alcuni i rimpatriati potrebbero già essere circa 115 mila.

Nel frattempo il giro degli incontri continua ed il 3 gennaio i ministri degli Esteri di Germania e Francia sono sbarcati a Damasco per incontrare al-Jolani. Bisogna ricordare che la Francia ha con la Siria legami storici molto antichi, mentre la Germania ha accolto circa un milione e mezzo di rifugiati siriani, che nei giorni scorsi hanno fatto sentire la loro voce manifestando in diverse città tedesche.
Quella di Annalena Baerbock e Jean-Noel Barrot è stata una visita piena di impegni; dopo gli incontri ufficiali i due hanno anche visitato la terribile prigione di Saydnaya e Barrot ha incontrato Mazloum Abdi, leader delle FDS ( Forze Democratiche Siriane a maggioranza curda), oltre ai rappresentanti della comunità cristiana.

La visita ha avuto anche l’ imprimatur dell’ Alto Rappresentante europeo per la Politica Estera Kaja Kallas, che in un tweet su X ha chiesto alla nuova leadership di rispettare i principi concordati con gli attori regionali e di garantire la protezione di tutti i civili e delle minoranze.
Il ministro Barrot ha affermato che sarà necessario arrivare ad una soluzione pacifica con i curdi, alleati della Francia, affinché siano pienamente integrati in questo processo politico.

Ma tutta questa attenzione delle istituzioni internazionali come si spiega?

Va sottolineato che oggi Erdogan non è solo l’ uomo forte della Turchia, ma è anche il leader che attraverso le milizie di Hay’at controlla la Siria. Nelle relazioni turco siriane si tratta di una novità assoluta perché dalla caduta dell’ impero ottomano in poi i rapporti – difficilissimi – tra i due paesi si sono trascinati in un conflitto strisciante e non dichiarato, con la Siria che tra le due guerre mondiali ospitava vari gruppi avversi alla Turchia come i militanti curdi ed armeni, ma anche sostenendo il PKK (il partito dei lavoratori del Kurdistan) al di fuori dei propri confini; la Turchia in vari momenti storici – anche molto recenti – dal canto suo ha fatto lo stesso ed anche di più.

Come avevamo già accennato in una certa fase c’ era anche stato un rasserenamento delle relazioni turco siriane, iniziato nel 2003 quando Erdogan diventò primo ministro per finire intorno al 2011 con lo scoppio della rivolta siriana anti Asad e la successiva repressione. Da qui in poi, con la guerra civile, Ankara ha sempre sostenuto le forze ribelli a cui permetteva di attraversare il lungo confine, come abbiamo detto non certo impermeabile, per condurre azioni militari in Siria contro l esercito governativo.

Bisogna dire che, nell’ ultima fase del conflitto, Asad ha gestito il rapporto con il vicino turco limitandosi a temporeggiare. Infatti nonostante i cospicui aiuti dell UE i milioni di siriani rifugiati in Turchia erano una spina nel fianco di Erdogan che diminuiva anche il suo consenso elettorale. Per questo l’ uomo forte di Ankara ha cercato più volte di concordare il loro rimpatrio con Asad il quale è sempre stato elusivo. Poi i problemi internazionali di Russia ed Ucraina hanno creato l’ occasione, e la repentina offensiva dei ribelli siriani ha fatto il resto.

Erdogan si è preso un grosso rischio con questa operazione di “regime change” in Siria, progetto a cui erano fortemente contrari i paesi confinanti come Iraq e Giordania ma anche ad esempio Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi per tacere di Iran e Russia, fino a spingere la Turchia in una certa situazione di isolamento. A questo proposito Ibrahim Kalin, uomo vicinissimo ad Erdogan e già suo consigliere capo, nel 2013 definì l’impegno turco a favore dell’opposizione islamista siriana come una politica estera di preziosa solitudine.

Ibrahim Kalin, ora capo dei servizi segreti turchi ( MIT), a dimostrazione del forte coinvolgimento di Ankara a metà dicembre ha visitato Damasco incontrando il leader della rivolta Abu Mohammad Al Jolani e il presidente del governo di salvezza siriano Mohammed Al Bashir. Dopo i colloqui Kalin si è recato a pregare presso la Grande Moschea degli Omayyadi, e durante il tragitto verso la moschea è stato riconosciuto ed acclamato dalla folla.

Il gioco di Erdogan tra russi ed americani

La politica estera della Turchia ( membro della Nato con un alto grado di indipendenza) negli ultimi anni è stata condotta con grande abilità, come vedremo da alcuni casi concreti.

Per quanto concerne Hay’ at la Russia aveva molto sollecitato il governo turco per indurlo a interrompere i rapporti con il gruppo islamista, chiudendo anche l’ esperienza del governo della città di Idlib protetto da Ankara; tale richiesta non è mai stata riscontrata da Erdogan con forte irritazione di Mosca. Ora bisognerà vedere che fine faranno le varie basi russe presenti in Siria, in primis quella di Tartus.
Ben più articolate e complesse sono invece le relazioni turco americane, segnate dall’ annosa vicenda del sostegno degli Usa alle Unità di protezione del popolo curdo, in passato non solo aiutate da ripetuti attacchi aerei statunitensi contro le forze dello stato islamico ma – soprattutto – rifornite con lanci di armi nell’ ottobre del 2014, poco più di 10 anni fa. In quel periodo era iniziata un’ampia controffensiva dell’ Isis su Kobane ed il nord dell’Iraq, che coinvolgeva anche la delicata zona della diga di Mosul in territorio iracheno ( già nota come diga di Saddam) e nella valle di Ninive. L’ aviazione americana prima aveva effettuato una serie di 135 attacchi aerei contri i jihadisti nei dintorni di Kobane e poi molti lanci di attrezzature e materiale al fine di permettere agli assediati di resistere all’ attacco in corso contro la città. In ringraziamento un portavoce delle forze curde confermava che “una larga quantità di munizioni ed armi” aveva raggiunto gli assediati.

Barack Obama, allora presidente Usa, aveva telefonato ad Erdogan comunicandogli i piani americani e definendo lo Stato islamico un “nemico comune” di Usa e Turchia. Il governo turco, pur avvertito, aveva precisato di considerare con molta diffidenza i curdi siriani per via dei loro legami con i curdi turchi. Va anche ricordato che tutto ciò avveniva dopo mesi di tentativi falliti degli Usa per convincere la Turchia ad un maggiore impegno contro lo Stato islamico.

Questo episodio è una delle chiavi per capire il successivo svolgimento della vicenda siriana.
Come ricorda Mariano Giustino in questo problematico quadro si inserì la Russia con il suo intervento in Siria nel 2015; a quel punto Erdogan non potè fare altro che dare via libera alle forze russe nel rispetto delle reciproche sfere di influenza, con il salvataggio del regime di Assad. A seguire, nel 2019, Erdogan potè a sua volta lanciare un’azione militare nella Siria nord orientale per frenare l’avanzata curda, un obiettivo ritenuto necessario dal suo governo per consolidare l’ alleanza interna con i nazionalisti turchi. In quest’ ottica non possiamo dimenticare che nel 2025 Erdogan, riconoscente per il consenso russo a quell’ operazione militare in Siria, prese una decisione di rottura e comprò i sistemi di difesa missilistici russi S400. Dopo questo giro di valzer ci furono inviperite reazioni americane che impedirono la messa in linea degli S400 da parte dell’ esercito turco.

Gli S 400 sono un vero pomo della discordia e la loro storia lunga e complessa non è ancora finita, anche se pare avviata ad una positiva risoluzione. La scorsa estate l’ex ministro e uomo d’affari turco turco Cavit Çağlar, decorato dal presidente russo Vladimir Putin con la medaglia dell’Ordine di Stato dell’Amicizia, ha rilasciato un’intervista all’agenzia di stampa turca T24 in cui ha parlato del futuro dei sistemi S-400 Triumf ancora non operativi, che potrebbero essere ceduti dalla Turchia a paesi terzi. La loro ventilata dismissione sembra legata non solo a motivi di opportunità nei rapporti con Usa e Nato ma anche alla decisione di Ankara di realizzare il programma Steel Dome per la difesa aerea nazionale, approvato il 6 agosto scorso, impiegando sistemi missilistici di concezione e produzione turca.
Non c’ è solo la Siria. Gli ambiziosi programmi di Erdogan, sultano neo ottomano
In questa fase Erdogan, alla guida di una importante potenza regionale con aspirazioni ben più alte, gioca a tutto campo come dimostra la sua partecipazione alla riunione dell’ organizzazione per la cooperazione economica D8 tenutasi pochi giorni fa al Cairo. Il D8 è un’ associazione per la cooperazione economica di cui fanno parte Egitto, Bangladesh, Indonesia, Iran, Malesia, Nigeria, Pakistan e Turchia.

Iniziamo col dire che si tratta della seconda visita di Erdogan al Cairo in un anno, e che i rapporti tra i due paesi sono molto migliorati chiudendo un difficile decennio iniziato nel 2013, quando l’esercito egiziano guidato da Al Sisi depose Mohamed Morsi, presidente democraticamente eletto e membro autorevole della Fratellanza Musulmana a cui l’ AKP di Erdogan è a sua volta affiliato. Il presidente egiziano Al Sisi è intervenuto al vertice denunciando “la continuazione della guerra israeliana contro il popolo palestinese a dispetto delle risoluzioni di legittimità internazionale e il pericolo che il conflitto si estenda ad altri Paesi, come è successo con il Libano e fino alla Siria, … esposta ad attacchi alla sua sovranità e integrità territoriale, con le potenziali conseguenze di un’escalation e di una conflagrazione nella regione, che colpiranno tutti, politicamente ed economicamente”.

Molto interessante il discorso di Erdogan, che dopo aver parlato di questioni economiche è passato a trattare importanti argomenti di politica estera, esprimendosi con molta chiarezza.
Il presidente ha dichiarato che la Turchia come idea è più grande della Turchia come nazione e che i turchi non possono limitare i propri orizzonti; proprio come una persona non può sfuggire al suo destino; allo stesso modo la Turchia nazione non può sfuggire al proprio ed anzi deve capire la missione che la storia le ha affidato, comportandosi di conseguenza. Quanti chiedono cosa sta facendo la Turchia in Libia in Africa e Siria forse non comprendono tale missione, quanti non si rendono conto di come sia cambiata la Turchia potrebbero avere difficoltà a comprendere il corso degli eventi; lasciamoli solo con i loro errori, ha detto Erdogan, non perdiamo tempo con costoro e concentriamoci sui nostri obiettivi per adempiere alle nostre responsabilità.

In sostanza Erdogan esprime una visione neo ottomana in cui la Turchia ha un ruolo predominante in Siria, ma anche una decisa influenza begli altri paesi che fecero parte dell’ Impero Ottomano, uno dei più longevi della storia che copriva anche il Nordafrica mediterraneo con le sue province di Tripoli e di Algeri; va ricordato che Tripolitania e Cirenaica continuarono a farne parte fino alla campagna di Libia del 1911-1912 che vide l’ Italia vincitrice .
E ciò per non parlare della Somalia con cui la Turchia ha un antico rapporto che risale al XVI secolo, quando l’Impero Ottomano arrivava fino alla regione del Sahel e alle coste del Mar Rosso. Ai tempi di oggi la Turchia ha stabilito la sua più grande base militare proprio in Somalia, mentre il porto di Mogadiscio, che ha un’ importanza cruciale nella regione, è controllato da una società turca, per non parlare dell’ ambasciata che è la più grande della Turchia in tutto il mondo. E non dimentichiamo un altro particolare significativo: l’ ospedale di Mogadiscio porta proprio il nome del presidente Erdogan.

Insomma la Turchia gioca a tutto campo in Africa dove ha fatto un grande sforzo diplomatico; si pensi che nel 2009 aveva circa dieci missioni diplomatiche nel continente, mentre ora ne ha 43.
Secondo il giornalista Mariano Giustino il presidente ritiene che la sua missione sia quella di far rivivere i giorni di gloria del passato imperiale perduto. Erdogan condivide questo sogno con la la sua ampia base elettorale dei circoli nazionalisti islamisti e pan islamisti, e vede la difesa della causa palestinese come un mandato storico e come una proiezione di una presunta missione civilizzatrice turca in Medio Oriente. Erdogan si propone come leader di una immaginaria lega di diseredati con la responsabilità di proteggere gli oppressi del mondo musulmano e come alleato dei paesi del Sud globale, assecondando una retorica islamista secondo cui il sottosviluppo sarebbe un prodotto del colonialismo occidentale e di un persistente sfruttamento da parte di potenza straniere; la AKP di Erdogan è mobilitato nei Balcani dall’Asia centrale all’Africa e addirittura fino all’America Latina in una diplomazia umanitaria che fa leva sui sentimenti e sulla solidarietà di un Islam buono. In questo senso l’impegno personale di Erdogan sarebbe diretto a consolidare i sentimenti anti israeliani nel Sud del mondo e ad isolare ulteriormente il governo Netanyahu, spaccando l’Europa dove le comunità musulmane nutrono simpatia per il leader turco e vedono i governi occidentali come complici di Israele. L’ obbiettivo finale della leadership turca sembra essere la creazione di una potenza non allineata alla periferia dell’Europa, con il parlamento turco il più a destra e nazionalista della storia repubblicana e con una politica estera che si manifesta in maniera sempre più assertiva.

E tutto questo, aggiungiamo noi, deve farci riflettere sul forte spazio di autonomia di cui gode un membro dell’ Alleanza Atlantica come la Turchia che un tempo ne era considerato il bastione orientale, mentre oggi possiamo parlare sempre più di alleato con riserva ( la definizione, azzeccatissima ed in anticipo sui tempi, è del giornalista turco Cengiz Çandar nel titolo di un articolo pubblicato su Limes nel lontano 2016). Pensiamo anche al ruolo molto importante che hanno nel Medio Oriente due potenze non arabe come Israele ed Iran, oltre ad una terza potenza anch’ essa non araba.
Si chiama Turchia.

 

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