Si racconta nelle storie degli inizi dell’evangelizzazione del Limburgo che il re, in una buia sera d’inverno, chiedesse a due monaci viaggiatori accolti nella sala regia ben illuminata e calda, con ospiti di riguardo, perché fossero venuti nel suo regno e che cosa portassero per la sua gente di diverso. Il monaco più anziano scrutò l’ambiente e gli occhi che lo osservavano; cercò su di sé l’attenzione. Poi improvvisamente da un’alta finestrella vide entrare un passerotto, il quale volò tutt’intorno; alla luce delle fiaccole si rallegrò scaldandosi per un breve tempo e, dopo alcuni volteggi seguiti dallo sguardo di tutti, uscì da un’altra finestrella, perdendosi nel buio.
Ecco – disse l’anziano monaco – così è la nostra vita: veniamo dal buio, ci rallegriamo alla luce del sole per qualche tempo, poi scompariamo nel buio. La risposta a questo mistero è ciò che noi vi portiamo. In verità, è una risposta che risale alla caverna dei tempi. Da allora abbiamo elaborato teorie e strategie mai esaustive, eppure cerchiamo sempre di trovarne una convincente che disseti definitivamente il bisogno di sapere.
Chi sono io? Il confrontarsi con se stessi è sempre il primo interrogativo, cioè riguarda il mio esistere, per estendersi poi al: Perché vivo? E poi? Tutto ciò esige il bisogno di commisurarsi con la realtà.
Sono questi gli enigmi più profondi della nostra vita: non sapere chi sono e cosa faccio, da dove vengo e dove vado; lavorare, fare qualcosa e poi sparire per sempre. I nostri algoritmi e le intelligenze artificiali non servono a questo scopo. Risolvono altre questioni rilevanti nel perimetro di una realtà sperimentale, ma non danno una risposta esistenziale, mentre la vita è teatro di preoccupazioni, di drammatiche violenze, di rivendicazioni, di guerre fratricide, di fame e delle tante povertà nel mondo. In verità, dice Papa Francesco: Solo quando siamo consapevoli del senso della nostra vita siamo anche in grado di dare un nome al male che abbiamo vissuto o subito.
Ma come? È possibile questa consapevolezza e che il desiderio del conoscere il prima e il dopo di questo segmento esistenziale, che è la nostra vita, sia un esercizio non vuoto? Certamente lo sarebbe fin quando restiamo raggomitolati, come il mio gatto, in noi stessi; lui poi si distende e si apre quando lo chiamo. In verità, un aiuto ci è necessario. Abbiamo bisogno che irrompa qualcosa di inatteso, di imprevedibile, di inaudito, di totalmente altro (E. Lévinas). Nella visione biblica il mistero dell’Incarnazione di Dio è quell’imprevisto, quell’unica possibilità, quel totalmente altro che ci è dato per tirarci fuori dalle sabbie mobili dello scetticismo o di un razionalismo asfittico. L’incredibile umiltà di Dio (di agostiniana memoria) svela la possibilità di cogliere un senso per la nostra esistenza. Per una qualche analogia, mi piace pensare a ciò che avviene nell’inatteso di un incontro tra due giovani: dapprima si adocchiano, poi si osservano e infine si prendono per mano, permettendo che, in quel frammento della loro vita, irrompa l’amore, un sentimento che governa il presente e lo trascende.
Paolo di Tarso un giorno se ne fece una sbornia: Se anche parlassi tutte le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’amore, sarei come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna; se conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l’amore, non sarei nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi l’amore, niente mi gioverebbe; l’amore è paziente, è benigno, non è invidioso l’amore, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’amore non avrà mai fine (cfr. 1 Cor 13, 98).
È l’amore che genera il bene; è il bene che ci permette di uscire da quel guscio ego-centrico in cui raggomitoliamo noi stessi. Interroga il tuo cuore – rispondeva Agostino di Ippona all’amico che cercava una risposta – e vedrai che l’inquietudine ti porta una risposta, non ti allontana, ma ti porta a Dio. Se l’abisso del cuore umano è di una profondità incommensurabile, osservava in una conversazione privata Benedetto XVI, non potremmo mai non confessare la verità di quel noto interiore sospiro del Vescovo di Ippona: Signore ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te; oppure del Salmo 139 (che è un’intima e profonda meditazione circa il dramma interiore del cuore umano): Tu mi scruti e mi conosci; sai quando mi siedo e quando mi alzo, scrutami nell’intimo, guida il mio cuore per una via di verità.
Insomma, possiamo trovare risposta alla domanda da cui siamo partiti? È possibile? Sì, è possibile; ma «non viene forse a noi solo in un ultimo giorno non noto»? (Benedetto XVI, in Gesù di Nazaret). La risposta non sarà mai un trattato apodittico! Viene in prospettiva e la fede la apre. Ma anche la ragione che, come in un quadrivio, dà le sue direzioni.
Fernando card. Filoni – Gran Maestro dell’Ordine equestre dei Cavalieri del Santo Sepolcro