Quando parliamo di donne, parliamo di madri. Una condizione, questa, che non esclude quella dell’essere donna impegnata nel sociale, nel politico, nel lavoro, ma che non la include necessariamente.
Perché l’immediata identificazione della donna con la maternità? Perché la maternità è continuazione della specie senza la quale non ci sarebbe stata evoluzione umana, perché con la maternità, che è donna, si compie lo sviluppo dall’Uno al molteplice e perché l’essere madre comporta un impegno e un riconoscimento dell’Altro da sé che è stato il “tutto” con sé e per sé prima del primo attimo esterno di vita, prima del primo sguardo nell’atto di accudimento e di amore, quello dell’allattamento; una unicità che consente alla donna di instaurare con il neonato la più profonda e inestricabile relazione in una combinazione simbiotica che ne intreccia i vissuti.
L’atto del guardare non è neutro. Sappiamo che i neonati si percepiscono, si avvertono, come in uno specchio, a seconda dello sguardo materno che si posa su di loro. Dice Recalcati in “Le mani della madre”: I disturbi della relazione nascono dallo sguardo della madre nell’allattamento. La chiusura del volto della madre farà rimanere chiuso il volto del mondo. Il bambino si vede come la madre lo vede. In ogni gravidanza la futura madre si confronta con il fantasma della propria madre.
Nelle fasi successive, quando si forma la percezione del sé, i primi approcci con l’Altro da sé, con la madre, determineranno l’imprinting positivo o negativo, difficile poi da modificare, e che segnerà l’accettazione o il rifiuto parziale o totale della propria immagine. Il corpo diventa amabile se lo sguardo sul corpo è amabile.
Basterebbe che fosse condiviso questo assunto per porre in evidenza, ancor più coscientemente e coscienziosamente, la funzione materna che è stata oggetto di ripensamenti nella rimodulazione del ruolo femminile; non è, però, negandone la condizione “naturale”, né ridimensionandola, oppure operando un paragone e una identificazione con il ruolo paterno, che riusciremo nell’intento di rendere migliore, più giusto, più “democratico” il mondo.
Non è questo il punto.
Torno al testo di Recalcati: la maternità è un’attesa e in quest’attesa l’incontro con il figlio è l’incontro con un assoluto. Il padre è un osservatore esterno, testimone da un altro luogo di quello che avviene nel corpo della madre.
Nell’attesa, una donna psicotica o schizofrenica vive il proprio figlio, durante la gravidanza, come un oggetto morto. La madre gioiosa è attesa dal desiderio di maternità e il bambino si nutre dei pensieri e dei fantasmi della propria genitrice (Lacan).
L’attesa è una interpretazione dell’assenza del figlio ancora custodito nel ventre, e il corpo materno è ospitalità senza proprietà. Il Padre, l’osservatore esterno, è, invece, responsabilità senza proprietà, e può interpretare l’ospitalità solo in senso figurato perché il corpo del miracolo è femminile. Ecco, dunque, non l’identificazione dei ruoli, ma la differenziazione degli stessi che risiede unicamente nella “natura”: la madre è ventre, il padre assiste alla formazione, alla crescita della prole perché “naturalmente” deciso dai processi naturali.
Da Lacan, a Levinas, a Recalcati e non solo, il ruolo della donna-madre è fondamentale per la costruzione dell’identità, per la percezione di sé e del sé, per l’equilibrio di un rapporto con l’Altro, dato per scontato che è lei il primo Altro che noi tutti abbiamo incontrato, con interesse emotivo più o meno rilevante nei nostri confronti; la madre biologica ci ha offerto il seno, l’“ oggetto” che mantiene una duplice funzione: risponde ai bisogni primari, quelli del sostentamento, della nutrizione che lo rende indispensabile, ma è anche il segno della presenza amorevole e accudente dell’Altro.
Non dimentichiamo che il bambino durante la suzione sente il seno come parte del proprio corpo (Freud), che contempla il processo di appropriazione/identificazione.
La felicità o l’infelicità, l’equilibrio o il disequilibrio psico-fisico rimandano a quei primi atti di amore o di disamore anche quando i genitori adottivi, o genitori del segno, dell’accudimento e della cura, abbiano tentato di sanare la ferita incruenta di una madre abbandonica, dallo sguardo staccato, di occhi che non si sono specchiati in quelli del figlio.
E, a ben vedere, da ciò che siamo costretti a registrare, viste le tragedie personali e collettive, viste le condizioni di spregio della vita, fino alla inenarrabile e inconcepibile scelta dei suicidi di minori, drammaticamente sempre più frequenti, l’infelicità, il disinganno, il disamore, l’egotismo e la assoluta mancanza di empatia stanno violentemente prevalendo in un mondo distopico che ha perso la dolcezza dello sguardo materno inteso anche e soprattutto in senso metaforico, confinandoci in tanti in una atroce solitudine.
Una solitudine che reitera abbandoni, disperazioni, dolore e che, avvitandosi su se stessa, diventa cieca e distante dalle vite altrui, magari bisognose di sguardi e di ascolto.
La speranza per una ricostruzione di un sé armonico, che apprezzi e condivida i valori fondanti dello stare al mondo, sta tutta nella magia di un primo incontro, quello con la madre dallo sguardo amorevole e carezzevole, sta in quella prima relazione tra chi offre e non chiede e chi si apre a una vita che non ha scelto.
Da quella iniziale esperienza d’amore nascerà un soggetto che si avvertirà amabile e amato, che sarà in grado di affrontare il mondo e forse di recuperarne le radici per una necessaria e inemendabile rifondazione.
Rita Rucco -Docente Direttrice di Collana editoriale di Poesia Saggistica e Narrativa