«Un partito che non riesce ad immedesimarsi nei problemi della società diventa un ramo secco».
È la vigilia delle elezioni del 1983 quando Bettino Craxi, intervistato a Mixer da Gianni Minoli, commenta il nuovo corso del partito socialista che, grazie alla sua leadership, governerà l’Italia con un pentapartito, fino all’avvento di Tangentopoli. Quarant’anni fa, il 4 agosto 1983, Bettino Craxi giurò, primo socialista nella storia d’Italia, come presidente del Consiglio dei Ministri e aprì una stagione politica che continua, ancora oggi, ad esercitare la propria influenza, quantomeno a livello storiografico, in una riflessione e in una rilettura più equilibrata e serena di quegli anni della storia italiana.
La storia di Bettino Craxi all’interno del partito socialista ha radici profonde, figlio di un avvocato antifascista milanese, Craxi entrò nel Psi nel 1951, all’età di 17 anni, e apprezzò molto la decisione di Pietro Nenni di distanziarsi dalla repressione sovietica in Ungheria del 1956. La svolta di Nenni permise un graduale avvicinamento dei socialisti alla Democrazia Cristiana, ma le previsioni del leader socialista si dimostrarono vane e, dopo la disfatta delle elezioni del 1976, iniziò un vivace dibattito tra le molteplici correnti del Psi per trovare una nuova identità al partito.
Non riuscendo nessuna delle correnti ad avere una posizione predominante, si optò per un segretario di transizione e la scelta del Comitato centrale ricadde su Bettino Craxi, leader della corrente autonomista. In questa situazione di straordinarietà, Craxi trasformò non solo la transizione in status quo, ma condusse il partito socialista a a una marcata presa di distanza dal partito comunista, riuscendo grazie alla sua leadership e nonostante l’esiguità del consenso elettorale, a dominare il processo politico italiano; fino ad arrivare negli anni Ottanta ad essere assimilato, come definito dallo storico Giovanni Orsina, ad un “monarca repubblicano”.
Il successo di Craxi è dovuto alla sua capacità di cogliere lo spirito del tempo, modellando il partito in base ai bisogni emergenti della società civile italiana, trasformando un «partito inquieto» in un partito in cui, nonostante le discordie, la leadership era percepita salda e autorevole.
Nel corso del suo segretariato Craxi è riuscito a sedare le logomachie interne al Psi e a rinnovarlo attraverso nuovi simboli, nuove forme di comunicazione, nuovi interlocutori sociali. Come scritto da Giampaolo Pansa su L’Espresso nel 1981, il nuovo Partito socialista di Craxi aveva l’obiettivo di intercettare un consenso al di là del recinto di classe e guardava ad una «parte dell’Italia emergente e terziaria, […]. A loro Craxi promette le cose giuste: ottimismo, stabilità, democrazia efficiente e forte, e la speranza di vedere la Dc che passa la mano».
La stagione della centralità socialista fu il successo del processo di personalizzazione della leadership politica di Bettino Craxi ma, al contempo, la stessa personalizzazione fu il motivo della sua fine. Infatti, secondo autorevoli fonti, la scelta di Craxi di non cedere, una volta eletto presidente del Consiglio, la segreteria del partito fu il principio del processo che portò alla rovina politica del leader socialista, nonché alla marginalizzazione politica del partito del garofano.