L’ennesimo extraterrestre, che per un guasto, o per fare pipì, dovesse fermarsi sul nostro pianeta, dopo esserci già stato, poniamo, un secolo fa, non avrebbe dubbi sul termine Antropocene, perché stavolta farebbe fatica a trovare un angolo dove riparare l’astronave, o liberarsi, senza essere avvistato. Composto dal greco àntropos, uomo, e kainòs, recente – dunque, età dell’uomo recente – il termine fotografa meglio di qualsiasi altro lo stato attuale della Terra: quei quasi nove miliardi di brulicante umanità, che saranno pure il segno del nostro successo come specie, ma, al tempo stesso, rendono il nostro futuro persino più precario di quello di tante altre che stiamo spingendo verso l’estinzione.
Nonostante la sua evidente aderenza alla realtà, però, l’uso di Antropocene non ha ancora raggiunto lo status di parola universale. I geologi, veri titolari di questa classificazione, concordano nel considerarlo parte dell’Olocene, che è il secondo periodo del Quaternario, ed è cominciato circa 11500 anni fa, dopo l’ultima glaciazione. E ammettono che abbia una sua propria identità, perché segnala con chiarezza la recente capacità dell’Homo sapiens di lasciare sulla Terra tracce così profonde da potersi definire, appunto, geologiche, cioè capaci di durare per ere e di essere avvistate dallo spazio. Tuttavia, continuano a discutere sul momento dal quale farlo decorrere, il che vuol dire, in poche parole, quali impronte umane prendere in considerazione: se le emissioni in atmosfera, o la plastica, o il cemento, o la radioattività, o i rifiuti in generale.
La verità è che, da un lato, è difficile dare termini precisi a un fenomeno del quale siamo insieme osservatori e protagonisti. Dall’altro, è impossibile ignorare che stiamo modificando per la prima volta, su scala globale, i meccanismi che regolano la vita sulla Terra. E allora, è meglio che a definire l’Antropocene sia proprio il bilancio del nostro impatto negativo sulle altre specie e, in definitiva, sulla nostra, dal momento che, come aveva ben compreso Noé, siamo sulla stessa Arca. Marco Galaverni, ricercatore in biodiversità ed evoluzione e responsabile Wwf per la tutela giuridica della Natura, li elenca così, con la tecnica collaudata di chi sa che deve trasmettere, insieme ai problemi, anche l’urgenza di risolverli e, nonostante tutto, l’ottimismo della possibilità.
“Abbiamo alterato in maniera significativa i tre quarti delle terre emerse e i due terzi degli oceani. Abbiamo già estinto, o portato sull’orlo dell’estinzione, un milione di specie. Se ci mettessimo sul piatto di una bilancia, e sull’altro tutti gli altri mammiferi, noi peseremmo il 36%, il 60% sarebbero i mammiferi che alleviamo, e appena il 4% le altre specie di selvatici. Stiamo usando le risorse del pianeta molto più delle sue capacità di rigenerarne. Se ci vogliamo bene, dobbiamo moltiplicare gli sforzi per conservare la natura e rientrare all’interno di quei limiti sicuri di produzione e consumo delle risorse, che si definiscono, appunto, sostenibili”.
È paradossale, ma più aumentano i segni e l’evidenza del riscaldamento climatico, più si alza la voce dei negazionisti che lo attribuiscono a fattori naturali e non umani. Come possiamo reagire? Perché è chiaro che dobbiamo restare passivi, altrimenti finiamo per aiutare la diffusione di queste idee, che arruolano l’ignoranza, ma nascono da precisi e meditati interessi economici.
Intanto chiariamo il fatto che la scienza non ha assolutamente dubbi sul fatto che la crisi climatica è stata innescata dalle attività umane, legate soprattutto all’utilizzo dei combustibili fossili. Detto questo, che aumenti il negazionismo, in realtà, può essere anche un buon segno, perché vuol dire che siamo proprio arrivati al punto di snodo. Stiamo intaccando un modello di sviluppo che ci siamo portati dietro per centocinquant’anni e cominciamo a costruirne uno nuovo. Cambieranno gli equilibri di potere politici ed economici. É ovvio che chi aveva maggiori interessi a mantenere lo status quo, usi tutte le armi possibili, non solo culturali, per contrastare il cambiamento, che sarà, però, inevitabile: se vogliamo garantirci un futuro sul Pianeta Terra, non potrà essere che un futuro equo e sostenibile.
Ma i seguaci del negazionismo sono in malafede, ignoranti, o illusi?
C’è una combinazione dei vari fattori. Chi è all’interno del sistema, sa perfettamente quali sono le conseguenze del nostro modo di vivere, di produrre e di consumare: ci sono documentazioni che lo attestano da decenni. Eppure, chi contesta la realtà per proteggere i propri privilegi sociali e finanziari, riesce a far leva su una massa di persone in buona fede, che aderiscono ai falsi messaggi più che altro in base ad automatismi psicologici di autodifesa. Dal momento che la sfida che abbiamo davanti è veramente ardua, e comporta cambiamenti drastici delle nostre abitudini, è più semplice attaccarsi all’illusione che l’allarme non sia vero e trattare chi predica la verità, o meglio la realtà, come un bugiardo, un matto, o un profeta di sventura. Il retropensiero dominante è che se anche fossimo in pericolo, non è colpa nostra, quindi, non possiamo farci niente: in qualche modo, ci salveremo come abbiamo sempre fatto, oppure cercheremo di ignorare il peggio fino all’ultimo.
Come nel film “Don’t look up”, dove nessuno alza gli occhi al cielo per non vedere l’enorme meteorite che sta per distruggere la Terra. Però, tra i negazionisti, ci sono anche molti scienziati…
Per fortuna, veramente pochi e con la “s” minuscola, perché, appunto, tra i veri esperti, non quelli sedicenti, nelle scienze del clima, ormai non c’è nessuno che non concordi sul fatto che il riscaldamento della Terra è indotto dall’uomo.
Ma c’è qualcosa che ci possa restituire un po’ di fiducia, in questo panorama, che continua a rimanere molto negativo, sia dal punto di vista del clima, sia dal punto di vista delle iniziative in grado di contrastarlo?
L’Europa in realtà ha già ridotto le proprie emissioni annue di anidride carbonica e molte nazioni si ben avviate su questa strada. Inoltre, ci sono molti progetti per conservare specie e habitat naturali che stanno funzionando. In alcuni ecosistemi ben tutelati, alcune specie, particolarmente elastiche, stanno dimostrando che la resilienza della natura, la sua capacità di reazione, è spesso più alta di quanto pensavamo. Questo ci induce a sperare che, semplicemente allentando le pressioni e le minacce, in qualche decennio si riesca a invertire la curva di perdita di biodiversità.
Qualche buona iniziativa a livello di accordi internazionali?
Ne cito una che reputo fondamentale, sebbene sia nota soprattutto agli addetti ai lavori. Il Global Biodiversità Framework, all’interno di una convenzione globale sulla biodiversità, ha indicato una linea chiarissima. Dice che dobbiamo arrivare a proteggere efficacemente almeno il 30% del pianeta a terra, restaurare almeno il 30% degli ecosistemi che abbiamo frammentato, distrutto o degradato, e orientare la finanza affinché supporti interventi concreti non solo per conservare la natura, ma anche per cambiare modi di produrre e di consumare.
In fondo non è così difficile, specie se paragonato a quel che stiamo rischiando..
Maurizio Menicucci- Giornalista, autore di reportage e di documentari scientifici