“To lead a better life/I need my love to be here”. È il verso di un brano dei Beatles, Here, there and everywhere, scritto da Paul MaCartney e contenuto in Revolver. Un verso che sembra racchiudere il sentire di Richard (Tom Hanks), il protagonista maschile di Here, il nuovo film di Robert Zemeckis dal 9 gennaio in sala. Quel “qui, là e ovunque” che il regista più sperimentale e pionieristico del cinema statunitense contemporaneo racchiude nel soggiorno di una casa al cui interno scorre tutto lo spettro delle emozioni umane. Adattamento cinematografico dell’omonimo fumetto del 2014 di Richard McGuire, il film rappresenta la reunion artistica di uno dei film a stelle e strisce più importanti, celebri e amati della seconda metà del Novecento: Forrest Gump.
Dietro la macchina da presa il settantaduenne Zemeckis che co-firma la sceneggiatura insieme a Eric Roth, premio Oscar nel 1995 proprio per lo script del film ispirato al romanzo di Winston Groom. Alla fotografia e alle musiche ancora una volta, rispettivamente, Don Burgess e Alan Silvestri. Davanti l’obiettivo Tom Hanks e Robin Wright per una storia che parte dall’era giurassica e arriva fino ai giorni nostri. In mezzo meteoriti, ghiacciai, nativi americani, schiavismo, guerre, l’attacco a Pearl Harbour, i Fab Four all’Ed Sullivan Show, il razzismo insito nel DNA americano e, addirittura, il Covid. Ma anche e sopratutto giorni di Natale e del Ringraziamento o giorni qualunque fatti di gioie e dolori, vita e morte, amore e allontanamenti. La vita, insomma.
Tutta condensata in uno spazio di terra che ha visto la storia collettiva e privata di un gruppo di individui di epoche diverse scorrere inesorabile attraverso le mura di una stanza e una grande finestra che si affaccia su una piccola porzione di mondo. Zemeckis sceglie la camera fissa con la quale riprende per un’ora e 45 minuti la stessa inquadratura movimentata dal montaggio non lineare di Jesse Goldsmith e da riquadri che compaiono sullo schermo attraverso i quali spostarsi di epoca in epoca.
Ma è la famiglia Young – composta inizialmente dal veterano della seconda guerra mondiale Al (Paul Bettany) e sua moglie Rose (Kelly Reilly) e poi dal figlio Richard (Hanks) e la fidanzata Margaret (Wright) – a rappresentare il cuore pulsante del racconto. Nella casa costruita all’inizio del XX secolo nella tenuta di William Franklin, figlio illegittimo del padre fondatore Benjamin, assistiamo alla loro quotidianità. Sogni realizzati e aspirazioni tradite, litigi e tenerezze.
Caratterizzato da un impianto teatrale, Here è stato fortemente criticato da una fetta della critica cinematografica statunitense perché ritenuto troppo o troppo poco sentimentale e per aver utilizzato una nuova tecnologia di intelligenza artificiale, la Metaphysic Live, che permette di ringiovanire i volti degli attori in tempo reale.
Una scelta ritenuta da alcuni controproducente in termini emotivi. Ma togliere la tecnica ad un film di Robert Zemeckis è come togliere la panna montata dalla cioccolata calda. Qualcosa che può esistere a se stante, certo. Ma alla quale manca un elemento fondante. La base stessa del suo cinema vive di questo binomio ed è anche ciò che ha reso così grandi le storie che ha raccontato. Un filo rosso che collega ogni suo titolo nei quali spesso sono presenti i temi del tempo e della memoria, dalla trilogia di Ritorno al futuro a Forrest Gump. Gli stessi su cui si basa Here.
“Il tempo vola” commenta uno dei personaggi. Una verità dal retrogusto del luogo comune, ma che il film di Zemeckis ci mostra compiersi letteralmente davanti ai nostri occhi. Secoli, epoche ed esistenze diverse scorrono alla velocità di un battito di ciglia.
Ma i ricordi di una vita sono anche quelli che scorrono via da Margaret a causa della demenza. Così Here diventa anche una riflessione sulla memoria. Quella privata di una donna che custodisce gioie, rimpianti, riscatto e dolori, ma anche la nostra, intesa come individui parte di una collettività e spettatori. Non è un caso che le quattro pareti della casa degli Young corrispondano ai quattro lati dello schermo cinematografico e dell’inquadratura. Tra l’atro il continuo susseguirsi di “quadri” che si avvicendano ricordano il moltiplicarsi delle immagini che ogni giorno “esplodono” davanti ai nostri occhi attraverso i dispositivi tecnologici.
Si potrebbe apostrofare superficialmente Here come un melò sdolcinato e intriso di malinconia. Un aspetto indubbiamente presente. Ma dentro il film c’è anche un significato stratificato custodito in due sedie rivolte verso gli spettatori che aprono e chiudono il film. L’invito di Robert Zemeckis a metterci comodi e guardare la storia degli Young (e dell’umanità) attraverso la quale riconoscere un po’ anche la nostra. Fino a quell’unico movimento di macchina finale che svela una nuova, commovente, prospettiva.
Manuela Santacatterina – Giornalista