Dalla riforma Cartabia al caso Cospito. La sanzione penale fra pulsioni rieducative e carcere duro

L’Italia è il Paese delle quattro mafie (un vero Stato illegale dentro lo Stato), per cui allentare l’apparato sanzionatorio potrebbe rivelarsi esiziale per la sicurezza dei cittadini e delle stesse Istituzioni Sarà la Corte di Cassazione a verificare se sull’ergastolo ostativo permanga il sospetto di incostituzionalità, mentre la stessa Corte Costituzionale sarà chiamata nuovamente ad affrontare la vicenda Cospito - e ad occuparsi, sotto diverso profilo, dell’ergastolo.

Sono magistrato da oltre 40 anni. E da quando sono entrato in magistratura c’è una parola che, più d’ogni altra, riecheggia nelle mie orecchie: è la parola riforma. Difatti, ero ancora uditore (così si definivano allora i magistrati in tirocinio), quando, pochi mesi dopo il mio ingresso in magistratura, venne varata una importante riforma: quella della legge n. 689/81. Una legge che depenalizzava molte fattispecie di reato, disciplinava l’illecito amministrativo e, per la prima volta, prevedeva delle sanzioni sostitutive al posto delle pene detentive. Dunque, una riforma importante.

Da allora la parola “riforma” è stata la più “gettonata” in riferimento all’amministrazione della giustizia (e non solo, perché ci sono stati anche svariati tentativi di “riforma” della Costituzione, la più gran parte per fortuna abortiti).

Sembra quasi che il nostro Legislatore, forse per lasciare tracce di sè, debba necessariamente realizzare delle riforme in materia di giustizia. Il paradosso lo abbiamo raggiunto in quest’inizio d’anno con riferimento all’ultima nata, la riforma Cartabia, dacché, dopo che con Decreto-legge è stata rinviata la sua entrata in vigore, alcuni importanti esponenti del nuovo governo hanno subito parlato di riforma… della riforma. Un qualcosa di kafkiano, che fa il paio con la riforma della prescrizione varata dal ministro Orlando e mai di fatto divenuta operativa, dal momento che è stata superata dalla riforma Bonafede (che sterilizzava la prescrizione dopo il primo grado di giudizio), la quale, a sua volta, pur non risultando formalmente intaccata da modifiche di testo, è stata pressoché sterilizzata dalla previsione della improcedibilità di cui alla riforma Cartabia.

Questo per dire che riforme se ne sono sempre fatte nel nostro Paese, anche troppe talvolta, pur se gli esiti non sempre sono stati felici.

Quali le ragioni dell’ennesima riforma, del sistema penale?

La volontà di ovviare ad una giurisdizione penale ritenuta in crisi di efficienza, effettività ed autorevolezza: così si è espressa la Commissione europea, che, analizzando il livello di effettività del nostro sistema giudiziario, ha rilevato tale gap rispetto al resto dell’Europa.

Nello specifico, è stato reputato eccessivo il c.d. Disposition time (ah gli inglesismi!) per il giudizio d’appello, quantificato in 906 giorni nel 2019 (anche se, con l’avvio ed il primo funzionamento dell’Ufficio del processo, tale dato si è già ridotto a 701 giorni, a riprova che se ci sono risorse la giustizia respira e funziona meglio), con la fissazione di una milestone finale da collocarsi nel 2026, che veda una riduzione del 25% della durata media del processo penale nei tre gradi di giudizio.

D’altro canto, il varo del PNRR – e la conseguente erogazione di risorse in favore del nostro Paese – è stato apertamente condizionato, quanto al capitolo giustizia, ad una radicale ristrutturazione della giurisdizione penale, a più livelli, che riguardi tanto la dimensione strettamente processuale (dunque con riforma del rito, improntata a maggiore celerità e snellezza), quanto quella extra-processuale dell’organizzazione e della formazione.

In tale contesto si è pensato di por mano al sistema sanzionatorio penale, con un intervento mirato sulle “pene sostitutive delle pene detentive brevi” (come si esprime il nuovo art. 20-bis c.p.) e sull’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa. Tuttavia, secondo i primi commentatori, la riforma non è riuscita a superare la centralità del carcere, posto che le pene principali restano ancora quelle detentive. Fanno, così, ingresso nel nostro Ordinamento, accanto alla pena pecuniaria in sostituzione della pena detentiva di un anno, la semilibertà e la detenzione domiciliare sostitutiva (fino a quattro anni di pena detentiva) ed il lavoro di pubblica utilità sostitutivo (fino a tre anni), col chiaro intento di favorire, in questo modo, la finalità rieducativa della pena.

Tuttavia, come spesso accade, le riforme – anche le più illuminate – sono talvolta chiamate a fare i conti con la realtà.

È di questi giorni, infatti, l’aspro dibattito che si è sviluppato nel nostro Paese sull’ergastolo ostativo e sull’art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario. A farlo esplodere è stato il caso Cospito.

Alfredo Cospito è il primo anarchico ad essere finito al 41-bis e, da oltre tre mesi, è in sciopero della fame. Le sue condizioni di salute sono gravemente peggiorate ed è stato trasferito dal penitenziario di Sassari al carcere milanese di Opera. Sono note le polemiche politiche che la vicenda ha determinato e sulle quali non intendo soffermarmi. È notizia di oggi che il Ministro della Giustizia Nordio, su conforme parere della Procura Generale di Torino, ha confermato la misura del 41-bis, ritenendone sussistenti i presupposti, oltre che della pericolosità del detenuto, anche della necessità di evitare che questi, dall’interno del carcere, possa comunicare con i gruppi anarchici all’esterno e così determinare possibili rischi per la sicurezza pubblica (il che, tuttavia, pare in antitesi con la storia dei movimenti anarchici di solito connotati per un esasperato monadismo; ma tant’è).

Non è questa la sede per analizzare funditus le ragioni poste a base di tale disposizione di legge. Essa fu voluta da Giovanni Falcone per impedire che gli appartenenti ai sodalizi mafiosi potessero, da dentro il carcere, continuare a comandare e dare disposizioni ai sodali rimasti all’esterno. Si tratta, certamente, di una misura fondamentale nella strategia di lotta al crimine organizzato, dalla quale – come sostengono i magistrati maggiormente impegnati nelle indagini e nei processi sulle mafie – non si può assolutamente prescindere. Non è un caso che la revoca del 41-bis sia stata una delle principali richieste che avrebbero fatto i mafiosi nel “papello” della famosa “trattativa” con lo Stato, di cui all’omonimo processo.

Tale misura fa il paio con quella dell’ergastolo ostativo, anch’esso ritenuto essenziale nella lotta al crimine mafioso.

Con riferimento alla pena dell’ergastolo, già all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana si era dubitato della sua costituzionalità. Qualche anno fa, sul finire del 2012, il noto oncologo Umberto Veronesi (scomparso anni fa e, da sempre, promotore di battaglie “civili”), aveva dato vita ad una nuova iniziativa tendente ad elidere dal nostro Ordinamento una pena giudicata crudele e inumana. Sul punto è più volte intervenuto anche il Papa, che, senza mezzi termini, ha definito l’ergastolo “una pena di morte nascosta”. Il tema dell’ergastolo – e, ancor più dell’ergastolo ostativo –  è certamente molto delicato, perché, se è vero che nel nostro Ordinamento la pena non ha una funzione esclusivamente retributiva (di “castigo” per il delitto commesso) ma anche rieducativa, è altrettanto vero che l’Italia è il Paese delle quattro mafie (un vero Stato illegale dentro lo Stato), per cui allentare l’apparato sanzionatorio potrebbe rivelarsi esiziale per la sicurezza dei cittadini e delle stesse Istituzioni.

Della ipotizzata incostituzionalità dell’ergastolo (anche ostativo) per supposta violazione dell’art. 27 Cost. si è più volte occupata, in passato, la Corte Costituzionale, giudicando non fondata la questione, in considerazione del carattere polifunzionale della pena e della possibilità che il connotato di perpetuità della stessa possa comunque essere mitigato dalla possibilità concessa al condannato di essere ammesso alla libertà condizionale dopo aver scontato 26 anni di reclusione, ove ne venga ritenuto attendibilmente provato il ravvedimento. Del resto, è sotto gli occhi di tutti come molti imputati, condannati alla pena dell’ergastolo, dopo un congruo periodo di detenzione, avendo mostrato chiari segni di resipiscenza, ovvero avendo definitivamente abbandonato il contesto nel quale erano maturati i delitti da loro commessi, siano usciti dal carcere per essere gradualmente riassorbiti dalla società civile (si pensi, per esempio, ad alcuni protagonisti degli “anni di piombo”, fra cui i responsabili del delitto Moro).

Diverso, tuttavia, rispetto all’ergastolo ordinario appare il quadro per il c.d. ergastolo “ostativo”.

L’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario, nella sua stesura originaria, esclude da tutta una serie di benefici, compresa la liberazione anticipata, i responsabili di molti delitti (fra gli altri terrorismo e mafia), a meno che costoro “non collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58-ter” dello stesso Ordinamento. Qui, effettivamente, il carattere di “perpetuità” della pena emerge in tutta la sua pregnanza, perché è evidente che l’ergastolano condannato per fatti di mafia o terrorismo e che non abbia offerto collaborazione alla Giustizia, non potrà mai essere ammesso al beneficio della liberazione anticipata. Qui, davvero, vale l’espressione “fine pena mai”.

Con riferimento all’ergastolo ostativo, la Corte Costituzionale – che fino a ieri ne aveva escluso l’incostituzionalità, evidenziando come la preclusione prevista dal richiamato art. 4-bis, comma 1, fosse, in definitiva frutto dellascelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo” – ha recentemente, anche sulla spinta delle pronunce della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, mutato indirizzo e, con l’Ordinanza 11.5.21, n. 97, sull’eccezione di incostituzionalità sollevata dalla Corte di Cassazione, pur reputando ragionevole “presumere che l’ergastolano non collaborante mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di appartenenza”, ha tuttavia ritenuto incompatibile con la Costituzione il “carattere assoluto di questa presunzione” ed ha  rimesso al Parlamento la questione, dandogli un anno di tempo (poi prorogato di altri sei mesi) per modificare la normativa e renderla conforme a Costituzione.

Con Decreto-legge 31.10.22 n. 162, convertito nella legge 3.12.2022 n. 199, il Parlamento, sollecitato dalla Consulta, ha fissato nuove regole per l’accesso ai benefici penitenziari prevedendo che il detenuto, condannato per delitti di contesto mafioso o terroristico, scontato un periodo minimo fissato dalla legge (almeno 2/3 della pena, 30 anni in caso di ergastolo), possa avanzare la richiesta di ammissione ai benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario, allegando elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi (oltre a dimostrare di aver risarcito il danno alle vittime). Il tutto sarà vagliato dalla Magistratura di sorveglianza. A seguito di tale intervento normativo la Corte Costituzionale, con ordinanza 8.11.22, ha restituito gli atti alla Corte di Cassazione perché valuti, alla luce delle nuove disposizioni, se permanga il dubbio di costituzionalità.

Cosa dire di tutto ciò?

Qualche mio collega, impegnato in indagini e processi di mafia e contrario ad ogni modifica in tema di ergastolo ostativo, ha obiettato che dalla mafia si esce solo da morti o da collaboratori di giustizia. Personalmente, pur essendomi anch’io occupato di fatti di mafia negli Uffici giudiziari di Lecce, non ho elementi per confermare o confutare tale assioma (anche perché non tutte le mafie – e tutti i mafiosi – sono uguali). Di primo acchito, non mi pare che la pronuncia della Consulta e il nuovo testo di legge abbiano spostato di molto i termini del problema. Se, infatti, non sarà verificata dal giudice la recisione dei legami del detenuto con la famiglia mafiosa di appartenenza e non saranno eliminate le conseguenze del reato, il condannato non potrà mai ottenere i benefici. In altri termini mi pare che con la sentenza in parola i binari lungo i quali si dovrà muovere il Giudice di Sorveglianza nella applicazione dei benefici penitenziari restino comunque particolarmente stretti, ma non tanto da precludere – e non potrebbe essere altrimenti, a Costituzione vigente – il diritto alla speranza.

La questione, tuttavia, non può dirsi risolta.

Sarà infatti la Corte di Cassazione a verificare se sull’ergastolo ostativo permanga il sospetto di incostituzionalità, mentre la stessa Corte Costituzionale sarà chiamata nuovamente ad affrontare la vicenda Cospito – e ad occuparsi, sotto diverso profilo, dell’ergastolo – avendo la Corte d’Assise d’Appello di Torino, chiamata a rideterminare la pena inflitta al predetto imputato, sollevato questione di costituzionalità di una serie di disposizioni del codice penale, alla cui stregua la pena inflitta al Cospito potrebbe risultare più elevata di quella già inflitta.

 

Roberto TanisiPresidente del Tribunale di Lecce

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