“Padre della nostra sociologoia”. “Padre e decano della sociologia italiana”. “Il sociologo pioniere”. Con questi e similari titoli la maggioranza dei quotidiani italiani ha commentato la scomparsa di Franco Ferrarotti, nato in provincia di Vercelli il 7 aprile 1926, morto a Roma il 13 novembre scorso.
Sul fatto che egli fosse in Italia il decano di questa disciplina non vi sono dubbi; tale titolo gli spettava senza ombra di dubbio dopo la scomparsa lo scorso anno di Francesco Alberoni, docente emerito di sociologia e rettore della facoltà di Trento negli anni caldi della contestazione, in un lungo percorso che l’avrebbe condotto nel 2019 a candidarsi alle elezioni europee con Fratelli d’Italia. Sul fatto che Ferrarotti sia stato il padre e il pioniere della sociologia italiana è lecito invece nutrire qualche dubbio, per almeno due motivi.
Da Michels a Pellizzi
In primo luogo, nonostante le diffidenze della cultura idealista egemone fra le due guerre, questa disciplina conobbe anche prima di questo dopoguerra i suoi riconoscimenti. Basti pensare a un Roberto Michels, allievo di Max Weber naturalizzato italiano, acuto studioso della sociologia del partito politico, sindacalista rivoluzionario passato al fascismo, nominato per chiara fama docente nella neo costituita facoltà di Scienze Politiche di Perugia.
Ma anche a un Vilfredo Pareto, sociologo di fama internazionale; per la sua critica al parlamentarismo il fascismo cercò di cooptarlo fra gli “spiriti della vigilia”, anche se prima di morire nel 1923, pur mantenendo un atteggiamento benevolo nei confronti di Mussolini, non mancò di avvertire imbarazzo per le derive autoritarie del fascismo.
Pellizzi, un singolare outsider
C’è tuttavia un altro motivo che rende poco appropriata l’attribuzione a Ferrarotti del titolo di padre della nostra sociologia: il fatto che il primo docente ordinario di questa disciplina non sia stato lui ma uno dei più singolari outsider della cultura italiana del ventennio: Camillo Pellizzi.
Fu lui per il suo status accademico a metterlo in cattedra al primo concorso a cattedra; e fu lui, che evidentemente lo stimava, al di là della diversa estrazione ideologica, a scrivere la prefazione al suo fondamentale lavoro La sociologia, storia concetti e metodi (Eri 1961).
Pellizzi fu intellettuale fascista sui generis, per certi aspetti organico, per altri molto indipendente: non a caso fu uno stretto collaboratore delle riviste di Giuseppe Bottai, come per altro dell’Italiano di Longanesi e del Selvaggio di Maccari. Dopo una giovanile adesione all’idealismo, si allontanò da Croce e dal gentilianesimo, ma non da Giovanni Gentile, con cui intrattenne un onesto rapporto personale; nonostante l’educazione anticlericale ricevuta dal padre, cattedratico di Medicina, si avvicinò dal 1925 al cattolicesimo.
Enfant prodige nell’ambito scolastico (prese la maturità a 16 anni; a 21 durante una licenza si laureò in giurisprudenza con Santi Romano), volontario della grande guerra, aderì al fascismo, di cui propose un’interpretazione di tipo elitistico come rivoluzione degli intellettuali e dei tecnici; fra i pensatori in cui scorse i precursori del movimento vi erano esponenti della cultura vociana come Giovanni Boine e Renato Serra, ma anche un personaggio come Carlo Michelstaedter, che per altro avrebbe esercitato una potente influenza anche sul giovane Julius Evola.
La rivoluzione “mancata”
Seguì con interesse il dibattito sul corporativismo, che dopo la guerra, in un saggio del 1948, avrebbe definito una “rivoluzione mancata”.
Visse a lungo in Gran Bretagna, esente dal disprezzo per la “perfida Albione” di molti intellettuali fascisti inconsapevoli del fatto che, nel suo pragmatismo giuridico, nelle sue capacità organizzative, e anche nella sua a volte cinica applicazione del divide et impera alle popolazioni soggette, il colonialismo britannico presentava molte analogie con l’imperialismo romano. Organizzò per qualche tempo i Fasci degli italiani residenti in Gran Bretagna, ma soprattutto svolse d’intesa con Mussolini un ruolo informale di ambasciatore culturale del regime sulle rive del Tamigi, ben visto nei salotti e negli ambienti accademici. Non era del resto un compito non molto difficile, in un’Inghilterra in cui Churchill non nascondeva le sue simpatie per il fascismo.
Da Ezra Pound a Don Sturzo
Strinse inoltre amicizia col poeta Ezra Pound, con cui intrattenne un epistolario accuratamente edito da Luca Gallesi (Il carteggio Pound-Pellizzi, in “Nuova Storia Contemporanea”, anno VI, numero 3, maggio-giugno 2002).
Fu docente di italianistica all’University College di Londra, cattedra che conservò sino a quando la nuova collocazione internazionale dell’Italia lo costrinse ad abbandonare l’Inghilterra cercando in patria una nuova collocazione. Questa gli fu offerta dal regime sotto una duplice forma: la presidenza dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista e soprattutto la cattedra di Storia e dottrina del fascismo prima a Messina, poi alla facoltà di Scienze politiche Cesare Alfieri dell’università di Firenze.
Anche se si rifiutò di aderire alla Repubblica sociale, da cui fu epurato, Pellizzi fu estromesso dalla cattedra anche dalla risorta democrazia. Furono per lui anni grami, in cui riuscì a mantenere la famiglia solo attraverso traduzioni dall’inglese e con articoli, spesso sotto pseudonimo, per giornali e riviste.
Nel 1949 però vinse il ricorso presso il ministero della pubblica istruzione e fu riammesso, grazie anche al sostegno di padre Gemelli e don Sturzo, ma la decisione dovette imbarazzare non poco la facoltà, che per ovvi motivi non poteva assegnargli l’insegnamento di storia e dottrina del fascismo; così gli fu assegnata la prima cattedra universitaria in una strana materia di moda in America, notoriamente snobbata da Croce e dalla filosofia idealistica: la Sociologia.
Sociologia, ma anche semiotica
Non prese il reintegro come un mero risarcimento morale e l’insegnamento come una sinecura. Oltre a mettere in cattedra la prima generazione di sociologi italiani, si distinse per un’intensa attività didattica, pubblicistica (ottenne il Premio Marzotto per il giornalismo), di fondatore e direttore della “Rivista italiana di Sociologia”, di collaborazione con grandi associazioni internazionali, nonché scientifica, a volte con uno spirito innovativo forse troppo in avanti rispetto ai tempi: tipico il caso della sua raccolta Rito e linguaggio (Armando ed. 1964), in cui coniugava la sociologia con l’etnologia e la semiotica.
Fino agli ultimi anni della sua vita, continuò l’insegnamento, a Roma, a Urbino e a Firenze, dove alla scuola di Servizio sociale annessa al “Cesare Alfieri” teneva lezioni non sempre di facile comprensione per le aspiranti assistenti sociali. E proprio a Firenze morì il 9 dicembre 1979, a 85 anni. Scompariva con lui il padre dimenticato della sociologia italiana. O magari, per chi subordina il giudizio culturale alle scelte politiche, il patrigno.
P.S. La vicenda culturale, politica, umana di Pellizzi è stata ricostruita da due saggi di alto valore scientifico: Camillo Pellizzi. La ricerca delle élites tra politica e sociologia (1896-1979), di Danilo Breschi e Gisella Longo, edito nel 2003 dalla Rubbettino, e il più recente Camillo Pellizzi. Un intellettuale nell’Europa del Novecento (Il Mulino 2021). A entrambi questi volumi l’autore di questo articolo è ampiamente debitore.
Enrico Nistri– Saggista