Si è da poco concluso il 36º Congresso nazionale dell’Anm, al quale ho partecipato, intervenendo sul tema principale dello stesso, ossia sul ruolo del giudice e sui limiti all’attività interpretativa della legge; argomento che mi appassiona molto, e sul quale ho avuto modo di scrivere più volte anche sulla rivista ufficiale dell’Anm La magistratura.
Non ho intenzionalmente voluto trattare il tema della separazione delle carriere, essendo nota la mia opinione in merito, per come esposta nel libro Meglio separate, pubblicato lo scorso mese di ottobre per i tipi della casa editrice Le Lettere.
In proposito, mi sono limitato a un fugace riferimento, che mi è sembrato doveroso, in quanto i lavori congressuali avevano riguardato anche la questione della separazione delle carriere e, più in generale, la riforma costituzionale della giustizia, argomenti tornati di stretta attualità e che sono stati trattati anche negli interventi di tantissimi magistrati, oltre che del ministro Carlo Nordio e di vari esponenti politici, tra cui l’On. Giuseppe Conte, l’On. Enrico Costa, il Sen. Matteo Renzi, l’On. Elly Schlein, il viceministro Francesco Paolo Sisto.
Quindi mi è particolarmente gradita l’occasione di sviluppare una riflessione più ampia qui su Beemagazine.
Prendendo le mosse proprio da quanto ebbi brevemente a dire al congresso, ribadisco che, a mio avviso, sbaglia l’Anm nel mantenere una posizione di definitiva chiusura a qualsivoglia prospettiva di riforma che non contempli carriere unificate, perché ciò non basterà a dissuadere il legislatore dal separarle, ma gli verrà offerto su un piatto d’argento il pretesto per ignorare il contributo tecnico dei magistrati, che sarebbe invece importante tenere in considerazione, specialmente in ordine alla salvaguardia delle norme che valgono ad assicurare l’indipendenza della magistratura.
Anzi, questo muro di gomma alzato dall’Anm farebbe addirittura diventare oltremodo concreti quei rischi che finora – in mancanza di un testo della proposta di legge che, al momento, non è stata ancora presentata – sono astratti, perché si perderebbe l’occasione di tentare di salvare ciò che conta veramente salvare, ossia le garanzie per l’indipendenza, interna ed esterna, della magistratura requirente e giudicante.
All’opposto dell’Anm, io penso che non verrebbe meno l’indipendenza della magistratura, se si procedesse alla riforma nel rispetto di determinate e stringenti condizioni, volte a proteggere e persino a rafforzare le garanzie e le prerogative di autonomia e imparzialità.
Non mi persuadono le argomentazioni contrarie alla mia tesi, specialmente perché sovente non entrano nel merito della stessa, ossia non spiegano perché, nonostante l’ipotizzato rispetto di quelle condizioni, verrebbe comunque compromessa l’indipendenza della magistratura, ripetendo – come un mantra – che qualunque ipotesi di separazione delle carriere porterebbe ineluttabilmente alla sottoposizione del pubblico ministero al potere esecutivo, o al suo essere condizionato dal potere politico, o alla sua mutazione genetica in una sorta di super-poliziotto che, venendo deprivato della cultura della giurisdizione, sarebbe incapace di garantire i diritti della persona accusata o, comunque, di agire con la doverosa prospettiva giurisdizionale e di mettere in discussione la tesi accusatoria ove si mostrasse infondata.
Ad esempio, si dovrebbe spiegare perché un pubblico ministero – qualora in Costituzione venisse previsto un CSM per la magistratura requirente, da affiancare a quello della magistratura giudicante, mantenendosi tutte le prerogative attualmente previste e pure la proporzione nel numero di membri togati e laici – sarebbe meno indipendente di quanto non sia oggi. Peraltro, dinanzi a tale argomentazione, qualcuno risponde che vi sarebbe il pericolo opposto, ossia l’autoreferenzialità e il disancoraggio dalla cultura della giurisdizione, e quindi arriva a ribaltare i termini della questione, prospettando un eccesso di indipendenza e, dunque, quasi un timore che disvelerebbe una sorta di sfiducia nella categoria.
E, ancora, si dovrebbe spiegare perché sarebbe meno indipendente un pubblico ministero separato, se continuasse a restare all’interno dell’ordine giudiziario, se si mantenesse la sua natura di organo libero da condizionamenti esterni, se si salvaguardasse la sua cultura della giurisdizione, se si conservasse l’obbligatorietà dell’azione penale, se permanesse la sua autonomia nella direzione e nel coordinamento della polizia giudiziaria e la dipendenza funzionale di quest’ultima dalle procure.
Non solo, ma la mia idea – che parte dalla presa d’atto secondo cui la separazione delle carriere non è urgente, né utile se non accompagnata da ulteriori interventi (riduzione dei procedimenti civili e penali, diminuzione dei tempi dei processi, investimenti in infrastrutture fisiche e informatiche, incremento di magistrati e personale amministrativo) – è guardare al processo di riforma come a un’opportunità per innovare l’ordinamento giuridico, incrementare le garanzie costituzionali, rivoluzionare l’approccio investigativo e giurisdizionale in modo da adattarli alle esigenze della società contemporanea, ridisegnare un assetto più coerente con il passaggio dal previgente sistema processuale di tipo tendenzialmente inquisitorio a quello attuale di tipo tendenzialmente accusatorio.
Tra le varie proposte per migliorare il sistema, sia in punto di incrementare le prerogative di autonomia e indipendenza del PM, sia in punto di offrire una migliore tutela giurisdizionale dei diritti, posso ricordare – senza pretesa di esaustività e rimandando per completezza al libro – le seguenti:
- Modifica dell’articolo 101 comma 2 della Costituzione, estendendo anche alla magistratura requirente la sottoposizione soltanto alla legge che attualmente è prevista solo per quella giudicante, in modo da mettere il PM al riparo da leggi ordinarie, più o meno palesi, in grado di comprimerne le prerogative e limitarne l’indipendenza interna (oltre che esterna), com’è già successo in passato quando si è intervenuti, ad esempio, tramite modifiche alle norme sull’ordinamento giudiziario;
- Introduzione, per i pubblici ministeri, di un sistema tabellare simile a quello previsto per i giudici, con gli adattamenti necessari alla peculiarità dell’organizzazione degli uffici di procura;
- La previsione di un meccanismo per coniugare il principio di obbligatorietà dell’azione penale con una maggiore responsabilizzazione ed efficienza investigativa, ma rispettando la libertà di azione dei pubblici ministeri;
- L’accorpamento delle procure piccole in uffici più grandi ed efficienti, ivi destinando magistrati e personale amministrativo, e meglio concentrando le forze della polizia giudiziaria;
- Maggiore specializzazione dei magistrati e dunque incremento della loro professionalità;
- Mantenimento della formazione professionale in comune tra giudici e PM, e coinvolgendo altresì gli avvocati, in modo da salvaguardare e incrementare la cultura della giurisdizione, dando luogo a momenti formativi nel corso dei quali possa attuarsi un proficuo confronto e scambio tra le tre professioni che contribuiscono a fare giurisdizione.
Tirando le fila, io sostengo che vadano strenuamente salvaguardati quei principi e garanzie sui quali si fonda l’indipendenza della magistratura, ritenendo però che tale indipendenza non sia influenzata dall’assetto unitario o separato delle carriere in sé considerato, ma dal modo in cui quei principi e garanzie vengono in concreto attuati con riferimento all’amministrazione della giustizia, all’esercizio dell’azione penale, allo status di giudici e pubblici ministeri, e via discorrendo. In ogni caso non mi stancherò mai di ribadire che se la separazione delle carriere comportasse una limitazione all’indipendenza della magistratura, allora meglio tenersi il sistema attuale.
Gaetano Bono – Sostituto Procuratore Generale a Caltanissetta