Ahi stolta guerra, vituperio delle genti!

Si potrebbe riassumere così, parafrasando un’invettiva famosissima di Dante, il senso complessivo di un testo teatrale, forse non altrettanto famoso, di Ennio Flaiano, dal titolo “La guerra spiegata ai poveri”: un atto unico che è un concentrato di giustificazioni insensate sulla guerra, sulla sua “necessità”. 

A rileggerlo, dopo tanto tempo, resto sorpresa della sua perenne attualità, un po’ come quando rileggo le poesie di Brecht sullo stesso tema, soprattutto in questi scenari di nuove belligeranze. Si tratta di un apologo feroce, rappresentato per la prima volta il 10 maggio 1946 al Teatro Arlecchino di Roma (in seguito intitolato allo scrittore): un tema drammatico letto in chiave totalmente satirica, grottesca, paradossale, come nella migliore tradizione del grande teatro dell’assurdo, ma alleggerito dallo stile “flaianesco”, cioè chiaro, colorito e arioso. 

Quella prima rappresentazione era destinata a un pubblico ristretto di amici, attori, intellettuali ai quali l’autore si rivolse con un’avvertenza di sapore pirandelliano: promise che avrebbe rinunciato alla satira quando tutti gli altri avessero rinunciato alla retorica. Una promessa mai mantenuta e che testimonia del persistere nella nostra cultura di quella patologia endemica che è appunto la tendenza alla retorica, all’argomentare che gode di sé stesso e delle sue forme, che inalbera ragioni come vessilli prodotti più dall’istinto e dal conformismo che da una approfondita analisi. 

Il genio multiforme di Flaiano, sempre dissimulato dalla sua modestia, in questa operetta teatrale dialoga indubbiamente con il vate D’Annunzio, suo conterraneo, che della guerra, come della vita, aveva fatto un’opera d’arte, considerandola una scossa elettrizzante di vitalità e giovinezza. Fin dalle prime battute l’ennesima esperienza bellica è definita dai personaggi secondo vettori ideologici conformi al dannunzianesimo perenne: erotizzazione dello scontro, sublimazione dell’istinto marziale (che belli Marte e Venere di nuovo insieme!) estetizzazione dell’atto bellico di cui si esalta la poeticità: Ogni generale è un pochino poeta. E i poeti non danno spiegazioni. Dirò che le guerre si sentono ed è inutile spiegarsele. Io sento profondamente questa guerra. Anche il nostro popolo sente profondamente questa guerra e non importa se sinora ne ha già perdute parecchie, ciò che conta è che non abbia perduto la fiducia nella guerra in sé.

A parlare così è Il Generale (uno dei personaggi tanto anonimi quanto antonomastici che rappresentano simbolicamente il potere politico-sociale) il quale dichiara che la guerra è appunto la più bella avventura della vita. Gli altri, Il Presidente, Il Ministro, La Signora, Il Perito religioso, l’Ambasciatore ecc.. offrono le loro considerazioni aberranti (il religioso ricorre alla solita teodicea, definendo la guerra “giudizio di Dio” e il Presidente un “dente da togliersi”), per tentare di convincere uno Studente riottoso che il conflitto in corso è assolutamente necessario. Un conflitto mondiale che, come gli altri quattro che lo hanno preceduto, risponde a un bisogno endogeno dei popoli ed esiterà nella iperproduzione, rivelandosi come sempre un insostituibile volano economico. Il grande umorista Flaiano, sulla scia della tradizione del teatro dell’assurdo filtrata però dall’esperienza di Guareschi o Campanile, affida a queste “maschere” parlanti (la didascalia apre con PERSONE, appunto “maschere”) le più corrive argomentazioni sulla “guerra necessaria”, compreso l’assioma ontologico che essa serve a far esistere il suo contrario che è la pace. Apparente Elogio della guerra, dunque, tramite il quale l’autore snida le radici malsane della stessa ed insieme evidenzia l’ipocrisia del potere che manipola la Storia e la vita con la doppia retorica guerra vs pace: Nei secoli trascorsi i nostri due paesi avevano una sola lingua e una sola bandiera. Studi recenti hanno infine accertato che i nostri due paesi combatterono più d’una guerra contro lo stesso nemico, alfine distruggendolo (Ambasciatore).

A questa riflessione supportata da presunte indagini storiografiche il Presidente mostra di aderire prospettando una ripresa a fine guerra dei buoni rapporti d’una volta fatti di scambi di intellettuali, mostre d’arte, viaggi in comitiva di giornalisti, eccetera e poi saluta il diplomatico dicendo “Caro Ambasciatore, la guerra non porta pene.”

Il calembour di Flaiano sul famosissimo proverbio è una specie di firma d’autore, il sigillo proveniente dal suo gusto per il flash incorporato nel testo, il suo commento marginale e divertito dettato da un umorismo graffiante e insieme malinconico. In esso consisteva la sua valvola di sicurezza come uomo e come scrittore, la via d’uscita contro la solitudine sconsolata e il nichilismo. Sul tavolo della superficialità e rozzezza del giustificazionismo bellico espresso dai rappresentanti del potere, sintetizzabili nel concetto che la guerra è un vantaggio per pochi grazie alla morte di molti, Flaiano getta la sua carta preferita, quella dell’aforisma teso fino al “non-sense”, al rovesciamento logico o al paralogismo. 

Tutto il testo teatrale sembra pensato come “commedia”, tanto forte è il ridicule che lo attraversa, ma nel lettore odierno – costretto ancora una volta a porsi domande sulla guerra, come il giovane petulante che non ne accetta la “necessità” e che alla fine sarà uno dei tanti morti – smuove il sentimento dell’assurdo, un’ inquietudine reattiva. Il contrasto tra la sicumera delle maschere dialoganti e il vuoto o la banalizzazione delle idee espresse dirompe come grido d’allarme, come lectio perennis ai popoli, rovesciando la vis comica in drammatica denuncia e il testo in messaggio di profondo pacifismo. 

 

 

A conseguire quest’effetto spiazzante collabora non poco la scelta meta-temporale e meta-spaziale del contesto: in uno Stato imprecisato e in un tempo altrettanto indefinito, un qualunque Presidente fa il suo proclama cesariano: Il dado è tratto. Dichiarata questa guerra, non abbiamo adesso che uno scopo: vincerla o, perlomeno, continuarla. Lungimirante Flaiano! Questo particolare della prosecuzione a oltranza e senza giustificato motivo dei conflitti tra popoli riporta con evidenza profetica a quelli odierni, alla loro scommessa assurda con l’intelligenza, ai luoghi comuni che la retorica di guerra ancora inanella nella propaganda aggressiva e militaresca dei belligeranti e di chi li sostiene.

La guerra spiegata ai poveri appartiene come dimensioni e struttura a un “teatro da camera”, indubbiamente rivolto a un pubblico ristretto, contrario alla parodia troppo farsesca e sensibile alle scelte di un umorismo più raffinato, che però già preludeva nelle tematiche alle contestazioni – non solo giovanili – degli anni successivi. L’aspetto della parodia militare però diventa spesso esilarante, come in questo calcolo previsionale fatto per bocca del Presidente: Occorre che la truppa abbia le sue brave scarpe. Diciamo infatti: mettersi sul piede di guerra. Sul piede, non sulle mani. Noi abbiamo dunque bisogno di scarpe. Per un esercito di dodici milioni di uomini. Durata massima della guerra: quindici anni. Quindici per dodici: centottanta. Per due: trecentosessanta. Occorrono trecentosessanta milioni di paia di scarpe, considerato che ogni soldato ne adopera un paio l’anno e rivende l’altro. Siamo attrezzati per questo sforzo?  Un calcolo analogo riguarda poi l’esercito, i generali, le trasferte, le mogli, gli stipendi, le decorazioni, gli errori tattici e quant’altro.

Cataloghi surreali si susseguono in una grottesca contabilità che comprende anche i morti, i reduci e i feriti. L’interruzione animata da falso sdegno è affidata al Ministro che lamenta l’assurdità della guerra così concepita (non della guerra in quanto tale) per gli alti costi che comporta e che solleva addirittura la questione egualitaria: Quante nazioni non possono ricorrere alla guerra per mancanza di mezzi? Troppe, Signori. Ed è perciò che intendo parlarvi della mia concezione della guerra-autonoma, ovverossia guerra semi-perpetua. Sulle ultime parole aleggia con effetto comico il famoso scritto kantiano, cui segue una dissertazione pseudo-scientifica sul moto perpetuo, sogno degli antichi fisici e sulla necessità di ottimizzazione della guerra sotto il profilo economico, sull’utilizzo del milione dei morti, mentre il religioso con zelo si lancia in una difesa della guerra di religione contro quelle commerciali, perché le vie del commercio sono infinite. E quelle del Signore misteriose. Ancora un gioco di parole, una variante dell’adagio popolare per riaffermare che si combatte nel nome del Signore!

Nonostante questo dispiegarsi di energie intellettuali e argomentative, il Giovane obietta che non gli è stato spiegato cos’è la guerra e afferma che odia combattere perché “è immorale”. Apriti cielo! Le sue parole eccitano il Presidente che, per convincere quell’anarchico sentimentale arriva a interpretare la guerra come il salutare accordo tra Dio e Darwin allo scopo di perpetuare un’umanità forte e selezionata. Da qui in poi è un crescendo di teorie esaltate sulla guerra, in un dialogo serrato tra i personaggi che infilzano paradossi e luoghi comuni: una vera “schidionata” testuale.

 Nella parte conclusiva, dopo un bilancio distaccato sui tragici avvenimenti bellici, il Presidente offre un’ultima “spiegazione”, in cui mi pare che Flaiano abbia voluto ricordare la bellissima pagina dello Zibaldone di Leopardi sul jardin de souffrance. “Vi meravigliate di quello che succede nel mondo? Ma guardate cosa succede in una goccia d’acqua o quello che succede tra l’erbetta di un praticello, uno di quei praticelli che, ci scommetto, vi riposano lo spirito. La guerra è dappertutto [–]”. Polemos trionfa. Ovunque. Sempre. E la guerra che interessa il Presidente è già la prossima.

Su un rullo di tamburo cala rapidissimo il sipario. 

 

Caterina ValcheraDocente, saggista

Per capire l’arte ci vuole una sedia | | Teatro, “La locandiera” con Sonia Bergamasco. A Milano poi in tournée
Per capire l’arte ci vuole una sedia

Le lacrime amare di Mirandolina, o poesia che mi guardi (su "La locandiera" di Carlo Goldoni diretta da Antonio Latella, Read more

Per capire l’arte ci vuole una sedia | | L’arte e il gran teatro di Giovanni Testori
Per capire l’arte ci vuole una sedia

"Per gli inquieti abbiamo scritto queste righe". Così si congeda dai lettori uno scrittore d’arte diciottenne esordiente quando pubblica nel Read more

Vincenzo Mollica: “Porto in teatro la mia vita”

Roma, Auditorium della Musica, Giovedì 11 Gennaio. Un appuntamento imperdibile con il vecchio giornalista del TG1 Vincenzo Mollica che questa Read more

Quando israeliani e palestinesi si parlavano

Nei primi anni dopo il 1967 l’occupazione israeliana fu tutto sommato non soffocante e l’intento era di non interferire, nei Read more

Tags: , ,
Articolo successivo
Senza desideri di conquista. Un’esperienza salutare e nobile
Articolo precedente
I campus bruciano e preoccupano Joe Biden

Menu