Cinquant’anni senza il genio di Vittorio De Sica. Ed ecco perché siamo tutti figli suoi (anche quando non lo sappiamo)

Certo, Umberto D., Ladri di biciclette, Sciuscià vanno sempre in televisione. Ma è viva la sua memoria? Sì, anche perché è stato, prima che un grande regista, un immenso attore. Ma non siamo tanto sicuri che l’eredità di De Sica continui a seminare nel cinema italiano. Ed è un colossale sbaglio

Questa ce l’ha raccontata, anni fa, Giuliano Montaldo. Che non ha mai lavorato con De Sica, ma lo conosceva bene.

Un giorno il grande Vittorio De Sica prese il treno.

Era Vittorio De Sica. Regista importante, vincitore di Oscar. Ma anche attore popolarissimo. Tutti in Italia e in varie parti del mondo conoscevano il suo volto. Era un divo. Oggi, tutti gli avrebbero chiesto un selfie. Allora ci si limitava all’autografo, ma c’erano anche fans logorroici, che cominciavano a chiacchierare e non la finivano più. Quel giorno De Sica voleva starsene tranquillo. Per cui, una volta sedutosi al suo posto, tirò fuori un giornale, lo aprì e cominciò a leggerlo, usandolo come nascondiglio. Ma davanti a lui c’era un signore che evidentemente aveva subodorato qualcosa. Cominciò a piegare la testa per cercare di vedere “dietro” quel giornale spiegato. De Sica per un po’ fece finta di niente, poi capì che il trucco non aveva funzionato. Abbassò il giornale, guardò dritto in faccia il dirimpettaio e, con aria appena appena scocciata, disse: “Ebbene, sì. Sono Vittorio De Sica. Posso aiutarla?”.

“Che hai fatto tutti questi anni?”

L’uomo lo guardò stupito e rispose: “Vittorio! Ma non mi riconosci?”. De Sica lo guardò meglio. “Uhmm… no, francamente no”. E a quel punto l’uomo disse un nome. Noi lo inventeremo. “Mario Rossi! Due banchi dietro al tuo. Tutte le scuole medie insieme. Il tuo compagno di classe”. De Sica tirò quasi un sospiro di sollievo: “Mario! Ma certo, ora che ti guardo meglio, sei tu. Che bello vederti. Come stai?”.

Vittorio De Sica
Vittorio De Sica – Creative Commons

 

A quel punto Mario Rossi partì con un racconto dettagliatissimo della sua vita. Si era laureato, era diventato un ingegnere, aveva lavorato in enti importanti poi era addirittura andato in America, aveva una bella famiglia, un paio di figli, aveva avuto successo. Era un uomo realizzato e soddisfatto di sé. De Sica lo ascoltava, compiaciuto, forse contento che Mario Rossi parlasse e parlasse senza che il suo interlocutore avvertisse la minima necessità di dire qualcosa a sua volta. Il racconto durò a lungo. Tutto il viaggio. Ormai De Sica sapeva tutto del suo ex compagno di scuola. Erano quasi arrivati alla meta, era il momento di salutarsi. Mario Rossi guardò Vittorio De Sica con affetto: “Ma che bello, sono proprio contento di averti incontrato. È stata una bellissima chiacchierata”. Aveva chiacchierato solo lui, ma in extremis sentì il bisogno di dare la parola anche all’amico. Lo guardò negli occhi e gli chiese: “E tu, Vittorio? Che hai fatto in tutti questi anni?”.

Memoria viva

Evidentemente Mario Rossi non andava al cinema e non leggeva i giornali, forse aveva vissuto tutti quegli anni su un altro pianeta. Noi che viviamo sulla Terra, andiamo al cinema e leggiamo i giornali sappiamo benissimo cosa aveva fatto De Sica in tutti quegli anni. Invece, oggi – in occasione del cinquantesimo anniversario della scomparsa del grande Vittorio – dovremmo domandarci cosa è successo a De Sica in tutti QUESTI anni.

È viva la sua memoria? Probabilmente sì, e per il motivo suddetto: è stato, prima che un grande regista, un immenso attore e i suoi film continuano a passare in televisione. Ma non saremmo tanto sicuri che l’eredità di De Sica continui a seminare nel cinema italiano.

Vittorio De Sica a Napoli nel 1953
Vittorio De Sica a Napoli nel 1953 – Dominio Pubblico

Parthenope “desichiana”

Prendiamo il toro per le corna. Parthenope, di Paolo Sorrentino, è un film profondamente “desichiano”. Ma lo è senza dichiararlo. De Sica in quel film c’è, ma non si vede. La sua presenza è evidente – per chi sa – nel fatto che il personaggio di Silvio Orlando si chiami Devoto Marotta. E chi altri è, Marotta, se non l’autore dei racconti ai quali si ispirarono De Sica e Zavattini per L’oro di Napoli? Il finale di Parthenope vede Stefania Sandrelli passeggiare… in via Partenope, sul lungomare di Napoli davanti a Castel dell’Ovo. Sullo sfondo si vede la Fontana del Gigante, singolare tempietto che appare anche nella memorabile scena del “funeralino” nel film, appunto, L’oro di Napoli. Nulla è casuale. Sorrentino ha fatto i compiti, conosce i classici. Ma cita De Sica in modo indiretto, anche quando si inventa una diva un po’ in disarmo ma la “battezza” Greta Cool perché non osa chiamarla Sophia Loren. Quando deve citare in modo esplicito, Sorrentino cita Fellini. Evidentemente fa più chic.

Bisognerebbe avere il coraggio di affermare che due film come L’oro di Napoli e Il giudizio universale, autentici affreschi dedicati a quella città-mondo della quale De Sica era per così dire cittadino onorario, sono due capolavori. Due film che sarebbe urgente rivedere, per capire a fondo il talento autentico di De Sica. Ok, i capolavori del neorealismo: Ladri di biciclette, Sciuscià, Umberto D., Il tetto. E chi li discute?

Terremoto o bombardamento?

Ma c’è un momento chiave in cui la carriera di De Sica vira verso il suo destino. Quando all’inizio di Pane amore e fantasia (1953), nei panni del maresciallo Carotenuto, attraversa il paesino di Sagliena dove è stato destinato, accompagnato dai notabili. Vede delle macerie e chiede: “Bombardamento?”. “No, terremoto”, gli rispondono. La passeggiata prosegue, ed ecco altre macerie. Stavolta il maresciallo ha imparato la lezione: “Terremoto”, dice con aria assertiva. “No, bombardamento”.

In quelle due parole – bombardamento e terremoto – si legge il destino di una terra disgraziata, un’Italia reduce dalla tragedia della guerra e perseguitata dalle catastrofi naturali; ma De Sica, Luigi Comencini (il regista del film) e lo sceneggiatore Ettore Maria Margadonna usano questi disastri per creare una gag.

Carlo Battisti in una scena di Umberto D., di Vittorio De Sica (1952)
Carlo Battisti in una scena di Umberto D., di Vittorio De Sica (1952)

 

Sono quei momenti in cui nasce la commedia all’italiana. E in fondo L’oro di Napoli, che è dell’anno successivo (1954), contiene almeno quattro episodi che sono fra le vette della nostra commedia: Il guappo con Totò, Pizze a credito con la pizzaiola fedifraga Sophia Loren, Il professore con Eduardo De Filippo che dà lezioni di “pernacchio” (al maschile, guai a confonderlo con la “pernacchia”) e naturalmente lo strepitoso I giocatori, dove De Sica interpreta il conte Prospero, altero e squattrinato, che gioca a scopa con lo scugnizzo Gennarino. I giocatori è una cosa sublime. I tempi comici di De Sica sono perfetti, ma ancora più strepitosi sono quelli del piccolo Pierino Bilancione, l’ennesimo bambino preso dalla vita che De Sica fa recitare come un veterano. “Eh, la carta lei lo sa dove deve andare…”.

In tutti questi quattro episodi (il quinto, Teresa con la Mangano, è puramente drammatico) la comicità si sposa con i grandi temi del neorealismo: la povertà, la fame, il sesso spesso truffaldino, le corna, l’Italia che si sta faticosamente ricostruendo, gli inganni, l’arte di arrangiarsi, le differenze di classe.

Tutti i figli di De Sica

La locandina originale di Ladri di biciclette, di Vittorio De Sica (1948)
La locandina originale di Ladri di biciclette (1948)

Ma attenzione: questi sono anche i temi della commedia all’italiana. Che altro non è, se non un neorealismo in cui le storie quotidiane della gente sono osservate con ironia e un pizzico di sano cinismo. Monicelli, Risi, Scola, Comencini, Steno, Zampa: tutti figli di De Sica. Ed è sempre bello ricordare che Scola decise di fare il cinema a 17 anni, quando nel ’48, uscendo di casa in zona Esquilino per andare al liceo, passò per piazza Vittorio e vide dei camion e delle attrezzature che erano lì perché “giravano un film”. Quel film era Ladri di biciclette, la scena appunto del mercato di piazza Vittorio, e il giovanissimo Scola rimase affascinato da quel signore elegante con il megafono che sembrava comandare la piazza a proprio piacimento. “Decisi che volevo diventare quell’uomo col megafono, la sciarpa e il cappello”, raccontava Scola, e quell’uomo era Vittorio De Sica.

In fondo uno dei momenti più alti della storia del nostro cinema è la Mostra di Venezia del 1959, quando il Leone d’oro andò ex aequo a La grande guerra di Mario Monicelli e a Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini, nel quale De Sica sfodera un’interpretazione magnifica, che trasforma in solenne apologo il raccontino di un mediocre scrittore come Indro Montanelli (sì, ripetiamo: bravo giornalista, mediocre scrittore e pessimo regista quando affronterà il cinema in prima persona dirigendo il verboso e bruttissimo I sogni muoiono all’alba).

Due grandi film che mescolano commedia e dramma, e che raccontano in modo dissacrante due momenti topici della nostra storia: la prima guerra mondiale e l’occupazione nazista. Due film, guarda caso, in cui dei cialtroni lavativi e vigliacchi diventano eroi senza nemmeno volerlo. Se non è, questa, la vera storia di questo disgraziato, adorabile paese…

 

Alberto CrespiGiornalista e critico cinematografico

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