Stellantis, Baldassarri: disatteso lascito di Marchionne

Con gli aiuti dello Stato alla Fiat in 50 anni il contribuente italiano ha comprato l’auto FIAT quattro volte. Le case automobilistiche europee come i polli di Renzo: i disastri da affrontare con il modello dell’auto elettrica. La globalizzazione non è governata

Su quello che era una volta il Gruppo Fiat, la guida degli Agnelli, sulle nuove strategie industriali e finanziarie del Gruppo Stellantis che ha inglobato Fiat-Fca, sulla globalizzazione, la scelta dell’auto elettrica con tutti i colossali problemi che essa comporta al livello mondiale, sugli spazi stretti di manovra del governo, che ha pur sempre a che fare con una multinazionale (Stellantis) e non può correre il rischio di incappare negli aiuti di Stato, che sarebbero impediti dall’Unione Europea, sentiamo il professor Mario Baldassarri, economista, saggista, già parlamentare, capogruppo in Senato, presidente di Commissione e vice ministro dell’Economia e delle Finanze.

Professor Baldassarri, che cosa è cambiato, per quello che un tempo era il Gruppo Fiat, dai tempi di Sergio Marchionne?

Prima di tutto è cambiato il mondo, e il Gruppo Fiat è cambiato proprio con Marchionne. Egli lo cambiò trasformando la Fiat in una multinazionale acquisendo la Chrysler, negli Stati Uniti. Si trattò di una specie di selezione darwiniana della razza in versione automobilistica: c’erano industrie di medie dimensioni, e bisognava farle crescere per poter essere competitive e non soccombere sui mercati.

Quale la conseguenza di questo processo?

La conseguenza di tutto questo è che prima di Marchionne la Fiat era Torino-centrica, e dopo è diventata multicentrica. È chiaro, intendiamoci, che la Fiat non poteva continuare a fare automobili di piccole e medie dimensioni, determinante è stata la produzione di Jeep e Suv.

Altre conseguenze?

È cambiata la strategia, che da industriale è diventata strategia finanziaria. Inoltre, c’è un altro passaggio o salto: Stellantis si è squilibrata tutta verso la Francia. Marchionne quando ha scelto la via della internazionalizzazione è andato in America, non è andato in Francia.

La progettazione dei nuovi modelli è in Italia o in Francia?

La progettazione dei nuovi modelli di automobili ha un “core” di riferimento; tutte le piattaforme produttive sono dislocate in giro per il mondo. Solo la Cina le sue piattaforme se le tiene strette, in casa sua.

Quale riflessione le suggerisce, Professore, la vicenda delle 100 mila copie dell’inserto Affari eFinanza che Repubblica ha mandato al macero per presunte proteste da parte francese per un articolo che segnalava, in Stellantis, uno squilibrio a livello di potere e decisionale, a tutto vantaggio della Francia?

No comment.

Suvvia, Professore, Lei non è tipo da tirarsi indietro…

Va bene, una cosa la voglio dire. Anche l’indipendenza proclamata e conclamata di autorevoli Gruppi editoriali si scioglie come neve al sole quando il sole è forte, molto forte.

Il governo italiano sta tutelando l’italianità di quello che era il Gruppo Fiat? I posti degli stabilimenti come quello di Melfi, in Basilicata, sono a rischio?

Il governo francese protegge l’industria di Stellantis, anche con una sua presenza diretta come produttore…

Noi non ce l’abbiamo, questa presenza.

Questo l’ha detto Lei, ma sono d’accordo.

Pensa che il governo italiano debba chiedere impegni precisi, garanzie agli Elkann?

Il governo nazionale può fare poco, si tratta pur sempre di una interlocuzione tra un governo e una multinazionale, gli spazi di manovra sono stretti. Come fa il governo a chiedere garanzie a un impero multinazionale? Quali garanzie può dare Stellantis? A meno che in cambio di garanzie, Stellantis non chieda aiuti di Stato. Ma qui interverrebbe l’Europa e il discorso si bloccherebbe.

Come giudica la vicenda del nome “Milano” che Stellantis voleva dare a un’auto prodotta in Polonia, e dopo la protesta del ministro Urso il nome è stato cambiato: da Milano a Junior?  L’a.d Jean-Philippe Imparato ha liquidato la querelle con queste frasi un po’ spocchiose: non facciamo polemiche, noi pensiamo agli affari.

A dire il vero la questione del nome dell’auto non mi pare dirompente anche se può sembrare paradossale. Certo, i nomi sono importanti. Le racconterò due episodi. Quando 40 anni fa la Fiat costruì la Panda, il WWF protestò, disse che panda era il simbolo della sua organizzazione. Ma Panda era un animale, quella era un’auto, Come andò a finire? La Fiat vinse la causa. Un caso quasi analogo avvenne con il lancio di un tipo di sigarette di nome Capri. L’Isola protestò e vinse: quel nome associato a un prodotto nocivo alla salute recava danno all’immagine di Capri e dei capresi. Francamente chiamare Milano un’auto prodotta in Polonia… poi si poteva anche chiamare Krakov, una citta stupenda.

Il discorso su eventuali aiuti del governo alla ex Fiat rimanda ai rapporti pluridecennali tra la Casa automobilistica torinese e gli automobilisti italiani, in termini economici e di costume.

Alla Fiat, o come si chiama ora, andrebbe ricordato che negli ultimi 50 anni con gli aiuti di Stato che l’avvocato Agnelli sapeva così abilmente ottenere, il contribuente italiano ha comprato il valore delle azioni Fiat quattro volte, considerate le somme incassate e pagate dai contribuenti in termini di aiuti di Stato, sostegni a vario titolo, prepensionamenti, ecc.. Lo stabilimento di Melfi, in Basilicata, è stato costruito con finanziamenti dello Stato a fondo perduto.

Professore, tutti questi processi sono frutto di una globalizzazione difficilmente arrestabile o anche di un diverso livello di statura, di autorevolezza del Gruppo dirigente?

Direi tutte e due le cose. Ma mi lasci fare una premessa: tutta l’Europa, ed anche l’America, stanno facendo il gioco dei polli di Renzo. Si beccano, si combattono, ma non pensano a quale futuro si prepara nel mondo se prevarrà il modello dell’auto elettrica. L’Unione europea ha già disegnato una road map per l’auto tutta elettrica. Allora diciamo: ammesso che per un incantesimo che ci fossero già oggi nel mondo solo auto elettriche, bisognerebbe rispondere a tre domande cruciali e attrezzarsi di conseguenza.

Quali, professore?

Anzitutto: come si produce l’energia elettrica necessaria a caricare le batterie? Come si produrranno tutte le batterie di cui si avrà bisogno? Come si smaltiranno tutte le batterie? Di questo passo, tra 20-30 anni sarà necessario un piano ecologico per smaltire tutte le batterie che si saranno accumulate.

Se lo scenario è così allarmante, quasi apocalittico, c’è un’alternativa all’elettrico, Professore?

C’è il motore all’idrogeno. Ma non sembra questa la strada preferita.

Ma come mai “i signori” del mondo, che cercano, e forse si illudono, di governarlo, non affrontano questi problemi della globalizzazione?

La globalizzazione sarà forse inarrestabile ma è sicuro che non è governata. L’Occidente si illude con il G7 di governare il mondo con un terzo del PIL. Gli altri Paesi si raggruppano in altri consessi, BRICS, G20 ecc.. Ma così si rischia di avere una globalizzazione con due governi contrapposti e non si risolvono i problemi che affliggono il mondo.

 

Mario Nanni – Direttore editoriale

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