Ergastolo ostativo, riforma Cartabia, caso Cospito, parla un alto magistrato. Le criticità della riforma. Lo Stato non può trattare con un detenuto

Il “fine pena mai” di fatto non c’è: prima dopo 26 anni ora dopo 30, si può tornare in libertà

Parliamoci chiaro: in uno Stato moderno e democratico come dovrebbe essere quello in cui viviamo l’argomento Giustizia deve stare a cuore di tutti i cittadini e tutti possono partecipare ai dibattiti ad esso relativi: purché ciò avvenga in buona fede e si siano frequentate le aule giudiziarie o, quanto meno, ci si procuri, prima, almeno una infarinatura dell’argomento stesso.

Accade, invece, in Italia da svariati decenni che la Giustizia sia diventata il campo di battaglia di chi – soprattutto nel mondo della Politica e della Pubblica Amministrazione, ma anche nella pubblica opinione – voglia modellare l’attività della magistratura ed i suoi risultati (ovviamente, in modo preponderante nel ramo penale) secondo le proprie convenienze o i propri valori ideologici: chi ricorda un governo degli ultimi trenta o quarant’anni che non si sia posto l’obbiettivo di una riforma della Giustizia, utilizzando il termine assolutamente generico “riforma” che può voler dire tutto o il suo contrario?

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La riforma Cartabia,  varie criticità e rischi

Parlando soltanto di anni più recenti, ci sono state le modifiche normative (di grande impatto quelle sulla sterilizzazione della prescrizione dei reati, che puntavano ad avere sempre sentenze penali di merito e a dissuadere condotte processuali dilatorie) del ministro Bonafede, che in parte modificavano quelle, di poco precedenti, del ministro Orlando; quindi è sopraggiunta l’ampia riforma del ministro Cartabia, e l’attuale governo – attraverso il nuovo ministro Nordio – intende di nuovo intervenire energicamente nella materia: voglio dire che sembra quasi che ogni nuovo governo ignori o finga di ignorare gli interventi modificativi anche recentissimi con la conseguenza di creare nel cittadino comune un dubbio (“ma la giustizia non era già stata riformata tante volte?”), e negli operatori del diritto possibili difficoltà nell’aggirarsi tra norme vecchie, vecchissime e nuove, e poi norme transitorie ed interpretazioni acrobatiche delle stesse!

 

 

Ministro Nordio. Photo by Facebook

 

 

Venendo a trattare molto velocemente la riforma Cartabia, devo rilevare che, in buona sostanza, essa mira ad anticipare una possibile e prossima revoca del principio, secondo me fondamentale in una democrazia, dell’obbligatorietà dell’azione penale ed in primis delle indagini penali, che ha finora garantito una sostanziale uguaglianza dei cittadini e l’indipendenza degli uffici di Procura, i quali devono perseguire tutti i fatti-reato e non soltanto quelli che il governo di turno dovesse indicargli come prioritari.

 

 

Ministro Cartabia

 

 

In questo senso spinge la palese intenzione di ridurre drasticamente il numero dei procedimenti penali attraverso l’allargamento delle ipotesi di reato perseguibili solo a querela, con l’inserimento di reati di allarme sociale tutt’altro che minimo (come lesioni personali volontarie, violenza privata, sequestro di persona non aggravato etc.), l’ampliamento del concetto di remissione tacita di querela, applicabile anche alla vittima di un reato che, magari perché intimidita dall’autore dello stesso, non si presenti in Tribunale a testimoniare, e addirittura l’estensione del principio della particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.), che ora – pur se sia accertata la responsabilità dell’imputato – può portare a sentenze di proscioglimento in presenza di reati più gravi rispetto a quelli originariamente previsti.

Il risultato complessivo è quello di una minore tutela delle vittime dei reati, cioè dei cittadini che si rivolgono allo Stato per ottenere tutela: basti pensare al fatto che per i  procedimenti aperti d’ufficio per reati oggi punibili (invece) a querela, la nuova normativa non prevede l’obbligo per gli uffici di avvertire le persone offese (normalmente prive di difensore e all’oscuro della riforma) della facoltà/obbligo di presentare la querela entro il termine fissato per il 30 marzo, dopo il quale i Tribunali dovranno dichiarare l’improcedibilità.

Tutto questo vale, poi, anche per ipotesi delittuose di medio allarme sociale, come quelle sopra indicate, che nel nostro Paese costituiscono spesso il mezzo con cui la criminalità organizzata intimidisce e cerca di spingere al silenzio le vittime della loro prepotenza!

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 Il caso Cospito e il 41bis. Lo Stato non può trattare con un detenuto. Due diversi aspetti

Un altro dibattito che ha acceso il pubblico interesse al momento presente ha ad oggetto il caso Cospito, ovvero il concetto del cosiddetto carcere duro (art. 41 bis ord. pen.). La vicenda relativa al detenuto Cospito è ancora in via di definizione, ed infatti il PG della Cassazione ha espresso parere favorevole alla revoca del trattamento per il soggetto e si attende la pronuncia della Cassazione. Occorre però separare due aspetti assolutamente diversi della questione.

Il primo è il clamore mediatico che la vicenda ha avuto in conseguenza dello sciopero della fame iniziato dal detenuto e di alcune manifestazioni di piazza e addirittura plateali atti di danneggiamento posti in essere da gruppi di anarchici sostenitori della “battaglia” del Cospito per l’abolizione in generale del regime carcerario duro.

Va da sé che lo Stato non solo non può trattare con un detenuto o i suoi sostenitori ma soprattutto non può subirne il ricatto: se un soggetto minaccia di lasciarsi morire per spingere gli organi competenti a concedere ciò che non è concedibile in punto di diritto, bene fa lo Stato a non cedere, senza che per questo debba ritenersi responsabile di un ipotetico esito letale.

Altro è valutare se, come deve fare la Cassazione, nel caso specifico sussistano ancora le condizioni previste dalla legge per l’applicazione o la proroga del regime previsto dal comma II dell’art. 41 bis, e certamente la Corte di Cassazione non si lascerà indirizzare dall’emozione del momento e dal caso specifico; e, per stemperare l’ansia generale per il problema, va ricordato che il regime più o meno duro del regime detentivo non cambia nulla in ordine all’entità della pena che Alfredo Cospito deve espiare: siamo in fase esecutiva, e la condanna riportata dal soggetto per reati molto gravi non potrà mai essere modificata.

Invero l’art. 41 bis consente al ministro della Giustizia – che deve raccogliere pareri e informazioni dai competenti uffici del PM, dalla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e dagli organi centrali di Polizia – di applicare tale regime, che comporta la restrizione dei contatti con il mondo esterno mediante la riduzione dei colloqui con i familiari ad uno solo mensile, a singoli detenuti condannati per reati genericamente di mafia ovvero commessi per finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico “quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”.

La procedura, in modo assolutamente garantista, consente al detenuto e ai suoi difensori di impugnare il decreto ministeriale davanti al Tribunale di Sorveglianza di Roma (unico competente per tutta l’Italia) e, se del caso, dinanzi alla Corte di Cassazione, ma questa volta solo per violazione di legge.

Nell’attuale vicenda, mentre si attende la decisione della Cassazione, il Ministero ha disposto una ulteriore proroga biennale; evidentemente sono state valutate e ritenute pregnanti le preoccupazioni per l’ordine pubblico suscitate dagli attentati avvenuti anche in altri Paesi del mondo e dalle turbolenze di piazza verificatesi in Italia in appoggio allo sciopero della fame del Cospito, indicato addirittura, e strumentalmente, come vittima di uno Stato assassino!

Nel dibattito che è sorto a seguito di tale provvedimento, si è detto che non vi sarebbe prova di un collegamento attuale tra il detenuto e una qualsiasi associazione terroristica, anche per la struttura – priva di verticismo e quindi di una vera e propria organizzazione – del movimento anarchico.

In senso contrario si è sostenuto che proprio la coincidenza temporale tra lo sciopero della fame del Cospito, la sua raggiunta fama mediatica, e i richiamati atti di violenza dimostrerebbero come il Cospito venga tuttora considerato dai suoi sodali, oltre che un simbolo, anche un componente tuttora effettivo del movimento, tanto che l’attuale vicenda ha compattato, nonostante la loro struttura storicamente monadistica, gruppi e gruppetti anarchici anche in diversi Paesi del mondo.

Chi scrive propende in verità per questa seconda considerazione; e fa presente altresì che il Cospito è risultato essere lo strumento migliore per una battaglia globale contro il 41 bis, in quanto prescelto in particolare dai boss mafiosi sottoposti al medesimo regime, che non potrebbero esporsi direttamente per il maggiore disvalore sociale dei delitti da loro compiuti, che renderebbe meno popolare la loro iniziativa.

Tutto ciò è risultato evidente allorché – qualunque cosa si pensi sulla natura riservata delle informazioni propalate – un esponente politico di primo piano in una pubblica assemblea della Camera dei deputati ha comunicato a tutti, e quindi anche alla stampa e ai cittadini, che boss mafiosi presenti nella stessa sezione carceraria del Cospito e sottoposti al medesimo regime – intercettati durante i loro colloqui – hanno incoraggiato più volte l’anarchico a non mollare per ottenere finalmente l’abolizione legislativa del carcere duro, abolizione che già costituì l’oggetto della nota trattativa Stato – mafia (il cui reale accadimento ha trovato conferma anche nella nota sentenza di assoluzione) ed il movente della inconsueta stagione stragista scatenata dalla mafia nei primi anni ‘90 contro un istituto che era stato voluto da Giovanni Falcone per la recisione dei rapporti tra i mafiosi detenuti e quelli in libertà.

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La questione dell’ergastolo ostativo

La questione del cosiddetto carcere duro appena messa in luce non può non richiamare – anche perché si resta nell’ambito delle modalità esecutive di una pena detentiva stabilita con sentenza irrevocabilequella sul cosiddetto ergastolo ostativo, anch’essa oggetto di duraturo dibattito mediatico, non sempre molto informato e obiettivo, nonché di importanti interventi della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale.

Semplificando, non c’è dubbio che il discorso debba partire dal principio fondamentale stabilito dall’art. 27 Costituzione, che impone la finalità tendenzialmente rieducativa delle sanzioni penali (in particolare, di quelle detentive), che ovviamente non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità: proprio in coerenza a questo principio la Costituzione non ammette la pena di morte, ed anche quella inizialmente prevista dalle leggi militari di guerra è stata successivamente e logicamente abolita.

Ma allora l’ergastolo, prevedendo il “fine pena MAI”, persegue anch’esso l’obiettivo del recupero umano e sociale del condannato, oppure gli preclude in modo assoluto la possibilità di essere riammesso nella società con la dignità del cittadino?

Ci sono state numerose pronunce in merito, di Cassazione, Corte Costituzionale e Corte Europea per i diritti dell’uomo, – richiamate su queste pagine dal Presidente del Tribunale di Lecce in merito allo sbarramento, per i condannati all’ergastolo che non accettino di collaborare, per l’accesso ai permessi premio, al lavoro all’esterno e alle altre misure alternative alla detenzione previste dalla normativa (art. 4 bis ord. pen.).

Deve rilevarsi innanzitutto come proprio la recentissima riforma (D.L. 31.10.2022, n. 162, conv. in L. 30.12.2022, n. 199) abbia abolito in via generale, per i soggetti condannati per gravi reati di mafia o terrorismo, il requisito della “collaborazione”, pur conservando la necessità per l’interessato, al fine di ottenere tali benefici, di dimostrare la cessazione dei rapporti con l’organizzazione criminale di provenienza nonché l’impossibilità che questi rinascano; il tutto mediante elementi di valutazione che vadano oltre la “buona condotta” in carcere e la regolare partecipazione al percorso rieducativo. Si è aperto, dunque, uno spiraglio, peraltro alquanto stretto!

Chi scrive, pur travolto dalla frenetica produzione normativa (spesso di direzione divergente), ritiene, in ogni caso, che non possa essere affermata in assoluto la contrarietà allo spirito costituzionale della pena dell’ergastolo in quanto tale, come sanzione tendenzialmente perdurante fino alla morte del condannato.

Invero non va dimenticato che anche prima delle ultime modifiche, in presenza non già di una dichiarata apertura alla collaborazione con l’autorità giudiziaria, ma di un accertato ravvedimento (indice di un perfezionato percorso di rieducazione e di risocializzazione), il condannato all’ergastolo poteva ottenere anch’egli la liberazione condizionale, istituto previsto dall’art. 176 c.p. e che gli consentiva di ottenere a pieno titolo la libertà purché avesse scontato 26 anni di pena detentiva.

Tuttavia, proprio l’appena ricordato D. L. n. 162/2022 con susseguente legge di conversione, all’art. 2, ha posto nuovi paletti anche in tema di liberazione condizionale. Pertanto, mentre si attende una valutazione della Corte di Cassazione – su ciò sollecitata dalla Consulta – sulla rilevanza dei profili di illegittimità pur alla luce delle intervenute modifiche normative, il limite minimo di pena espiata per un ergastolano condannato per gravi reati di mafia o terrorismo è stato fissato in anni 30 di reclusione, rimanendo il precedente limite di 26 anni per i soggetti condannati all’ergastolo per delitti diversi.

Comunque, un’assoluta chiusura delle porte del penitenziario non è prevista neppure per gli ergastolani, purché sganciatisi dall’appartenenza ad associazioni mafiose o terroristiche, e ciò nell’alveo del principio generale dell’art. 27 della Costituzione.

Sia consentito, infine, a chi osserva con un certo distacco e con un sorriso queste battaglie, più o meno ideali, che infuriano nel mondo della Giustizia, dichiararsi ben contento di appartenere, ormai, alla schiera dei pensionati…

 

Antonio Sensale – Già Sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma. Già presidente di Commissione d’esame di Stato per l’abilitazione professionale dei giornalisti. 

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