“La guerra in Ucraina ha cambiato tutto in Germania, compresa l’eredità di Angela Merkel. Decenni di politica estera sono stati messi pesantemente in discussione non solo dall’establishment ma anche dall’opinione pubblica impaurita. La passata strategia del dialogo con Mosca e la riluttanza a trarre le conseguenze dalla deriva del putinismo sono diventate l’emblema di una crisi d’identità collettiva che vede al centro proprio l’ex Cancelliera”.
A spiegare le ragioni del “processo” alla Merkel in corso da parte dei media e del suo stesso partito – la Cdu – è Roberto Brunelli, giornalista di esteri ed esperto di Germania, che ha seguito le ultime elezioni tedesche per l’Agi e quelle del 2017 per “Repubblica”. Attualmente scrive per “Politica”, l’inserto del “Domani”, e per la Zeit online. È autore della biografia di Angela Merkel “La Sfinge” (Imprimatur Editore).
Rispetto alla scelta dell’ex Cancelliera di rimanere spettatrice muta delle tragiche vicende di quest’anno, Brunelli osserva: “Fa impressione che abbia sostanzialmente scelto la regola del silenzio, a parte qualche invito a “contestualizzare” le decisioni del passato. Forse è la sua solita tattica del fare passare le grandi onde di caos per poi sorprendere tutti quando il mondo meno se lo aspetta. Ma sebbene l’Europa debba ringraziare lei per quel tanto di stabilità che ancora la sorregge, mai come oggi la sua eredità politica è messa a rischio”.
In Germania è in corso un “processo” ad Angela Merkel. Secondo la Bild è l’unico politico occidentale a non essersi scusato per gli errori nelle relazioni con Mosca. L’ex presidente del Bundestag, Wolfgang Schaeuble, frena sul definirla una grande Cancelliera e anche i vertici della Cdu, il suo partito, si mostrano di giorno in giorno più freddi. Un’evoluzione che ha del clamoroso per colei che per quattro mandati ha retto (e apparentemente protetto) la Germania. Se lo aspettava?
Prima della guerra in Ucraina questo scenario non era prevedibile. Angela Merkel ha lasciato la cancelleria all’apice della sua popolarità, sorretta anche da una stima ed un rispetto internazionale che ha pochi paragoni. Al punto che qualcuno immaginava un suo ruolo di vertice alle Nazioni Unite oppure alla Nato: offerte in questo senso sono arrivate finanche dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres. Ma l’attacco delle forze armate russe in Ucraina ha cambiato tutto: decenni di politica estera tedesca sono stati messi pesantemente in discussione non solo dall’establishment politico ma anche da un’opinione pubblica profondamente scossa e impaurita, sia perché una guerra che squarcia l’Europa stessa infuria non molto lontano dai confini della Germania sia per l’inflazione che esplode e le scosse all’economia che minano la coscienza di sé dei tedeschi. Così quella che è stata per anni la politica del costante dialogo con Mosca e l’evidente riluttanza a trarre le necessarie conseguenze dalle derive del putinismo sono finite per essere l’emblema di una crisi d’identità collettiva che vede Merkel come elemento centrale.
Ma com’è stato possibile che Berlino non abbia sentito per tempo i campanelli d’allarme sulla Russia di Putin?
Bisogna considerare che la linea del dialogo con Mosca non era certo solo della Cancelliera, ma è stata sostenuta e portata avanti anche dal presidente Frank-Walter Steinmeier, dall’attuale cancelliere Olaf Scholz, da gran parte della stessa unione Cdu/Csu che oggi con notevole disinvoltura punta il dito contro la sua ex leader, contro colei che per sedici anni ha guidato il Paese. Una linea di condotta verso la Russia che ha peraltro una storia antica, una storia che oggi viene un po’ troppo banalizzata sull’onda del non sorprendente manicheismo che ogni conflitto armato porta con sé.
Quale storia?
Quaranta e passa anni fa era la Ostpolitik di Willy Brandt che ha contribuito non poco alla caduta del Muro di Berlino, successivamente è stata la dottrina del “Wandel durch Handel” (cambiamento attraverso il commercio) che ha portato nella Russia post-sovietica migliaia di aziende tedesche, segno però anche di una obiettiva vicinanza della Russia alla Germania, storica, geografica e ben radicata, con una complessità che si estende, come minimo, dalla fine della Seconda guerra mondiale ai lunghi anni della Ddr. Una vicinanza di cui Merkel è figlia eccellente: cresciuta nella Germania dell’Est, parla un russo perfetto, conosce quel mondo, capisce cosa vuol dire uscire dall’universo sovietico. Oggi tutto questo le si ritorce contro, tanto da mettere in discussione la sua eredità politica, i suoi sedici anni di cancellierato che pure hanno così profondamente segnato la Germania: chiunque, a Berlino e nelle altre capitali, si chiede come abbia potuto non vedere il pericolo all’orizzonte.
Dopo Gerhard Schroeder, caso certamente molto diverso, anche Merkel finisce crocefissa dall’opinione pubblica del suo Paese per una mancata abiura nei confronti di Putin. Quando, in fondo, Berlino ha molto beneficiato del gas russo e del commercio con Mosca.
Sono convinto che la storia dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 debba ancora essere raccontata fino in fondo. È vero che il gas russo ha rappresentato una delle architravi della crescita economica della “locomotiva d’Europa”. Eppure con il senno dell’oggi risulta incredibile come la Germania – ossia Merkel in primis, ma anche Scholz dopo di lei e quasi tutta la dirigenza politica del Paese, con l’interessante eccezione dei Verdi – abbia insistito e difeso come “progetto puramente economico” le pipeline russo-tedesche praticamente fino a poche ore prima dell’invasione delle truppe russe. Era sin troppo facile profetizzare che una tale dipendenza energetica da un solo Paese, la Russia di Vladimir Putin, potesse rivelarsi un testacoda clamoroso, con effetti non solo sull’approvvigionamento energetico ma anche sotto il profilo della sicurezza nazionale e degli equilibri geopolitici.
C’erano stati segnali di un potenziale corto circuito nelle relazioni tra i due Paesi?
Certo. Le sempre più lampanti tensioni con Putin cresciute negli anni: gli attacchi hacker al Bundestag, le espulsioni reciproche di diplomatici e agenti segreti, le operazioni sempre più invasive dei servizi russi in Germania, i contrasti molti aspri sul caso Navalny, il sostegno più o meno esplicito di Mosca alle forze politiche più destabilizzanti, come l’ultradestra dell’Afd. Ora di tutto questo si presenta il conto a Berlino, e in prima fila sul banco degli imputati c’è Merkel, che pure si era spesa moltissimo ai tempi della prima crisi ucraina e dell’annessione della Crimea. Proprio quello fu un momento cruciale che rappresentò una prima frattura importante con Putin”.
Merkel è stata considerata per due decenni l’unica leader europea, insieme a Emmanuel Macron in una fase. Ha avuto un ruolo cruciale nel varo del Recovery Fund, di cui oggi l’Italia è il principale destinatario attraverso il Pnrr. Ha tenuto la barra dritta durante il Covid, assicurandosi tassi di popolarità stellari. La guerra in Ucraina la consegna a un imprevisto tramonto inglorioso?
È presto per dirlo. Certo, fa impressione che l’ex Cancelliera di fronte allo sconvolgimento ucraino e l’aggressione russa abbia sostanzialmente scelto la regola del silenzio, a parte qualche precisazione sul fatto che le sue scelte del passato vadano considerate “nel contesto”. Forse è la sua solita tattica del fare passare le grandi onde di caos per poi sorprendere tutti quando il mondo meno se lo aspetta: per quanto l’Europa debba ringraziare lei per quel tanto di stabilità che ancora la sorregge, fatto sta che mai come oggi la sua eredità politica è messa a rischio.
Lei scrive nella sua biografia dell’ex Cancelliera che Putin, ben consapevole del terrore della Merkel per i cani, l’accolse a sorpresa a un vertice con un irruento labrador che sguinzagliò a favore dei fotografi. Quali erano i reali rapporti tra i due leader? E sono cambiati nel tempo?
Sì, certamente è cambiato il loro rapporto. Prima del 2014 gli incontri tra la Cancelliera ed il presidente russo venivano descritti come match serratissimi tra due persone che si conoscono a menadito, che sanno bene ognuno i trucchi dell’altro: lui che assume toni da agente del Kgb (quale era stato, proprio nella Ddr in cui Merkel cresceva come giovane scienziata), lei che non raccoglie le sue provocazioni e gli risponde in russo fluente, lui che attacca e lei che sciorina i dettagli più minuti dei dossier più complessi.
Un rapporto di odio-amore, politicamente parlando?
Fece il giro del mondo una ricerca del Guardian che si divertì a contare tutte le telefonate intercorse all’epoca tra Putin e Merkel: ebbene, erano di gran lunga le più numerose, superando quelle con Obama e con i capi di Stato delle altre Repubbliche ex sovietiche, per dire. Ma con l’annessione della Crimea si è registra una rottura: per Merkel era stato superato un limite, si era spezzato un filo rosso. Motivo in più per non comprendere fino in fondo come mai abbia voluto difendere fino all’ultimo istante l’incredibile progetto Nord Stream 2.
Nella prima fase della guerra diverse voci – compresa quella di Matteo Renzi – auspicavano per Merkel un incarico di mediatrice con il Cremlino. Sarebbe stata una buona idea?
Credo di no. È vero che la sua conoscenza di Putin, l’aver trattato con lui per centinaia di ore in così tanti anni, in teoria rappresenterebbe uno strumento in più. Ma per i motivi che abbiamo visto ci troveremmo di fronte oggi a un mediatore indebolito. Appare significativo che anche Viktor Orban, in una recente visita in Germania, abbia voluto incontrare a quattr’occhi Merkel prima di essere ricevuto da Scholz mandando a dire a Berlino che se lei fosse ancora Cancelliera la guerra non sarebbe mai scoppiata. Tesi discutibile, di cui però è facile indovinare il retropensiero velenoso: che con l’ex “ragazza dell’Est” al timone del più grande e ricco Paese d’Europa l’Occidente sarebbe stato più aperto a compromessi nei confronti del signore del Cremlino. Forse è anche per non dar adito a speculazioni del genere che oggi Angela Merkel continua a tacere.
Giovanni Cioffi – Giornalista