Niki de Saint Phalle, a cura di Lucia Pesapane in collaborazione con Niki Charitable Art Foundation (Milano, MUDEC, fino al 16 febbraio).
Floriana Conte: In mostra ci sono opere che ha usato come bersagli durante i suoi celebri Spari. Proprio a Milano il 29 novembre 1970 alle 16:00 in Galleria Vittorio Emanuele, durante il festival per il decimo anniversario del Nouveau Réalisme, aveva eseguito uno degli Spari: indossando una tuta di velluto nero e un ciondolo a forma di croce, con un fucile Flobert sparò a un altare alto 3 metri che aveva realizzato con animali impagliati, statuette di santi, madonne e crocifissi. Il pigmento rosso dentro i barattoli nascosti dietro l’altare bersaglio imbrattò anche i poliziotti addetti alla sicurezza. Perché un’artista spara contro Dio?
Niki de Saint Phalle: Non ho mai sparato contro Dio. Io sparo contro la Chiesa. Esiste nel cuore dell’uomo il desiderio di distruggere tutto. Distruggere significa affermare la propria esistenza contro tutto e tutti.
F: Ha spesso rivendicato la differenza della sua arte rispetto a quella maschile. Imbracciare un’arma contro la sua stessa opera è femminile?
N: Il risultato è femminile perché io sono una donna. Quello che mi interessa è esprimere la poesia che è dentro di me. Un uomo non potrebbe mai avere fatto gli Spari, perché l’uso di quelle macchine distruttive inventate dagli uomini…solo una donna può farlo in modo costruttivo, bello. Io stessa con il mio lavoro esprimo i problemi che le donne affrontano oggi. Pensa che le donne possano solo dipingere mazzi di fiori? Io preferisco rappresentare donne che partoriscono.
F: Per creare le sue statue indossa guanti da cucina, mette a bagno i panni in un secchio e li stende… È come il lavoro di una casalinga il cui scopo è l’arte, non l’economia domestica.
N: Sì, ha ragione. È una parte del mio lavoro. Il risultato non è qualcosa di cucinato; non sto preparando un brasato. È un pezzo di follia spirituale che proviene da me stessa.
F: La follia spirituale che lei si attribuisce è stata, purtroppo, diagnosticata clinicamente quando era giovanissima. Di origine francese, bellissima come Uma Thurman in Henry & June, di ottima famiglia (che tuttavia le causa un dolore profondo), il ricovero in manicomio, l’amore per un collega, la scultura come ragione di vita anche se la scultura non era un mestiere da donne: c’è affinità tra la sua vita e quella di Camille Claudel, un’altra rara donna scultrice che pagò carissimo il suo genio.
N: Mi sono identificata non con la sua opera, ma con quello che le è successo. Sono stata rinchiusa a 22 anni. Ho subito 10 elettroshock. Ero pazza da legare: andavo in giro con pistole e revolver. Stavo bene solo se avevo un arsenale in borsa. Stavo molto male. Ma ho vissuto in un’epoca diversa. Mi era permesso uscire, esprimermi. Quindi mi identifico molto con la situazione della donna nel corso dei secoli. Il mio Giardino dei Tarocchi l’ho fatto per tutte le donne che sono state schiacciate, sia perché gli uomini erano gelosi, sia perché sono state schiacciate dalla Chiesa, perché non ci era permesso di scolpire, non ci era permesso perché ci dava idee sbagliate. Ed è un bene che ci dia cattive idee. Le cattive idee sono fantastiche!
F: Nel periodo del ricovero lei ha abbandonato un’iniziale inclinazione al teatro ed è diventata un’artista visiva, elaborando un trauma antico. In una delle sale più eloquenti della mostra è esposta una copia del libro Il mio segreto, scritto sotto forma di lettera a sua figlia e stampato con la sua grafia, non con caratteri tipografici. Questa scelta grafica rende ancora più intima la confessione pubblica, solo adombrata nel film Daddy, di cui firma la sceneggiatura e il cui finale è proiettato nella stessa sala: suo padre, banchiere e traditore seriale, l’ha violentata ripetutamente quando lei aveva 11 anni.
N: Questa violenza mi ha reso per sempre solidale con quanti la società e la legge escludono e schiacciano… Si è molto soli con un simile segreto. Con chi mi sarei potuta confidare? Ero una giovane donna arrabbiata, ma ci sono molti giovani uomini e donne arrabbiati che non diventano artisti. Sono diventata un’artista perché non avevo scelta, non avevo bisogno di prendere una decisione. Era il mio destino.
F: Il mio segreto inizia con un episodio della sua vita di adolescente che prelude allo stupro. Mi ha ricordato la storia dell’indovino Tiresia, che incontra dei serpenti che ne modificano inesorabilmente il percorso, trasformandolo in donna per una parte della vita, poi di nuovo in uomo.
N: Da adolescente ho rifiutato violentemente il modello dei miei genitori. Ho dovuto ricreare me stessa. Non avevo un’identità chiara. Mi sentivo metà francese, metà americana. Volevo anche essere sia un uomo sia una donna. Mi sembrava che la società concedesse infinitamente più libertà agli uomini che alle donne.
F: Ha ereditato qualcosa di buono dai suoi genitori che le è utile nella sua vita d’artista?
N: Da mia madre ho assorbito varie cose che mi piacciono molto: l’amore per i vestiti, per la moda, per i cappelli, per i travestimenti e per gli specchi. L’assoluta libertà razziale e religiosa era il credo di mio padre, e io l’ho fatto mio.
F: Le cose che ha assorbito da sua madre le hanno permesso di iniziare presto una fortunata carriera da modella nella moda, anche grazie alla sua bellezza.
N: Fare la modella mi piaceva e non mi piaceva, mi sentivo un po’ come una sguattera. Mi dicevano che i miei capelli non andavano mai bene e che non ero capace di valorizzarmi. Ciò nonostante lavoravo perché alcuni fotografi mi amavano. Era un modo semplice e veloce di guadagnare. Ma sapevo che non era qualcosa che avrei voluto continuare a lungo.
F: Eppure è riuscita a inglobare anche questa esperienza transitoria nel suo lavoro creativo.
N: Penso che i miei stivali, i miei vestiti rossi e i miei travestimenti non siano altro che accessori delle mie creazioni, che esprimono il desiderio di trasformarmi in un oggetto. Uso il mio corpo come una struttura di rete per fare scultura.
F: Le sue sculture rivelano una conoscenza diretta della storia dell’arte internazionale, favorita sicuramente dai lunghi soggiorni anche in Italia.
N: Mi vedo come una madre divoratrice che ha divorato ogni sorta di influenza a partire da Giotto, dai dipinti dei primitivi senesi, dal Doganiere Rosseau, dai templi messicani e indiani, da Bosch e Arcimboldo. Avverto un legame fortissimo con ogni cultura. Sono stata nutrita da tante cose diverse e le ho osservate e amate tutte, che fossero di arte messicana, nativa americana, italiana o orientale.
F: Nel marzo 1989 Jean Tinguely ha scritto di lei: “Mentre tutti gli scultori sono decorativi, fanno scultura per l’architettura, Niki ha integrato l’Architettura nella SUA scultura. La sua creazione del Giardino dei Tarocchi in Italia è il più grande Festival di scultura che sia mai stato realizzato nel mondo. La sua creazione è la fusione totale tra colori e forme”. È una dichiarazione d’amore professionale che ogni artista vorrebbe ricevere dalla persona con cui armonizza vita e arte.
N: Jean era il movimento, io il colore.
F: In mostra c’è un suo pannello polimaterico che ricorda i bersagli di Jasper Johns. Al centro c’è una camicia bianca da uomo. Davvero la genesi di questa iconografia è solo personale, come spiega il cartellino espositivo?
N: Ho avuto una breve storia con un noto artista dell’epoca. Non mi lasciava più. Era sposato; la sua specialità era distruggere le coppie e sedurre le mogli dei suoi amici. Un giorno mi venne l’idea di fare il suo ritratto. Comprai un bersaglio per freccette in un negozio di giocattoli e gli chiesi di darmi una delle sue camicie. Misi una cravatta sulla camicia e incollai il tutto su un pezzo di legno. Cominciai a divertirmi lanciandogli freccette sulla testa. A poco a poco iniziai a staccarmi da lui. La terapia era riuscita.
F: Attraversare il dolore per diventare un’artista è stata una buona idea per sopravvivere?
N: La mia grande passione, l’Arte, è ancora lì. Non mi ha liberato. Seguo il mistero. Credo che tutto sia iniziato quando ero bambina: i miei genitori avevano il National Geographic e vedevo quei meravigliosi posti lontani pieni di cose belle. A dire il vero, ancora oggi, quando rimango bloccata nel mezzo di qualche progetto, specialmente quelli di architettura, tiro fuori i miei numeri del National Geographic e li sfoglio finché non trovo qualcosa che mi attrae, mi stupisce, mi incanta, e allora improvvisamente capisco: “Ah, ecco la soluzione!”. Ho seguito la mia musa. Ho seguito Pan con il suo flauto in un viaggio meraviglioso.
P. S. Niki de Saint Phalle è morta il 21 maggio 2002. Le sue risposte a questa “intervista impossibile” contengono sue affermazioni in interviste e scritti presenti nelle sale della mostra e nel catalogo. Le fotografie riproducono opere e ritratti in mostra. Solo le domande sono scritte da me.
Floriana Conte – Professoressa di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e accademica dell’Arcadia