Caso Albania: il potere dei giudici, le accuse e la crisi della democrazia. Nessun pregiudizio della magistratura verso la politica, semmai è il contrario

Migranti, giustizia e governo: in questo articolo il giudice Roberto Tanisi sottolinea “il tentativo ultradecennale di normalizzare la magistratura, come appare chiaro dai tentativi di riforma all’esame delle Camere’’

In un cablogramma confidenziale dell’ambasciatore Usa in Italia, inviato al suo governo nel 2005 e rivelato da Wikileaks, così venivano definiti i magistrati italiani: “Sono ferocemente indipendenti. Non rispondono ad alcuna autorità governativa, neanche al Ministro della Giustizia. È praticamente impossibile manovrarli o dissuaderli dal loro agire”. Quella che per l’ambasciatore statunitense voleva essere una critica – che si spiegava anche con le peculiarità del sistema americano, dove l’indipendenza della magistratura è, a dir poco, relativa (si pensi ad alcune discutibili decisioni della Corte Suprema nella vicenda di Capitol Hill) – si traduceva, in realtà, in un involontario elogio per la magistratura italiana, costituendo l’indipendenza dell’ordine giudiziario un caposaldo del principio di separazione dei poteri e, dunque, della democrazia. Bene preziosissimo, l’indipendenza, perché – ammoniva Tocqueville – “diminuendo l’indipendenza dei giudici non si avrà solamente intaccato il potere giudiziario, ma la repubblica democratica stessa”.

L’episodio di Wikileaks mi è tornato alla mente in questi giorni, gravidi di accuse e di insulti nei confronti dei giudici, tacciati di essere “toghe rosse”, eversori del sistema costituzionale per non aver avuto “rispetto della volontà popolare” sostenendo i provvedimenti del governo (sic), fautori di “sentenze abnormi” (e, dunque, passibili di procedimento disciplinare), da ultimo anche… “ayatollah”.

Roberto Tanisi
Roberto Tanisi

 

Sono solo alcune delle accuse rivolte alla magistratura (a tutta la magistratura, anche se, ipocritamente, qualcuno fa riferimento solo ad “una parte” di essa), rea di assumere decisioni che non sono in linea con i desiderata di chi governa. Fenomeno, peraltro non nuovo, non solo in Italia.

Il caso è deflagrato a causa delle decisioni adottate dal Tribunale di Roma, che non ha convalidato il fermo di dodici migranti (sui sedici iniziali), giunti in Italia su imbarcazioni di fortuna e trasferiti a bordo di una nave in Albania, per essere internati nel C.P.R. colà realizzato in base agli accordi stipulati col governo albanese.

Quale la ragione di tali attacchi? Avere il Tribunale, nel motivare i provvedimenti di mancata convalida, ritenuto – diversamente dal governo – che gli Stati di provenienza dei migranti (Bangladesh ed Egitto) non erano da considerarsi “Stati sicuri” alla stregua della normativa in vigore; e, dunque, proprio perché reputati insicuri, impedivano la convalida del fermo ed il conseguente provvedimento di rimpatrio.

La “canea” delle accuse si è indirizzata principalmente contro la Presidente della Sezione Immigrazione, dott.ssa Silvia Albano, quasi che fosse stata la sola autrice dei provvedimenti, laddove questi sono stati invece emessi dai sei giudici diversi. Ma tant’è. In conseguenza di tali accuse la dott.ssa Albano è stata minacciata di morte ed è ora costretta a muoversi sotto scorta.

La giudice Silvia Albano
La giudice Silvia Albano

 

In esito a tali provvedimenti giurisdizionali il Governo ha emanato un Decreto Legge che, in luogo del Decreto interministeriale, ha fornito una nuova elencazione degli Stati “sicuri” (riducendo la lista da 22 a 19), elevandola a rango di norma primaria. In tal modo – è stato spiegato – i giudici saranno tenuti ad applicare la legge e non potranno non convalidare i provvedimenti di rimpatrio verso tali Stati.

Da qui una prima considerazione: costituendo il decreto interministeriale un atto amministrativo, non può sostenersi che i giudici, disattendendolo, abbiano violato la legge, dal momento che la disposizione impeditiva della convalida dei rimpatri era contenuta – questa sì – in un atto normativo e, come tale, non poteva essere posta nel nulla (o diversamente interpretata) sulla base di un mero atto amministrativo. Ciò è tanto vero che il Governo, per (pensare di) porre riparo a tale situazione, si è visto costretto ad adottare un provvedimento avente forza di legge.

Ma, a parte ciò, il problema del conflitto Magistratura/Governo in materia di immigrazione è risalente nel tempo, dal momento che dopo il c.d. “Decreto Cutro” molteplici sono stati i provvedimenti giurisdizionali con i quali sono stati disattesi i provvedimenti amministrativi. E non certo per capriccio o – come pure è stato detto (il ministro Piantedosi in un’intervista alla Stampa nei giorni sorsi) – per “resistenza ideologica” nei confronti del Governo: tanto ciò è vero che, con riferimento al criticatissimo provvedimento adottato dalla Giudice Apostolico di Catania, il primo della serie, il Governo ha rinunciato a proseguire nel giudizio di Cassazione, evidentemente ritenendo, melius re perpensa, insuperabile la motivazione adottata.

Il problema, in realtà, prima che politico è squisitamente tecnico e, dunque, solo dal punto di vista tecnico vanno valutati i provvedimenti giurisdizionali adottati in subiecta materia.

Migranti
Migranti in arrivo sulle coste italiane

 

Occorre in proposito rilevare come già la Convenzione di Ginevra, nel prevedere il  principio del non-refoulement (diritto del migrante a non essere respinto), stabilisce che si tratta di un principio fondamentale del diritto internazionale e all’art. 33 prevede che “nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”.

Non bastasse, il diritto dell’Unione Europea va oltre tale statuizione e prevede una protezione internazionale dei rifugiati persino più ampia di quella da essa garantita, stabilendo che respingimenti ed espulsioni non possano essere adottati le volte in cui risultino comunque in contrasto “con il diritto dell’Unione complessivamente considerato”, ed in particolare con i diritti garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

La quale, più nello specifico, prevede (art. 19) che lo straniero non possa mai essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esista un rischio serio che egli possa essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene e trattamenti inumani o degradanti, persino nell’ipotesi in cui esso rappresenti un pericolo per la sicurezza del paese europeo in cui egli risiede o si trova (Corte Europea di Giustizia, Sentenza dello scorso 14 maggio).

Il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi
Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi

 

Si tratta di disposizioni che in caso di contrasto prevalgono nei confronti del diritto interno.

Com’è noto il Trattato di Lisbona, entrato in vigore sul finire del 2009, ha conferito valore vincolante alla Carta dei diritti fondamentali, facendola “uscire dal limbo della soft law” in cui era rimasta confinata dal 2000, dopo la sua proclamazione a Nizza. L’art. 6 del T.U.E. (Trattato sull’Unione Europea) precisa infatti che la “Carta ha lo stesso valore dei Trattati” e, dunque, ha il rango di diritto primario, per qualcuno, addirittura, rango di “diritto supercostituzionale”, superiore agli stessi Trattati, esprimendo essa “i principi e i valori fondamentali dell’Unione”.

Proprio sulla base di tali principi ed al fine di fissare le procedure volte a definire l’esame delle domande di protezione internazionale veniva varato dal nostro Paese il Decreto Legislativo n. 25/2008 nel quale per la prima volta veniva operata una distinzione fra “Stati sicuri” (nei quali, quindi, non fossero ravvisabili le condizioni descritte nel citato art. 19 della Carta) e “Stati non sicuri”, nei quali, invece, quelle condizioni fossero ravvisabili ed sarebbe dunque possibile, per la persona rimpatriata, essere sottoposta a persecuzione, tortura, altri atti inumani o degradanti.

Ancora successivamente l’Unione Europea ha emanato una Direttiva (n.32/13) con la quale ha fissato per tutti gli Stati dell’Unione le procedure in materia di protezione internazionale, fra l’altro prevedendo che:

  1. Essa si applica a tutte le domande di asilo (art. 3);
  2. Il migrante ha “diritto di rimanere nello Stato membro sino alla decisione della domanda di protezione” che lo riguarda;
  3. Gli Stati siano tenuti a redigere un elenco di Paesi considerati sicuri, da aggiornare periodicamente, nei quali siano assicurati standard anche superiori a quelli previsti dalla Direttiva, comunque, non inferiori a quelli fissati nell’art. 38 della Direttiva medesima, ossia:
  • Non devono sussistere minacce alla vita e alla libertà del migrante per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale;
  • Non deve sussistere il rischio di danno grave definito nella direttiva 2011/95/UE;
  • Deve essere rispettato il principio del non-refoulement conformemente alla Convenzione di Ginevra;
  • Deve essere osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né trattamenti crudeli, disumani o degradanti.

Infine, ai sensi dell’art. 1, punto 50, è espressamente previsto come “principio fondamentale dell’Unione” che le decisioni relative alle domande di protezione internazionale siano sottoposte al vaglio di un giudice, al quale spetta, dunque, l’ultima parola.

Migranti Albania
I migranti sbarcati dalla nave italiana Libra al porto di Shengjin, in Albania

 

Il nostro Paese, fino al casus belli determinato dalla decisione del Tribunale di Roma, ha ritenuto di dare ottemperanza a tale normativa europea, oltre che con generiche norme di rango primario, anche con ripetuti decreti interministeriali nei quali ha confinato la lista dei Paesi reputati “sicuri”, rispetto ai quali si prevede che il migrante possa ottenere protezione internazionale solo a condizione che egli dimostri – in tempi brevissimi e all’Autorità di frontiera, con la c.d. “procedura accelerata” – la sussistenza di “gravi motivi”, impeditivi dell’espulsione; diversamente la sua richiesta di asilo potrà non essere accolta e lo straniero sarà rimpatriato nel paese d’origine.

Il problema è che nell’elenco dei paesi c.d. “sicuri” redatto dall’Italia, ve ne sono alcuni (Egitto, Bangladesh, Tunisia, ecc.), in cui il rischio di persecuzione o di essere sottoposto a trattamenti degradanti è altissimo (qualcuno ricorderà il caso Regeni), ragione per la quale i Giudici, con i decreti di cui si duole il Governo, hanno disatteso i relativi provvedimenti di espulsione e rimpatrio, considerando tali Paesi “non sicuri”, sulla base delle stesse schede fornite dal Governo e delle informazioni acquisite.

Da qui la domanda delle cento pistole: nel fare ciò hanno posto in essere una “resistenza ideologica” contro il Governo o si sono limitati ad interpretare ed applicare la normativa in vigore?

A me pare evidente che la corretta risposta a tale quesito sia che i giudici abbiano puntualmente applicato la normativa in vigore, e tale soluzione è coerente con quanto statuito alcuni giorni fa, dalla Corte Europea di Giustizia con la sentenza del 4 ottobre nella causa C-406/22. In essa la Corte europea, pronunciando sul rinvio pregiudiziale del Tribunale di Brno (Repubblica ceca), ha stabilito che:

  • La designazione di un Paese come “sicuro” deve riguardare “in modo generale e uniforme” tutto il Paese, con la conseguenza che tale non può considerarsi quello in cui, anche solo in alcune zone o solo per alcune categorie di persone, si ricorra alla persecuzione, alla tortura o alla pratica di trattamenti inumani e degradanti;
  • Il giudice è tenuto a verificare d’ufficio – ed in concreto – la “sicurezza” di un determinato Paese, alla stregua dei criteri dettati dall’Unione Europea e non già delle determinazioni interne dello Stato d’appartenenza. “Si tratta – scrive la Corte – di un dovere che va al di là del semplice esame delle schede-Paese allegate al Decreto interministeriale e comprende la necessità di esaminare tutte le risultanze del fascicolo processuale”.

Questo è quanto! Nessun “pregiudizio” della magistratura nei confronti della politica, ma, semmai, il contrario. A meno di ritenere – come pure è stato affermato da qualcuno – che tutto questo can-can politico-mediatico sia stato scatenato per distrarre l’opinione pubblica da altre questioni politiche più complesse o da decisioni sofferte e, per qualcuno, anche dolorose (vedi legge finanziaria). Insomma una sorta di “sfunnapiedi” – per citare Camilleri – una messa in scena, un tranello per confondere le idee.

Piero Calamandrei
Piero Calamandrei

 

Ed ora? La situazione può dirsi risolta in senso favorevole al Governo con l’emanazione del Decreto-Legge “Albania” nel quale è stato inserito il nuovo elenco di Paesi ritenuti sicuri? I giudici saranno costretti a convalidare i provvedimenti di fermo?

La situazione non è così semplice come qualcuno sembra di ritenere, dal momento che resta insuperato il dato della preminenza del diritto unionale rispetto al diritto interno; sicché possono darsi due possibilità: o che il Giudice, investito della questione, adotti una decisione “costituzionalmente orientata” (come più volte propugnato dalla stessa Corte Costituzionale) e ritenga, comunque, prevalente la normativa europea, disattendendo il contenuto del nuovo testo di legge, oppure, più prudentemente che, preso atto del valore normativo primario conferito all’elenco dei Paesi sicuri, sollevi questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Consulta, ovvero effettui un rinvio pregiudiziale alla Corte Europea di giustizia.

Questo in punto di diritto. Il resto è polemica politica e rientra in quel tentativo ormai ultradecennale di normalizzare la magistratura, come appare chiaro, oltre che dai progetti di riforma all’esame delle Camere, anche dall’ipotesi prospettata dal Presidente del Senato, di ridefinire gli spazi dei due poteri, esecutivo e giudiziario (rectius: ridurre gli spazi della magistratura): con tanti saluti alla Costituzione e alla lungimirante visione di Piero Calamandrei.

 

Roberto TanisiMagistrato. Già presidente del Tribunale e della Corte d’Appello

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