Centri storici, verso il convegno di Spoleto: intervista a Claudia Mattogno

Il futuro è in centro. Il valore sociale, economico e culturale dei centri storici. Di questo tratterà un convegno a Spoleto, il 2-3 luglio, con la partecipazione di economisti, urbanisti, architetti, giuristi, filosofi. L’esempio di Bordeaux; "era chiamata la bella addormentata di Francia è diventata una delle città più vivibili".

C’è da restituire ai centri storici della città una nuova dimensione e un nuovo senso? Cominciando da dove?

Prima di rispondere, vorrei premettere un ringraziamento per questa lunga serie di domande, molto articolate e circostanziate, che denotano uno specifico interesse e che, allo stesso tempo, esprimono il segno di una rinnovata attenzione per un tema che ha attraversato la cultura urbanistica italiana, a più riprese e con diversi approcci.

Sarebbe utile ripercorrere alcune tappe della nostra storia recente, ma non voglio anticipare troppo gli argomenti da affrontare nel convegno.

Mi limiterei ora a ricordare che, nel nostro Paese, la questione dei centri storici ha costituito un ampio campo di riflessione teorica e progettuale i cui valori e contenuti sono stati poi “esportati” come modello e condivisi anche con altri paesi europei.

Ciclicamente i territori, così come l’economia, sono attraversati da momenti di crisi che costringono ad operare un ripensamento critico e adottare nuovi punti di vista. A mio avviso, le sfide poste dai cambiamenti climatici in atto, esigono oggi delle priorità che investono tutte le dimensioni del territorio, e quindi anche e soprattutto i piccoli centri: le connessioni con il paesaggio e le questioni ambientali.

Uno dei temi del convegno è la necessità di evitare lo svuotamento dei centri storici per la fuga di coloro che vi abitano, e di favorire il ripopolamento. Quali misure sono tra le più urgenti?

La risposta non è immediata, altrimenti sarebbe stata già messa in atto…

Come urbanista, la mia visione è ampia e orizzontale, è inclusiva più che specialistica, tendente ad una sorta di programmazione organizzata più che a fornire soluzioni singole. Molti piccoli centri si sono spopolati, altri sono diventati vetrine turistiche, altri ancora, dopo le glorie dei secoli passati, stentano a trovare assetti adeguati alle esigenze di vita contemporanea.

In alcuni casi, un certo “immobilismo” ha preservato qualità ambientali e architettoniche che altrimenti sarebbero andate perdute. Penso soprattutto a numerosi piccoli nuclei dell’Appennino centrale, fuori dalle grandi rotte, che ora possono vantare delle pregevoli qualità ambientali su cui fare leva per un rinnovamento degli stili di vita.

Sarebbe utile mettere in atto politiche a scala vasta, in grado di coinvolgere più centri, in modo da attivare reti, a partire dai servizi alle infrastrutture (e qui mi riferisco non solo alle infrastrutture grigie della maglia stradale, ma anche alle infrastrutture verdi e blu e ai servizi ecosistemici), per operare non sulla singola realtà locale, ma su un sistema territoriale più ampio.

I centri storici, da Lecce a Roma a Milano, sono dominati dal cosiddetto “tavolino selvaggio”, che specialmente nelle ore serali e notturne provoca fenomeni che incidono sulla vivibilità, il decoro e l’igiene. Come si può risolvere la contradizione reale tra le esigenze della vivibilità e dell’appeal dei centri storici e le esigenze economiche degli operatori commerciali?

Le città più grandi sono soggette a enormi pressioni che i piccoli centri non subiscono.

Le situazioni più lamentevoli che riguardano il cosiddetto tavolino selvaggio investono i centri più grandi e sono state esacerbate dalle pseudo misure prese nel post pandemia, nel tentativo, alquanto miope a mio avviso, di compensare le chiusure forzate dei mesi precedenti.

Si è trattato di iniziative di carattere settoriale, spesso intraprese a fini promozionali, per non dire demagogici, che tendono a privilegiare interessi privati a scapito di quelli collettivi. Le strade animate sono quelle dense di attività, come già ricordava Jane Jacob, nel suo libro più famoso e conosciuto, scritto nel 1961 con il titolo The Death and Life of Great American Cities.

Nelle parti iniziali del testo troviamo l’essenza stessa del suo pensiero che qui vorrei riprendere con due brevi citazioni:

Le strade e i marciapiedi costituiscono i più importanti luoghi pubblici di una città e i suoi organi più vitali” e quindi “Una strada animata è… una strada sicura… La strada deve essere sorvegliata dagli occhi di colore che potremmo chiamare i suoi naturali proprietari… I marciapiedi devono essere frequentati con sufficiente continuità”. [1] 

Questo testo ci parla della ricchezza offerta dalla mixité delle funzioni urbane, ovvero di quella compresenza di attività che è in grado di rendere attrattivi, e quindi animati, i centri.

Ci spinge a riflettere sui valori di urbanità che devono essere presenti negli spazi urbani, dove solo la compresenza di utenti diversi può evitare l’effetto ghetto. Privilegiare le funzioni ricettive, ed in particolare quelle rivolte solo alla fascia dei turisti, è come avere una monocultura in un giardino.

Lo abbiamo visto a Roma dove le zone centrali sono quelle che maggiormente hanno risentito della pandemia: molti negozi dei grandi marchi e catene alberghiere non hanno retto alla repentina interruzione dei flussi turistici, mentre nei quartieri le chiusure commerciali sono state più contenute.

Immaginare parti di città destinate solo ai turisti, o agli addetti del terziario, rende queste zone prive di vita. È solo la residenza, con tutti i servizi che servono ad accompagnare la vita quotidiana assieme ad una diversificazione delle attività produttive, che può garantire vitalità urbana costante.

La rigenerazione e la riqualificazione dei centri storici non dovrebbero essere anzitutto una rigenerazione culturale assieme a una riqualificazione degli spazi e degli arredi urbani? Qual è il punto di vista di un’urbanista?

Per una urbanista parlare di riqualificazione o rigenerazione urbana significa essenzialmente lavorare sugli spazi connettivi, su quegli spazi pubblici o collettivi che costituiscono l’impianto della città. Strade, piazze e aree verdi, ma anche urbanizzazioni primarie e secondarie che costituiscono la base del nostro vivere civile.

Il ridisegno delle parti collettive assieme a una loro buona manutenzione è sicuramente un punto di partenza, come hanno dimostrato anni fa alcune città europee, a partire da Barcellona e Lione, che hanno investito sulla riqualificazione degli spazi pubblici in maniera sistematica attraverso settori strutturali, come i trasporti pubblici e la pedonalità.

Potrei elencare un numero sterminato di città che si è attivata in tal senso, trasformando la creazione di nuove linee di tram in infrastrutture verdi, ma mi limito a citare Bordeaux, che veniva chiamata la bella addormentata di Francia e che ora, a seguito della profonda riorganizzazione del lungofiume, è diventata una delle città più attrattive per la qualità di vita e per le dimensioni estetiche offerte dall’ambiente urbano.

Sono città che non si sono limitate ad inserire banali arredi, come panchine o fioriere, ma che hanno profondamente inciso nel sistema della mobilità, che hanno investito nell’inclusione di nuove categorie di utenti, di varie fasce di età e di reddito.

Certo, per i centri più piccoli approcci, esigenze e disponibilità sono chiaramente ben diverse e diversamente contestualizzabili, ma l’investimento sulla manutenzione urbana è sicuramente un primo passo in grado di rafforzare l’identità collettiva e di coagulare nuove attenzioni.

Del destino e del rilancio dei centri storici debbono occuparsi solo le amministrazioni comunali o anche, come questo convegno del resto suggerisce, la società civile, le regioni, il Governo?

Domanda complessa e nello stesso tempo un po’ scontata…. Penso che prendersi cura dello spazio che abitiamo sia una pratica di consapevolezza e di responsabilità nei confronti del nostro pianeta. Riguarda tutti noi a qualunque scala e a ogni livello.

 

M.N.

 

[1] Le citazioni si riferiscono rispettivamente a pag. 27 e pag. 32 della traduzione italiane del volume Jane Jacobs (1961) “Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane”, Edizioni di Comunità, Torino 2000.

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