Antica stamperia Trevi, un gioiello d’arte e di tradizione nel cuore di Roma. Sergio Franci: urge una legge di salvaguardia per le botteghe storiche

Dagli archivi, come sorprese da un cilindro di prestigiatore, spuntano documenti interessanti: il menù del pranzo in Vaticano per festeggiare i Patti Lateranensi. I discorsi in Campidoglio sulla nascita di Roma "Capitale definitiva", carte su una vicenda opaca della vita di Garibaldi (il ripudio della marchesina Raimondi un’ora dopo averla sposata)

L’Antica stamperia Trevi è un raro caso in cui felicemente s’incrociano artigianato, arte, storia italiana, scienza delle relazioni e delle buone maniere di presentarsi in società, attraverso il “biglietto da visita”.

 

 

È – ci dice durante una conversazione il titolare Sergio Franci, un diplomatico mancato a giudicare dal suo aplomb e dal suo stile nel comunicare – la più antica stamperia romana ancora in attività e una delle più antiche d’Europa. Fondata nel 1780, nove anni prima della Rivoluzione francese, è da oltre 240 anni nella stessa città e nello stesso luogo, a due passi dalla Fontana di Trevi da cui ha preso il nome, anche se i gestori, naturalmente, hanno cambiato nomi nel corso degli anni.

Per avere prove documentali certe (per esempio le fatture) bisogna aspettare però il 1871, l’anno dopo la fine dello Stato Pontificio e il regime del papa re.

Ma prima di addentrarci nelle interessanti curiosità custodite in quello scrigno di storia e d’arte che è la stamperia Trevi, mettiamo a fuoco un punto che giustamente a Sergio Franci preme di sottolineare, un punto che va indirizzato all’attenzione dei pubblici poteri, del governo, del Comune di Roma, del ministero della Cultura: la salvaguardia delle botteghe storiche, messa in pericolo dal caro affitti e dalla tendenza a sloggiarle per far posto a più redditizi guadagni provenienti da pizzerie e fast food. Per cui urge una legge di tutela e valorizzazione delle botteghe storiche, nell’interesse non solo dei loro titolari ma della stessa Città e delle sue tradizioni storiche e culturali.

 

Sergio Franci

 

Ma diamo la parola a Sergio Franci, che spiegherà meglio di quanto possiamo fare noi qual è la situazione

“Le botteghe storiche muoiono perché, trovandosi nel centro della città, occupano un posto appetibile per tante attività e di conseguenza vengono aumentati gli affitti. E siccome si tratta di attività che non stanno sul mercato al pari di altre, non si possono confrontare con chi vende cineserie a un euro. Se le botteghe storiche come la nostra fanno un’attività creativa, è chiaro che rischiano di soccombere in una competizione in cui c’è un divario abissale di qualità e di oggetti d’uso; ecco perché qui occorre l’intervento dei pubblici poteri per evitare il disastro”.

Sergio Franci, quando parla di botteghe storiche e della Stamperia Trevi, è un fiume che difficilmente si riesce ad arginare, e quindi con impetuosa veemenza aggiunge, sinfonicamente, altre variazioni sul tema:

“In una città sommersa da paccottiglia serializzata, prodotta in Estremo Oriente, che ha perso quasi completamente ogni testimonianza degli antichi mestieri che un tempo erano parte vitale caratteristica della identità più genuina di Roma, la nostra stamperia è l’unica attività artigianale rimasta nella zona (del centro storico attorno a Fontana di Trevi, NdR) a testimoniare il tempo in cui non esisteva quasi distinzione tra l’artista e l’artigiano, un tempo in cui il saper e il saper fare hanno avuto un importantissimo ruolo nel creare l’identità e la cultura italiana e a costruire l’idea del bello e del (prodotto) ben fatto nel mondo”. La protezione delle botteghe storiche potrebbe anche essere l’occasione per offrire a un turismo qualificato esperienze autentiche, che oggi non trova in una città soffocata.

Che cosa si aspetta allora dalle istituzioni?

“Noi ci sentiamo abbandonati, come tutte le altre botteghe storiche. Io ho il ruolo di vicepresidente dell’Associazione Botteghe storiche di Roma. Ci siamo battuti in questi anni, ma manca una legge nazionale, il problema riguarda i centri storici delle altre città, del Nord, del Centro e del Sud. Tutto questo è assurdo. Che cosa mi aspetto? una particolare sensibilità per le botteghe storiche, una legge che le salvi da un destino di declino e di chiusura”.

“Oggi – incalza Franci – mi sembra che ci sia una sorta di omologazione verso il basso dell’offerta turistica. Se da una parte i Comuni si sono sempre stracciati le vesti a parole a favore delle botteghe storiche, dall’altra hanno concesso con eccessiva solerzia licenze a nuove imprese di scarso valore, che hanno preso il posto di attività storiche, anche in rioni come Trastevere, per esempio, costrette alla chiusura spesso a causa di richieste d’affitto insostenibili da parte della proprietà”.

“A questa pratica, duole dirlo, non sono estranei organismi dello Stato, da cui sarebbe più che lecito attendersi maggiore sensibilità e consapevolezza storica. Questa inerzia fa aumentare ulteriormente gli affitti in una spirale spesso incontrollata e incontrollabile verso il rialzo. Si aggiunga che l’omologazione verso il basso rende la città più anonima e priva di specificità culturali. E ci fa perdere quel carattere identitario che rendeva” le nostre città uniche e vive.

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Una stamperia che ha lavorato per papi, re, regine e oggi per le istituzioni della Repubblica

Sono numerose “le manifestazioni di stima ricevute, nel corso del tempo, dai clienti della stamperia ma soprattutto è vasta la raccolta di lavori che vi sono stati eseguiti, per papi, re e regine, nobili e cavalieri di tutti gli ordini e gradi, ministri, capi di Stato, capitani d’industria, istituzioni prestigiose (allo Stato pontificio con il papa re al Regno d’Italia, alla Repubblica, dalla Presidenza della Repubblica alla Presidenza del Consiglio)”. “Noi – dice Franci con giustificato orgoglio – abbiamo lavorato e lavoriamo per personaggi, uomini e donne, che hanno fatto la Storia e continueranno a farla”.

 

 

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Entriamo ora nell’officina della stamperia per capire come nasce questo particolare prodotto che è il biglietto da visita (si stampano anche tanti altri tipi di documenti, cartoncini, partecipazioni di nozze ecc). E scopriamo che c’è tutto un codice di comunicazione e interpretazione che va studiato e tenuto presente per non fare gaffe in società

Tutti abbiamo presente romanzi della letteratura del Settecento –Ottocento, specialmente francese (per es.su tutti: Stendhal, Balzac), in cui il cavaliere che volesse annunciarsi a una famiglia aristocratica, mandava in avanscoperta il suo servitore o maggiordomo incaricato di consegnare un biglietto, un avviso: appunto il biglietto da visita, con cui si annunciava a quella famiglia. Che di solito dava l’assenso, puntualmente riferito dal maggiordomo al suo signore.

Va precisato intanto che i biglietti non sono tutti uguali, né per la tecnica né per il modo di comporli, in quanto al testo. E qui Franci dà il meglio di sé nello spiegare cose che sembrano banali o ovvie ma non lo sono affatto, anzi servono per evitare figuracce.

 

 

La tecnica? “Usiamo- spiega il titolare della Stamperia Trevi – tecniche e tradizioni antiche: l’incisione a mano, il rilievo e lo sbalzo. Il biglietto da visita – dice poeticamente Franci – è un oggetto che parla di noi quando noi non ci siamo. E dà di noi una immagine affidabile a seconda di ciò che noi decidiamo di mostrare e di scriverci sopra. Rappresenta comunque la persona nel modo appropriato, e di questo sono particolarmente consapevoli i Giapponesi che usano consegnare il biglietto da visita con due mani, in segno di rispetto”.

 

 

Ci sono biglietti da visita personali e di lavoro, dunque?

Il primo serve solo per le relazioni personali, e si deve scrivere solo nome e cognome. Ogni altro elemento in più, telefono, mail, indirizzo, si aggiunge a penna a seconda del quantum di dati che si vuole dare alla persona a cui si consegna, e quindi va commisurato al tipo di rapporto, più o meno stretto, più o meno confidenziale che si vuole intrattenere o stabilire.

Il secondo biglietto – professionale – oltre al nome deve contenere i titoli professionali e accademici. E su questo molti fanno errori?

E cioè?

Per esempio: i titoli non vanno cancellati con un tratto di penna, come fanno certi con imbarazzante degnazione. Ma cancellarli è come evidenziarli. E’ un atto quasi arrogante.

Addirittura! Arrogante in che senso?

Perché sarebbe come dire: ho cancellato il titolo di ingegnere o di professore; io lo sono, ma per te non lo sono.

L’unica cancellazione che può andar bene casomai è quella del cognome.

Può tradurre?

Sarebbe come mandare questo messaggio: chiamiamoci per nome, diamoci del tu.

 

 

Quando lei spiega questi accorgimenti, qual è la reazione? Capiscono? Li accettano?

Spesso di stupore o di incredulità ma poi abbozzano e ringraziano. Una volta però fu più complicato.

Racconti, che cosa avvenne?

Una volta vennero dei collaboratori di un presidente del Consiglio a portarmi uno schema di biglietto da visita. Io gli risposi: mi dispiace, ma un biglietto così non posso farlo; intanto conosco il Presidente e non merita questo tipo di biglietto; e poi di per sé non è una presentazione all’altezza della carica, dovrebbe avere lo stemma in oro. Se ne andarono, non se ne fece nulla ma poi mi richiamarono dicendo: Lei ha carta bianca.

Beh, sono soddisfazioni, queste. Ma perché lo stemma in oro? Richiama il lusso, forse lo sperpero. O no?

Solo in apparenza. Perché l’oro non riguarda la persona ma è riferito all’ istituzione, la Repubblica. E il significato dell’oro, in termini di valore simbolico, ce lo siamo dimenticato?  È l’incorruttibilità, l’eternità nel tempo: è un simbolo di purezza assoluta.

Mi pare inutile che io Le domandi chi fosse quel presidente del Consiglio, ma glielo domando lo stesso

Lei fa bene a domandare, è il suo mestiere fare domande. Ma io, mi comprenda, sono legato alla riservatezza.

La Stamperia Trevi ha lavorato per i Papi. Anche per l’attuale Pontefice?

No, l’attuale Pontefice non ci ha contattato. E non penso che glieli faccia nessuno. Ha uno stile molto sobrio.

A proposito di Vaticano, ci può leggere il menù, che conserva negli archivi, della colazione fatta il 17 marzo 1929, per celebrare la firma dei Patti lateranensi avvenuta poco più di un mese prima tra il cardinale Pietro Gasparri e Benito Mussolini?

Franci ci mostra il menù e legge:

Brodo ristretto in tazza;

Scodelline con uova e tartufi;

Filetti di sogliola e risotto;

Faraona arrosto;

Insalata mista;

Asparagi con salsa olandese;

Gelato alla nocciola;

Formaggini;

Frutta e pasticceria.

Gli rispondo: chiudo l’intervista, mi ha fatto venire fame.

 

 

Grazie dottor Franci, verrò a consultare, per scrivere altri due articoli,  almeno due documenti a cui mi ha accennato: i discorsi pronunciati nel solenne banchetto la sera del 4 luglio 1871 nell’Aula magna capitolina nell’occasione che “Sua Maestà re Vittorio Emanuele II inaugurava la Capitale definitiva d’Italia”; e il carteggio della causa intentata da Giuseppe Garibaldi per ottenere l’annullamento del matrimonio con la giovane marchesina Giuseppina Raimondi, ripudiata pochi minuti dopo la cerimonia nuziale. E vedremo perché.

 

Mario NanniDirettore editoriale

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