“Come Eravamo”, viaggio di Bruno Tucci nel giornalismo italiano

Un affresco di un grande giornalista su un mestiere che resta affascinante

Si intitola Come Eravamo l’ultimo libro del giornalista Bruno Tucci, storico inviato speciale del Corriere della Sera, che a 87 anni  ha deciso di raccontarsi e di raccontare la trasformazione che il nostro mestiere ha avuto nel tempo. 

Cosa è rimasto dell’epopea dei grandi inviati speciali che una volta giravano il mondo senza cellulari e con un semplice taccuino per appunti? In che modo è cambiato il mondo della comunicazione dominata da internet? E soprattutto, chi c’era nelle redazioni degli anni ’70/’80 e ’90 dei grandi giornali italiani? Chi comandava? Chi guidava la macchina del giornale? Quanti amori e quanti odi all’interno di ogni redazione ? 

Troverete tutto questo nel nuovo saggio di Bruno Tucci, edito da Edizioni All Around, e fortemente voluto dalla Fondazione per il Giornalismo Paolo Murialdi per la “serie memorie, un’intuizione felice che apre tutto un mondo a molti ancora sconosciuto e che porta il nome del segretario Generale della Fondazione, lo storico del giornalismo italiano Giancarlo Tartaglia.

Bruno Tucci, chi non lo conosce? Classe 1935, nato in Calabria in un paesino della Sibaritide che si chiama Amendolara, giornalista professionista dal 1959, laurea in giurisprudenza, assunto al Messaggero come praticante nel 1957, poi dal 1978 al Corriere della Sera come inviato in Italia e all’estero, quindi vicecaporedattore. È stato presidente dell’Ordine del Lazio per 18 anni e consigliere di amministrazione Inpgi. Ma è rimasto ancora oggi quella grande miniera di informazioni che ogni giornalista moderno e bravo dovrebbe avere. 

Lucido, geniale, spavaldo, arrogante, padrone di sé, intuitivo, Bruno era sempre un passo davanti agli altri, aveva una marcia in più, e questo faceva di lui una icona del giornalismo on the road. 

Ricordo un dettaglio della mia vita personale legata a lui che forse lui avrà anche dimenticato: quando la sera del 23 novembre 1980 a Balvano crollò la volta della Chiesa di S. Maria Assunta dove morirono 77 persone, di cui 65 bambini, parliamo del terremoto in Irpinia, quella notte in una tenda della Protezione Civile lo trovai intento a scrivere il suo pezzo, e lo vidi piangere. Non avrei mai immaginato che il Bruno Tucci che leggevo da anni sulle pagine del Corriere della Sera con la grinta letteraria che solo lui sapeva usare avesse anche questi cedimenti emotivi. Quella notte a Balvano capii che non bisogna mai giudicare gli uomini dalle apparenze. 

Carlo Verdelli, attuale direttore di Oggi, che di questo saggio firma la prefazione e che a quanto pare lo conosce meglio di tutti noi, lo chiama molto confidenzialmente “Don Tucci”. 

“Il calabrese di Roma poi diventato monsignor Tucci e alla fine, dopo 65 anni di onoratissimo servizio, pure vescovo o cardinale, appartiene alla fortunata schiera di quelli che hanno potuto seguire la strada per la quale erano nati. E in questo suo amarcord, malinconico ma non troppo, riannoda i fili di una storia che ha un passato di poco remoto ma del tutto dimenticato, un presente tumultuoso e un futuro forse brillantissimo (speriamo!) ma con poca memoria. Seguendo il suo racconto, se ne recupererà un po’, che male non fa, anzi”.

Ma il suo libro non è solo il racconto della sua vita personale. È anche uno spaccato antropologico e sociologico di quegli anni e di quel modo di fare informazione. Ricordate la Rivolta dei Boia chi molla a Reggio Calabria? Quando in piazza scese tutto il popolo reggino e diede vita ad una delle rivoluzioni sociali più preoccupanti della storia della Repubblica Italiana? Bene, fu proprio quella rivolta che cambiò la vita professionale di Bruno Tucci.

“La svolta della mia carriera avvenne durante l’estate del 1970 mentre stavo tranquillamente riposando al mare, in Calabria, la terra dei miei genitori. In un pomeriggio caldissimo suonò il telefono (i cellulari non esistevano) e dall’altro capo del filo il redattore capo – era allora Matteo De Monte – mi informò: Guarda che a Reggio c’è una sommossa di gente che sbraita contro una decisione del governo. Tanto sei a un passo, vedi che cosa succede e poi torna tranquillamente al mare”.

Bruno corre a Reggio Calabria e si sistema insieme a tutti gli altri giornalisti che stavano intanto arrivando da Roma, all’Hotel Excelsior, dove per la prima volta si misura con i giornalisti in quel momento più famosi e ammirati d’Italia.

“Il fatto è che l’hotel Excelsior dove abitavamo divenne una vera e propria redazione di un giornale. Grandi firme come Giampaolo Pansa, Alfonso Madeo, Marco Nozza, Francobaldo Chiocci, Egidio Sterpa, Luciano Lombardi, insomma l’élite del giornalismo italiano… Non furono giorni facili, la sommossa durò a lungo e qualche volta rischiammo pure di essere malmenati… Sembrava che non dovesse finire mai. Ancora a ottobre del ’72, sempre scrivendo da Reggio, fotografai in questi termini la situazione: Dopo venticinque mesi, la città della “lunga rivolta” sta di nuovo vivendo giorni di estrema tensione”.

Una volta chiusa la Rivolta di Reggio Bruno Tucci torna al giornale, e finisce in redazione a fare il cuciniere: Doveva di fatto organizzare la vita di una trentina di altri suoi colleghi alle prese con la cronaca locale, quella regionale e quella nazionale.Ma Reggio gli aveva instillato nella mente il sospetto concreto che a lui quel lavoro piacesse, ma non stando seduto ad una scrivania.

“Con Reggio Calabria avevo portato più volte la firma in prima pagina, non potevo fermarmi. Leggevo e rileggevo i reportage dei grandi inviati dell’epoca: Cavallari, Montanelli, la Fallaci, Corradi, Levi, Tito, maestri che non hanno avuto eredi. Insomma, giornalisti di quella fatta non ce ne sono più. Si è perso lo stampino”. 

Ma come si faceva una volta a diventare un inviato speciale di un grande giornale? Nessuno ci crederebbe ma Bruno Tucci racconta nel suo saggio un inedito su cui oggi varrebbe la pena di riflettere.

“Il traguardo non era facile anche e soprattutto perché come direttore generale era stato assunto al Messaggero un giovane rigidissimo che aveva un unico pensiero: mai deroghe o favoritismi. Luigi Guastamacchia – questo il suo nome – sosteneva che un redattore per diventare inviato doveva aver scritto nell’arco di un anno articoli pari alla metà più uno dei giorni che vanno dal 1 gennaio al 31 dicembre. Per essere più chiari 186 pezzi, un numero davvero incredibile. Non so da quale fonte avesse imparato tale regola perché nel nostro contratto di lavoro non c’era scritto nulla di tutto questo. Però, lui era il numero uno dell’amministrazione (se si esclude l’amministratore delegato Ferdinando Perrone) ed era colui che dettava legge”.

Rieccolo il grande Tucci, che non conosce indugi e mediazioni quando c’è da formulare un giudizio professionale.

“La tecnologia ha polverizzato lo stile e il garbo di una volta. Vorrei citare un episodio di cui fui protagonista. Prima di essere assunto nel 1978 al Corriere avevo avuto un abboccamento con Piero Ottone, uno dei miti di quell’epoca. Mi rivolse poche parole. Volle sapere il curriculum, gli studi che avevo fatto, gli argomenti di cui mi ero occupato. Quattro minuti, non più. Bene – disse – forse lei entrerà al Corriere come inviato, la gioielleria del nostro giornale. Nel qual caso, le raccomando principalmente la scrittura. Deve essere semplice, comprensiva, ma efficace. Soggetto, predicato e complemento. Se vorrà mettere un aggettivo la prego di telefonarmi”.

Altri tempi, altro stile, altra classe, ma anche altri modi di intendere il mestiere e lo stesso rapporto interpersonale tra colleghi che facevano lo stesso lavorando alla fine sotto lo stesso tetto. E quando Bruno si convince che è il momento di un bilancio complessivo, anche qui non usa nessuna perifrasi di genere.

“Non è facile raccontare le esperienze e gli episodi accaduti in 65 anni e più di giornalismo trascorsi in due grandi testate: Il Messaggero e il Corriere della Sera. Emozioni, servizi sbagliati, qualche soddisfazione che potremmo definire successo strigliate dei direttori, bocciatura di un articolo sbagliato, la paura di mettersi alla macchina da scrivere e veder che il foglio infilato nella magica Olivetti 22 rimane bianco. È una vita bellissima quella che ho vissuto nonostante le vicissitudini e la stanchezza che, in alcuni momenti, diventa depressione. Il nostro è un lavoro che ti prende e ti coinvolge e non c’è ostacolo che ti possa impedire di andare avanti. O l’hai dentro questa fiamma oppure è meglio cambiare strada e prendere altre direzioni”.

Ma cosa spinge un vecchio cronista del passato, famoso come lui, che le ha viste tutte e che in questo mestiere è stato protagonista assoluto di mille corse a ostacoli, a spogliarsi del suo tradizionale riserbo e atteggiamento sempre molto elitario, a tratti anche borghese, qualche volta insopportabile e irritante, per rimettersi in discussione e tentare un confronto impietoso e diretto con le nuove generazioni?

“Il mio proposito –spiega Bruno Tucci nel suo libro – è quello di dimostrare (spero) come, attraverso i fatti di una lunga carriera, sia cambiata la nostra professione. I cellulari, la tecnologia, internet: quindi la possibilità di informarsi nello spazio di pochi minuti. In meglio? In peggio? Non lo so. Ecco perché ritengo giusto che si faccia un paragone del come eravamo e come siamo”.

Ma chi l’avrebbe mai immaginato che un giorno l’irreprensibile e superbo Bruno Tucci, re dei grandi inviati di tutta Italia, avrebbe confessato di essere riuscito ad entrare a Il Tempo di Renato Angiolillo grazie alla più classica delle raccomandazioni politiche?

“Mi ero laureato da poco in giurisprudenza e volevo tentare di entrare in un giornale. Non era facile ma fui aiutato da un importante amico di mio padre (morto purtroppo qualche anno prima). Il benefattore si chiamava Giuseppe Bottai, sì proprio lui, l’ex ministro dell’Educazione nazionale durante il fascismo. Parlò e chiese al mitico Renato Angiolillo di far provare un giovane che aveva un forte desiderio di diventare giornalista. Allora, Il Tempo era un grande giornale della Capitale (lo è ancora adesso, sia pure se la difficoltà del momento non è favorevole alle testate di carta) con firme di primo piano. Ricordo Alberto Giovannini, Flora Antonioni, Alberto Consiglio, Ettore Della Giovanna e un capo redattore giovane, Egidio Sterpa, con cui divenni grande amico una trentina di anni dopo. La scuola per eccellenza è la cronaca e lì fui mandato a imparare. Colleghi bravissimi come Rinaldo Frignani, Bruno Zincone, Bruno Palma, Ezio Bartoloni che tentarono in tutti i modi di aiutarmi, ma non ebbi fortuna”.

Deve averla amato molto Bruno Tucci la sua redazione di cronaca al Messaggero. 

“Quella redazione rappresentava l’argenteria del giornale. Rammento alcuni nomi: Giancarlo Del Re (che continuò il faticoso lavoro di Ceroni con le “Avventure in città”); Ruggero Guarini che mostrava cultura ogni volta che dialogava con i colleghi; Giuseppe Columba, detto Nenè, dalla prosa semplice ma efficace; Andrea Barbato che non ho bisogno di dire chi fosse; Alberto Bevilacqua che Zappulli stimava moltissimo per la capacità di scrittura (un po’ meno per scovare notizie) Vittorio Roidi, divenuto poi presidente della Federazione della Stampa; Virgilio Crocco, il collega che aveva sposato la famosissima Mina dopo averla ascoltata in un concerto e averle mandato cinquanta rose; Nanda Calandri, l’unica esponente femminile del giornale circondata (in senso buono) da oltre centoventi redattori”.

Ma ci sarebbe da scrivere molto altro ancora. Vi sonsiglio di leggerlo il suo libro, lo consiglio soprattutto ai giornalisti più giovani perché sono certo ne trarranno molto giovamento.

Dopo la Prefazione di Carlo Verdelli, i titoli in cui Bruno Tucci ha sintetizzato la sua meravigliosa avvenura professionale sono: Come eravamo, L’argenteria di un giornale, Nessun favoritismo e la svolta della mia carriera, “Malacugini”, Il “Cuciniere”, Un sogno: l’inviato e la fine degli inviati, I Piemontesi, La solidarietà, La nube tossica di Seveso mi avvicina al Corriere, Di nuovo al confino, Il processo alla Br, I giorni del colera, Un difficile ritorno, La svolta, Un sogno: il Corriere, La P2, Gli inviati al terremoto, Un milione di copie, “Maradoneti”, I voti di Cavallari, Aria diversa con Stille, Ecco l’Ordine, Quale professione, Notizie e inganni, giacca e cravatta, La pubblicità e l’agonia del cartaceo, Ogni notizia ha il suo odore, Il cane da guardia, Un esame per tutti, Un aiuto ai giovani, Una generazione di maestri, Radio Radicale, I furbetti dell’editoria, I doppiogiochisti, La pandemia e l’informazione. Infine l’indice dei nomi che in un saggio di questo genere diventa fondamentale e grande curiosità.

 

Pino Nano – Giornalista, caporedattore centrale Rai

 

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