Dove va l’Italia, fra paure e speranze

C’è un grande affollamento di opinioni nei confronti dell’uscita  dall’Italia dalla dura stagione pandemica degli ultimi anni. Ma sono opinioni troppo appiattite al presente, si parla principalmente di attuazione del PNRR e della concentrazione su interventi urgenti e di pronta attuazione; di improrogabili riforme strutturali; di agili ruoli dell’azione pubblica e dei suoi concreti strumenti di intervento. Ed ho qualche resistenza a mettermi su questa onda di pensieri, perché non riesco a vederne gli esiti di quel coinvolgimento delle energie collettive senza il quale il dibattito può inaridirsi nell’inerzia.

Preferisco allora cambiare campo di riflessione e spostarmi su una domanda che mi angustia da qualche tempo: siamo nell’esigenza circoscritta di uscire dalla crisi di questi ultimi anni, oppure dobbiamo capire se è alle viste un radicale cambiamento di ciclo? La mia risposta è netta: siamo in un passaggio di ciclo: da uno sviluppo tutto giuocato nelle dinamiche di “lungo raggio” (tipiche della globalizzazione) ad uno sviluppo giuocato sul primato del “raggio corto” e sulle relative dinamiche imprenditoriali.

È ampiamente noto che l’economia italiana ha cavalcato la globalizzazione e ha fronteggiato le sue crisi ricorrenti attraverso una silenziosa strategia di creazione e sostegno di quattro decisive “filiere” operanti sui raggi lunghi della dinamica internazionale: la “classica” filiera del prestigio del “made in Italy” (nell’arredamento come nell’abbigliamento); la filiera enogastronomica, in una forte sinergia orizzontale fra aziende di produzione dei prodotti e centri di commercializzazione e consumo di alta qualità; la rampante filiera della produzione e manutenzione di macchinari industriali tecnologicamente molto avanzati; e la più modesta filiera del turismo (d’élite e di massa) che coinvolge ormai clienti di tutto il mondo ed un’ampia gamma di offerte all’interno.

Nessuno può negare il grande ruolo che queste quattro filiere (gli accademici le definiscono “catene del valore”) hanno avuto per la massiccia presenza italiana sul mercato internazionale; per l’aumento della ricchezza interna del Paese; per la capacità di reazione alle ricorrenti crisi economiche internazionali. È stato un grande ciclo dello sviluppo italiano; ma è destinato a durare? Ogni giorno di più si dimostra che le filiere sono per loro natura fragili: basta che un segmento di esse abbia un inceppo anche di breve durata (una crisi politica locale, uno sciopero di qualche tipo, un aumento dei moli marittimi, ecc.) e la filiera si inceppa, in pratica non funziona. Ne troviamo esempi anche nei giornali di questi giorni (nell’approvvigionamento dei chip come nelle minacce di sciopero dei portuali), ma è necessario prendere atto che non si tratta di fenomeni congiunturali, essi sono invece destinati a sussistere.

Ciò rende problematica la permanenza del primato della filiera “a raggio lungo”. E qualcuno, con ironia da storico, potrebbe dire che i sostenitori di tale primato non ricordano che Napoleone ed Hitler furono entrambi prigionieri di una baldanzosa avanzata a lungo raggio, fino a Mosca e a Stalingrado tramutatasi in immancabile sconfitta quando alcuni segmenti strategici e logistici della loro filiera non furono più disponibili.

A parte comunque il riferimento alla storia, è evidente anche dalle cronache che le filiere lunghe sono sempre meno le strategie portanti dello sviluppo moderno; tanto è vero che si comincia a rivalutare le strategie di “raggio corto”: è noto ad esempio che alcune imprese italiane arrivate in Cina con logica di filiera hanno deciso di restarci, ma producendo solo per il mercato cinese; così come è noto che sul dibattito economico internazionale si va affermando una “economia circolare” chiaramente orientata a funzionare solo nel corto raggio; ed è constatazione comune che la maggior parte delle campagne pubblicitarie di questo periodo cercano competitività in circuiti sempre stretti (nel mercato assicurativo, in quello automobilistico, in quello digitale).

Non è questa notoriamente la sede per prevedere come l’economia italiana si muoverà in questo nuovo ciclo: ma sappiamo che lo gestirà, con lucidità, visto che la maggior parte dei nostri soggetti imprenditoriali italiani ha in questi anni dimostrato una grande elasticità nel definire le loro strategie.

*Presidente emerito del Censis

Storie e personaggi. L’eccentrico barone La Lomia

"Io ho la gioia di credere e penso che la vera nascita sia la morte. Noi siciliani abbiamo il culto Read more

Il Ramadan e la chiusura delle scuole

C’è stato un tempo – se più o meno felice, decida naturalmente il lettore – in cui il primo giorno Read more

Pasqua, la ricorrenza tra parole e gesti

C’è un brano, tra i più significativi del Vangelo, in cui la "parola" del Signore si fa "gesto" carico di Read more

Il Censis fotografa il mondo della Comunicazione

"Mentre rimaniamo per lo più incerti nel soppesare i benefici e i pericoli connessi all’impatto dell’Intelligenza Artificiale sulle nostre vite Read more

Articolo successivo
Intellettuali, quale ruolo nella società di oggi. Intervista a Massimo Cacciari

Menu