Portogallo e Finlandia, le ali progressiste dell’Europa

"I have a dream": L’Italia si potrebbe ispirare a loro?

CulturaMondo

A chi si occupa di politica italiana, chi come me ha sempre seguito gli Esteri o la Cultura e si lascia trasportare da un sogno ad occhi aperti sulle sorti magnifiche e progressive del Bel Paese potrà sembrare un alieno calato, fresco fresco, dalle Terre dell’Ingenuità, situate in chissà quale remota plaga della nostra galassia. 

In effetti un po’ naif mi ci sento, ma proprio perché non mi pare affatto di essere un extraterrestre. Il sogno riguarda due nazioni che per la loro posizione geografica sono le ali del Vecchio Continente: la Finlandia, nell’estremità orientale, e il Portogallo, al termine occidentale. Pur così distanti e diversi, entrambi hanno un elemento in comune: sono amministrati da governi socialisti maggioritari e hanno un livello minimo di conflittualità politica e sociale. 

Tutti e due, peraltro, hanno raggruppamenti che si ispirano a una destra nazionalista, sovranista e nativista e che non si possono dire trascurabili, ma che di fatto non hanno vera incidenza politica sui rispettivi Esecutivi. 

Prima di parlare del mio sogno, vorrei contestualizzarlo un po’. Per varie ragioni, io è come se oltre alla patria vera, l’Italia, in cui sono nato, ne avessi una seconda, il Portogallo, dove in passato ho vissuto a lungo e tuttora abito buona parte dell’anno, in alternanza tra Roma e Lisbona. Nella capitale lusitana è nato anche Giulio, il mio secondogenito. 

L’invidia non è un sentimento nobile; molto meno se chi ne è oggetto è il proprio figlio. Eppure confesso che proprio nei giorni scorsi l’ho invidiato, perché 31 anni fa gli toccò in sorte di venire al mondo a Lisbona. Come figlio di italiani, registrato al nostro Consolato, il suo passaporto è italiano; ma se lo volesse gli basterebbe una semplice richiesta per ottenere la nazionalità portoghese. 

Il mese scorso, quando sembrava che Sergio Mattarella non fosse disponibile per un secondo mandato, di fronte all’ipotesi che una certa candidatura potesse concretizzarsi nell’elezione alla prima magistratura del Paese che io non ho mai cessato di amare, confesso che ho invidiato mio figlio. “Se la cosa amata è vile, l’amante si fa vile”, recita una celebre canzone di Leonardo da Vinci; ma per fortuna quell’ignobile sentimento si è presto diradato, per due ragioni. 

Prima perché mi sono informato, scoprendo che dopo aver risieduto in Portogallo per almeno cinque anni, conoscendo la lingua e non avendo macchie sulla fedina penale, condizioni che io soddisfo, si hanno i titoli per chiederne il passaporto; poi perché, nel frattempo, la corsa al Quirinale si è conclusa nel modo che sappiamo e io, come gran parte degli italiani, non posso che sentirmi soddisfatto, orgoglioso e grato al “nostro” Presidente. 

Purtroppo però non basta. Passato qualche giorno dall’elezione e spentasi l’eco dei 53 applausi che hanno punteggiato il discorso d’insediamento di Mattarella, mi sembra che la situazione complessiva del Paese stia prendendo una piega tutt’altro che positiva. 

Inoltre la congiuntura internazionale è tale che esistono fondati timori che per l’Italia, come anche per il resto dell’Europa, gli scenari non siano dei più rosei. Qui, però, il quadro appare più fosco che in larga parte dell’Europa. Per sincerarsene basta ripercorrere i punti salienti toccati nel suo intervento dallo stesso Mattarella, che è sembrato voler dare al suo discorso una sorta di bipolarità; come fosse composto da una pars destruens e da una pars construens. 

Il presidente ha lasciato in fondo la seconda, in cui ha ricordato le principali caratteristiche del Paese, che ne fanno un concentrato di bellezze paesaggistiche, artistiche, culturali, che forse non hanno uguali nel mondo. Non ha detto però, né avrebbe potuto farlo, che tutte le storture, le problematicità, i difetti, le contraddizioni, le illegalità da lui adombrate nella prima parte (con termini più delicati di questi, ma analoghi nella sostanza), spesso fanno premio sulla seconda. 

In altre parole (questo lo sto dicendo io, da cittadino non avvezzo a entrare nei recessi e nei meccanismi dell’esercizio dei poteri politici e ancora meno di quelli cosiddetti “forti”) è come se, assetati, fossimo sempre condannati a vederci passare sotto il naso una serie infinità di bicchieri colmi di ogni sorta di bevande rinfrescanti senza però poterne mai bere. 

Temo ormai che le istituzioni e soprattutto gli schieramenti politici siano indifferenti allo scollamento che c’è tra loro e la gente comune. Passata, come dicevo, l’euforia quirinalizia siamo tornati agli scontri di tutti contro tutti, in una rappresentazione dei rapporti tra poteri che riesce difficile non chiamare trabocchetti, scede, giochi. 

Possibile che non ci si avveda che la gente è stanca e nauseata di queste continue gabole, di questa autoreferenzialità che beneficia sempre e solo chi la esercita, del distacco e dell’ipocrisia con cui si finge di mostrare “sensibilità alle istanze” (si sarebbe detto una cinquantina di anni fa) delle persone? 

Spesso, troppo spesso, si fanno promesse false e prese in carico, altrettanto fasulle, dei problemi del popolo (già del popolo, una parola quasi desueta). Si fa assegnamento sul fatto che spesso la memoria dell’elettore è corta, preso com’è dal dover affrontare le disfide dell’esistenza.

Neppure nelle quotidiane minuzie, la cui somma però può fare la differenza nella vita della gente, c’è coerenza, serietà e determinazione nel risolvere i problemi. Parlo di cose relativamente semplici e di palmare evidenza, come lo smaltimento dei rifiuti, lo stato di molti ponti, viadotti e strade, la fatiscenza di tante linee ferroviarie locali, dei trasporti urbani. Cose sì semplici, ma fondamentali. Invece (è solo un esempio) ci si continua a baloccare con idee dissennate come quella del Ponte sullo Stretto che, si spera, mai vedrà la luce, seguitando a bruciare decine di milioni in consulenze e sterili studi di fattibilità. 

Partiti e organizzazioni della cosiddetta destra credono di poter governare la società complessa in cui ci muoviamo ricorrendo a idee “campanilistiche”, a semplificazioni di comodo, a suggestioni che da un mese all’altro prendono direzioni diverse, perché, come fossero vele, diversi sono i venti che spirano. Spinte che fanno leva sui sentimenti primordiali della gente comune, che coltivando idee sovraniste, identitarie, addirittura xenofobe pensa di ottenere una specie di compensazione, un risarcimento per la progettualità, le aspirazioni e il lavoro che gli sono stati sottratti.

Queste pulsioni – indubbiamente deleterie ma, si deve ammettere, non campate in aria dati i contesti e i “brodi culturali” in cui si alimentano – sono contrastate a “zero costo” e “zero impegno” dai partiti che si vorrebbero di sinistra, progressisti. Che non vanno quasi mai oltre dichiarazioni di intenti e attestati formali a favore degli immigrati e che rispondono a categorizzazioni di principio, meramente teoriche, riconducibili ad àmbiti triti e scontati, come il “buonismo” o il “politicamente corretto”. 

Eppure i modelli di altri Paesi a cui ispirarsi, per esempio il Canada, non mancherebbero. Se da un lato si dovrebbe rimediare allo sconcio di non aver ancora approvato una legge che garantisca lo ius soli a ragazzi nati in Italia, spesso monoglotti di cultura italiana e che non hanno alcuna intenzione di lasciare quello che a tutti gli effetti è il loro Paese, dall’altro si dovrebbe esercitare il massimo rigore contro gli stranieri che mostrino disprezzo per la cultura della legalità e in genere per le leggi della nazione che li ha accolti.

Spesso, invece, ci si limita a provvedimenti restrittivi e/o espulsivi facilmente aggirabili. E non è difficile immaginare che per ogni extracomunitario che viene colto a delinquere reiteratamente (come spesso succede) scattano pavloviani riflessi reazionari, in certa destra, che le portano voti più di una campagna elettorale. 

Qui, finalmente, si innesta il mio sogno. Fra tutti i partiti dell’attuale, frammentato mosaico, uno solo, secondo me, merita di vedersi riconosciuto un metodo di lavoro e un impegno davvero fattivi. È il partito da me più lontano per princìpi e finalità; ma l’esserne agli antipodi non può fare velo al riconoscimento dell’efficacia del suo modus operandi. 

Fratelli d’Italia, sotto la guida della giovane presidente Giorgia Meloni, ha saputo confermare una tendenza già in nuce nei raggruppamenti che fanno capo a quella che si usa definire “destra sociale”. Più di altri, di destra centro o sinistra, FdI ha perseguito il radicamento sul territorio, mediante un’opera capillare dei suoi attivisti soprattutto nelle zone socialmente più deprivate e quindi conflittuali con i numerosi nuovi immigrati, spesso irregolari, che fatalmente entrano in conflitto coi residenti “autoctoni” poveri o neopoveri, sottooccupati o disoccupati. 

La destra ha saputo invertire le parti, facendo sue battaglie sociali che storicamente (e logicamente) prima erano della sinistra. Che io mi sognerei di vedere nuovamente impegnata in prima fila non in diatribe interne e lotte intestine, ma in un’opera puntuale di promozione sociale di zone degradate, affidata a militanti capaci quanto volonterosi. 

Il mio sogno si compone anche di un’altra immagine, mutuata dalla realtà portoghese. A novembre scorso i due partiti di ispirazione marxista che con l’appoggio esterno garantivano la tenuta del governo socialista di António Costa, in una immotivata e masochistica presa di posizione non hanno approvato la legge di bilancio, provocando la caduta dell’Esecutivo e l’indizione di nuove elezioni.

Dopo una campagna breve e nel complesso civilissima nei modi e nel confronto tra le forze in campo, il premier uscente ha ottenuto la maggioranza assoluta e il Partito socialista governerà da solo, senza chiedere l’appoggio di alcuno. Almeno nella fase euforica di una tale vittoria, Costa avrebbe potuto lanciare proclami trionfalistici al proprio elettorato e, per converso, presentare il conto agli avversari sconfitti. 

Invece ha rassicurato il Paese che cercherà di mantenere un dialogo aperto e fruttuoso con tutte le forze politiche. Ha restituito in fair play una cortesia ricevuta un anno e mezzo fa. Dopo una serie di contrastanti e spesso cruciali decisioni, prese da Costa per far fronte all’allora incipiente pandemia, Rui Rio, il leader dell’opposizione, chiarì che sebbene quello in carica non fosse un governo di unità nazionale e il Pds, il suo partito, ne fosse il maggior oppositore, augurava a Costa ogni fortuna, aggiungendo che data la difficoltà del momento i successi del governo sarebbero stati quelli di tutti.

Un altro “quadro” del mio sogno è che anche in Italia, come in Portogallo, nessuno dei partiti abbia nel proprio emblema nomi e facce di gente che più che a un leader spesso fanno venire in mente un capataz. Perché prima o poi i capataz passano; restano, semmai, le idee. 

Quanto alla Finlandia, il sogno si è chiuso con una sua peculiarità. Dal 2000, da semipresidenziale che era stata, è divenuta una Repubblica parlamentare. In Italia c’è chi pensa di fare il contrario. E quello, più che un sogno, potrebbe essere un incubo. 

 

Carlo Giacobbe – Giornalista, scrittore

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