Il 3 febbraio scorso, dopo la cerimonia di insediamento di Sergio Mattarella al Quirinale, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha rassegnato le proprie dimissioni e quelle del governo nelle mani del capo dello Stato.
Ma nessuno ci ha fatto caso.
E questo perché tutto è accaduto in omaggio alla prassi. Pertanto il presidente della Repubblica ha ringraziato Draghi e lo ha invitato a ritirare le dimissioni. E, sempre secondo la prassi, il presidente del Consiglio ha accolto l’invito rivoltogli dal presidente della Repubblica.
Ma che cos’è questa benedetta prassi? Non è altro che il risultato di comportamenti che si succedono sempre allo stesso modo nel tempo. Agatha Christie diceva che un indizio è un indizio, due indizi sono due indizi ma tre indizi sono una prova. Allo stesso modo si può dire che un precedente è un precedente, due precedenti sono due precedenti, ma tre precedenti fanno una prassi. E la prassi diventa con il tempo prassi consolidata, e la prassi consolidata consuetudine o, riferita ai vertici dello Stato, convenzioni costituzionali.
Si dà il caso che Sua Maestà la Prassi è un sovrano capriccioso. In un Paese come il nostro in cui può capitare che il diritto si converta nel suo rovescio, si può violare una legge, si può eludere addirittura la Costituzione, però mai e poi mai ci si può fare beffe della prassi. Giusta o sbagliata che sia.
Eh sì, perché ci sono prassi assolutamente irragionevoli e alle quali pur tuttavia si deve prestare ossequio. Ricordo che un civilista d’ingegno come Stefano Rodotà non si dava pace per il fatto che un precedente senza capo né coda assunto per sbaglio da una carica pubblica producesse uno sconquasso come una prassi, una prassi consolidata, una consuetudine, una convenzione costituzionale del tutto assurde.
Un esempio tra i tanti è capitato durante le votazioni per l’elezione del presidente della Repubblica tra il 24 e il 29 gennaio a Montecitorio. La presidente del Senato Alberti Casellati è stata seduta accanto al presidente della Camera Roberto Fico non in forza di un dettato normativo ma per prassi. Difatti l’articolo 31, capoverso, del regolamento della Camera dice soltanto che nelle sedute comuni delle Camere è riservato un seggio al presidente del Senato. Ma dove debba essere collocato tale seggio, il regolamento non lo dice. Fatto sta che fin dal 1948, quando fu eletto al quarto scrutinio Luigi Einaudi, il presidente del Senato, Ivanoe Bonomi, sedeva a fianco del presidente della Camera, Giovanni Gronchi. E da allora si è proceduto sempre allo stesso modo.
Non è tutto.
Se i presidenti del Senato nelle riunioni comuni delle Camere non hanno mai votato, lo si deve unicamente a una prassi che si fonda su un errore. La regola è ben altra. A inventarla, e con piena ragione, fu Francesco Crispi nel 1877. L’allora presidente della Camera, per sottolineare l’imparzialità di chi presiede i lavori parlamentari, si fece togliere dalla chiama. E da allora i presidenti della Camera, o i vicepresidenti che ne esercitano le funzioni, non votarono più. E poco più tardi i presidenti del Senato vi si uniformarono.
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Ma nelle sedute comuni il presidente del Senato non è nell’esercizio delle sue funzioni. A presiedere il Parlamento in seduta comune, infatti, è il presidente della Camera. Ne consegue che il presidente del Senato avrebbe pieno titolo per votare. Ma non è “chiamato” perché dagli elenchi del Senato letti dai deputati segretari della Camera non risulta il suo nome. Un qui pro quo che ha dell’incredibile. E nessun presidente del Senato ha mai eccepito alcunché.
E veniamo alle dimissioni del presidente del Consiglio.
In effetti, c’è un prima e c’è un dopo. C’era una volta lo Statuto albertino, che all’articolo 65 disponeva: “Il Re nomina e regola i suoi ministri”. Una forma di governo costituzionale pura che però ben presto evolve in senso parlamentare. Ma se i governi dovevano avere la personale fiducia del sovrano, all’avvento del successore il governo era tenuto a dimissioni che il re poteva accettare o no. Nel 1849, dopo l’abdicazione di Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II accetta le dimissioni del governo presieduto dal generale Agostino Girolamo Chiodo e lo sostituisce con il gabinetto presieduto dal generale Gabriele De Launay.
L’avvicendamento è così repentino che nella seduta della Camera dei deputati si registra un episodio comico. Non appena entrato nell’aula, De Launay chiede di parlare. E il vicepresidente Bunico in maniera poco complimentosa gli domanda: “Chi è lei?”. E ancora: “Il signore vuole favorire di annunziare alla Camera in che qualità chiede la parola?”. E De Launay di rimando: “Io la chiedo come presidente del Consiglio dei ministri che venne testé composto da S.M. Vittorio Emanuele II”. Solo allora il vicepresidente che presiedeva la seduta gli concede la facoltà di parlare.
La Gazzetta Ufficiale del 9 gennaio 1878 dà notizia che “Il Ministero, presieduto da S.E. il com. A. Depretis, presentatosi a S.M. il re Umberto I, dichiarava cessate le funzioni a cui la fiducia di Vittorio Emanuele II lo aveva chiamato”.
Ma il nuovo re – come ricordano Mancini e Galeotti nella loro famosa opera su Norme ed usi del Parlamento italiano – riconfermò nel loro ufficio tutti i ministri; ed il presidente del Consiglio alluse all’avvenimento con queste parole, nella tornata della Camera 16 gennaio 1878: “L’augusto primogenito del primo re d’Italia, secondo la legge di successione, scritta nello Statuto fondamentale del regno, è salito sul trono paterno. Come primo suo atto egli volle accordare la sua fiducia all’attuale Gabinetto, che aveva avuta la fiducia dal suo augusto Genitore”. Nell’agosto del 1900, all’avvento del re Vittorio Emanuele III, si dimise il governo presieduto da Giuseppe Saracco. Ma anche queste dimissioni non furono accettate.
Perché le dimissioni di Chiodo sono accettate nel 1849 e quelle di Depretis nel 1878 e di Saracco nel 1900 invece no? Perché con l’affermarsi della forma di governo parlamentare più della fiducia del sovrano, conterà sempre più quella del Parlamento. Soprattutto della Camera dei deputati. Perché l’astuto Depretis, una sorta di Andreotti ante litteram, essendo stato battuto dal Senato dichiarerà ex cathedra che “Il Senato non fa crisi”.
Rispetto allo Statuto albertino, la Costituzione repubblicana è tutt’altra cosa. Anche se non sono mancati casi di governi palatini, sorretti più che dalla fiducia parlamentare da quella del capo dello Stato. E pur tuttavia l’articolo 94 della Legge fondamentale della Repubblica parla chiaro: “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere”. Punto. Perciò le dimissioni dei presidenti del Consiglio in occasione dell’insediamento del nuovo capo dello Stato assumono tutt’altro significato.
Un significato sottolineato assai bene dal presidente del Consiglio Mario Scelba, dimessosi il 12 maggio 1955 nelle mani del nuovo presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Nella seduta del Consiglio dei ministri del 12 maggio dichiarò: “Poiché nessun mutamento è intervenuto nella compagine di maggioranza, in mancanza di precise norme e di precedenti utilizzabili, la questione va esaminata nello spirito della Costituzione. Non vi è dubbio che la fiducia al Governo abbia origine da due elementi: la nomina del Capo dello Stato e la fiducia delle Camere. Tanto nella lettera quanto nello spirito, la nostra Costituzione vuole che sia solo il Parlamento a fare crisi. Se ne ricava che, se al termine del settennato presidenziale non fosse intervenuto alcun mutamento al vertice della massima carica dello Stato, per il Governo non si sarebbe in alcun modo presentato il problema delle dimissioni. Siccome il mutamento c’è stato, la questione va esaminata sotto il profilo di un doveroso omaggio anche se formale che si deve fare al nuovo Capo dello Stato”.
La verità è che i rapporti tra Gronchi e Scelba, toscano l’uno e siciliano l’altro, erano pessimi. Sul piano partitico e personale. Più che negli occhi, si guardavano nelle rispettive carotidi. E la messa a punto di Scelba ebbe lo scopo di non indurre in tentazione il capo dello Stato. La prudenza, si sa, non è mai troppa…
Paolo Armaroli – Già professore ordinario di Diritto comparato nell’Università di Genova e docente di Diritto parlamentare