Caterina Avanza, consigliera politica al Parlamento europeo per la delegazione francese di Renew Europe e responsabile Agricoltura per Azione, interviene per chiarire i principali temi divisivi all’interno del suo settore di riferimento. Dalle etichettature sui vini che introdurrebbero l’allarme sulla nocività, come per le sigarette, ai prossimi interventi per contrastare la peste suina africana, Avanza sottolinea come le prime non servirebbero a nulla, mentre assicura che la seconda si può sconfiggere, come hanno fatto Repubblica Ceca e Belgio. Mentre sulla nomenclatura di “carne sintetica” fa notare: “Come il latte di mandorla non può chiamarsi latte, anche la carne sintetica non potrà chiamarsi carne”.
L’industria del vino dell’UE, a differenza del cibo, non è mai stata precedentemente obbligata a elencare ingredienti diversi dagli allergeni sulle etichette dei vini. Ora abbiamo una svolta con l’introduzione di tale obbligo con la PAC: crede che questa normativa penalizzi l’Italia e se sì, quanto?
La nuova PAC 2023-2027 prevede che, a partire dal dicembre 2023, l’etichettatura dei vini riporti gli ingredienti utilizzati per la loro produzione. L’idea è di informare il consumatore con trasparenza. La Commissione, spinta dal Parlamento europeo ha accettato che l’etichetta fosse elettronica, come richiesto dalle filiere. Sulla bottiglia ci sarà quindi un codice da scannerizzare dove il consumatore troverà tutte le informazioni sui componenti. L’etichetta elettronica è più flessibile e corrisponde alle esigenze espresse dal settore. Nessuna inquietudine per il vino italiano quindi!
La PAC si applica ai prodotti immessi sul mercato dell’UE, compresi i vini prodotti nell’Unione Europea ed esportati al di fuori dell’Unione Europea (compresi gli Stati Uniti). Ma quanto pensa che il mercato extra UE possa essere una risorsa importante per l’Italia? Pensa sia un danno economico aver vietato le esportazioni in Russia?
La politica di promozione europea serve proprio ad aprire nuovi mercati per i nostri prodotti compresi i vini. Il mercato americano è molto importante per il vino italiano, così come tutti i mercati emergenti. E il successo dell’export dei prodotti Made in Italy è in parte dovuto alla politica di promozione europea. Quello che inquieta sono le tendenze ultra igieniste della Commissione, che minaccia di escludere carne e vino, a partire dal 2024, da tale politica, perché prodotti potenzialmente cancerogeni. Escludere il vino dalla politica di promozione Ue permetterebbe a vini cileni o australiani di prendere parti di mercato che i nostri vini si sono guadagnati con le unghie. Nessun benefit in materia di salute pubblica, ma una zappa sui piedi in materia di export. Riguardo alle sanzioni russe, si, hanno un impatto negativo sul comparto agroalimentare italiano, anche se non catastrofico, ma sono necessarie per indebolire l’aggressore russo. Più che la chiusura del mercato russo a pesare per le aziende agricole è stato il caro energia, il caro fertilizzanti e la scarsità dei prodotti di imballaggio e l’aumento del loro prezzo (alluminio, cartone, vetro, ecc).
Nell’ultimo periodo si è sostenuto che anche un bicchiere di vino fa male e che il cervello di chi beve alcol è più piccolo del normale. Uno studio inglese del 2019, pubblicato su BMC Public Health, forniva anche un termine di paragone, in nocività, tra una bottiglia di vino e 10 sigarette. Sono allarmi da prendere in considerazione? Fino a che punto?
Sulla nocività o bontà del vino esistono centinaia di studi. Penso che quello su cui si debba davvero continuare a lavorare sia la cultura del consumo moderato. Anche l’acqua fa male se ne si beve troppa e tutto di un colpo. I paesi dove la cultura e la tradizione del vino rimane forte come Spagna e Italia, sono i paesi dove si consuma meno alcol in Europa. A seguire la Francia. Non è un caso. Allarmismo e proibizionismo sono la miglior ricetta per dare voglia ai giovani di trasgredire e quindi anche consumare alcol in modo eccessivo. Equiparare tutti i prodotti alcolici è anch’esso un errore, bere un bicchiere di vino o un bicchiere di vodka non è la stessa cosa. Deve essere molto chiaro per il consumatore e quindi la vera informazione importante sull’etichetta deve restare quella del grado alcolico.
A tal proposito, dopo la decisione del governo irlandese sull’introduzione dell’etichetta riguardo la “pericolosità” del vino, come dovrebbe tutelarsi il nostro Paese? Che cosa teme il settore vitivinicolo dopo questo campanello d’allarme?
Ho vissuto in Irlanda dove ho fatto l’Erasmus. Avevo 20 anni e ho toccato con mano la differenza culturale rispetto al consumo di alcol. Anche i professoroni del famoso Trinity college, il venerdì sera al pub dell’Università, erano così ubriachi da non stare in piedi. Il bere fino a farsi svenire non appartiene alla cultura italiana quindi capisco l’urgenza per il governo irlandese di affrontare il problema del consumo eccessivo di alcol ma penso che le etichette “l’alcol può provocare il cancro” non serviranno a nulla. Se non si lavora sulla cultura della moderazione fin dalla scuola, non saranno delle etichette a cambiare le abitudini di consumo di un’intera società. Per i vini italiani l’Irlanda è un mercato molto piccolo quindi impatta poco. Quello che inquieta è che nonostante le etichette irlandesi siano in totale violazione rispetto alle regole dal mercato unico, la Commissione non abbia alzato un dito. Questo crea un precedente inquietante per il vino in Europa che sempre di più è associato ad un prodotto tossico.
Rincari dei carburanti e fertilizzanti e siccità stanno mettendo a dura prova l’integrità della filiera agricola. Quali potrebbero essere soluzioni strutturali?
Purtroppo il costo di carburanti e fertilizzanti è deciso dal mercato mondiale ed è soggetto agli choc geopolitici come è accaduto con la guerra in Ucraina. Per fortuna adesso i prezzi stanno un po’ calando. Sui fertilizzanti ci sarebbe da fare un discorso più ampio perché l’Ue, come per le mascherine e i ventilatori durante l’emergenza Covid, ha scoperto di essere totalmente non sovrana in materia. La maggior parte dei fertilizzanti è fabbricata in Marocco, sfruttando gas russo… senza fertilizzanti niente sovranità alimentare. Quindi serve creare subito una filiera europea di fertilizzanti, investendo soprattutto su quelli decarbonati, cioè che non producono Co2. La scienza li ha già inventati, servono gli investimenti per commercializzarli a dei prezzi accessibili. Sulla siccità servirebbero qualche ora! Prima di tutto economizzare l’acqua e eliminare gli sprechi. In Israele la dispersione è del 7%, in Francia il 20%, da noi il 40%. L’irrigazione a goccia poi è troppo poco diffusa in Italia, dobbiamo equipaggiare le aziende. E ancora insisto sul riutilizzare l’acqua. L’irrigazione attraverso acque reflue trattate si fa in tanti paesi ma non da noi. Se Israele che è un paese quasi desertico è riuscito a sconfiggere la siccità, direi che anche l’Italia può farcela ma bisogna cominciare subito con un piano ambizioso. Le risorse ci sono: cis “Acqua bene comune”, PNRR, pac, fondi strutturali europei ecc.
Filiera Italia e Coldiretti sembrano intenzionate a contrastare la carne sintetica perché “inquinante e poco sana”. Condivide queste posizioni? È necessario difendere anche il nome degli alimenti, in quanto la “carne” sintetica non ha nulla a che vedere con la zootecnia?
Sul nome indubbiamente. Come il latte di mandorla non può chiamarsi latte, anche la carne sintetica non potrà chiamarsi carne. Ma attenzione, potrà chiamarsi bistecca o burger come già avviene per quelli vegetali. Sul principio in sé dell’agricoltura cellulare invoco il principio di precauzione. Oggi ci sono pochi studi e non tutti fatti in modo olistico (cioè prendendo in conto l’impatto a 360 gradi). Penso che non ci siano le basi per dire sì o no e non siano cose che vanno prese alla leggera. Servono studi molto seri sulla sicurezza alimentare del prodotto. Sui vantaggi in materia ambientale ho forti dubbi che l’impatto globale sia positivo rispetto ad una bistecca di carne vera.
L’Italia ha adottato anche per il 2023 un Piano di sorveglianza ed eradicazione della Peste suina africana. Quanto pensa che questo riesca a contenere e proteggere? Occorrono modifiche o implementazioni? I casi di carcasse di cinghiale riscontrate positive ai controlli, tra Piemonte e Liguria, sono saliti a 356. Le organizzazioni professionali agricole chiedono da mesi un massiccio intervento per il depopolamento di cinghiali in Piemonte, per evitare che questi animali diventino “vettori” della patologia animale. Secondo lei quando sarà possibile iniziare?
La peste suina africana (PSA) è fonte di grande preoccupazione perché se dovesse arrivare alle zone di allevamenti suini nel cremonese, mantovano e in Emilia porterebbe a abbattimenti massa e stop all’export per tutti i prosciutti, insaccati, ecc. Un durissimo colpo per il Made in Italy. L’on. Matteo Richetti, su mio consiglio, ha presentato un’interrogazione ai ministri di Sanità e Agricoltura, perché come Azione consideriamo che l’operato del governo sia insufficiente rispetto al rischio potenziale che rappresenta l’epidemia. Vanno chiuse subito le zone infette a qualsiasi attività umana. I cinghiali dentro quella zona devono essere tutti abbattuti e trattati con norme ferree di bio sicurezza. Serve coordinamento fra le Regioni, le Province, i sindaci, il governo e il Commissario straordinario, che ci si chiede cosa stia facendo visto che dalla sua nomina il territorio infetto è più che doppiato. Repubblica Ceca e Belgio sono riusciti a sconfiggere la PSA. Quindi se si vuole si può. Come per la Xylella, se si vuole evitare il disastro, bisogna agire in fretta.
Enrico Scoccimarro – Giornalista