“L’estate sta finendo e un anno se ne va”, scandiva con la dovuta sgangheratezza del duo Righeira, una canzoncina-tormentone di una quarantina d’anni fa (1985), facendo, con una poetica quasi ungarettiana, sintesi di uno stato d’animo che ricorre ad ogni compimento del ciclo di agosto.
In verità questa estate non ha offerto particolari levità da imprimere in memoria, anzi: se qualcosa ha scolpito è stata l’aria pesante di un’afa infinita, un sottofondo di siparietti allestiti dai “nuovi mostri” dalle sembianze di uomini duri pronti a menare, a parole e, purtroppo, anche con altro, un’orribile scia di violenze giovanili che dovrebbero porre questioni fondamentali soprattutto alle generazioni adulte, e, l’amarissimo suggello di un treno che falcidia cinque lavoratori sui binari.
Difficile non avere voglia di saltare questo tempo, in cui persino la politica può dare il senso di quell’anormalità a cui almeno ci siamo abituati. Dunque settembre ritorna con le usate questioni e con qualche interessante stimolo al dibattito che si leva dai grandi vecchi della cultura giuridica.
Come il Sabino Cassese che sul Corriere di fine agosto si mostra, come sempre, stimolante e persino pedagogico, meritando di uscire dall’hortus conclusus degli addetti ai lavori.
Il tema è la sorgente del disagio vissuto dalla democrazia parlamentare, che fa un tutt’uno col disagio vissuto dalla forma-partito. Esito di questa combinazione letale di disagi è il tendenziale scivolamento del sistema verso le zone d’ombra in cui l’autoreferenza del leader fa premio su tutto. Il che non corrisponde precisamente al profilo della democrazia disegnato dai padri costituenti: da quel profilo, infatti, ci si allontana attraverso progressivi cedimenti verso una impropria semplificazione che mette nelle mani del leader margini di potere incompatibili con la forma di governo parlamentare divisato dalla Costituzione.
I partiti, dunque, sono ormai solo il participio passato del verbo partire, il Parlamento si rappresenta come mero “ratificatore” dell’attività legislativa prodotta dal governo -solo il 19% dei provvedimenti approvati dalla Camera ha un’origine parlamentare in questa legislatura- la rappresentanza, dopo l’amputazione del 37% dei parlamentari con quel capolavoro populistico-allucinatorio che fu la legge costituzionale del taglio, è sempre più schiacciata dal peso della maggioranza al governo, e sulla scena nazionale “il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca!”, come diceva Fusinato, autore della nota poesia risorgimentale che resta però ignoto ai più.
C’è un punto, tuttavia, che ci permettiamo di aggiungere al cahier de doléances del prof.Cassese ed è quello relativo a ciò che può essere considerato come la madre di tutte le nequizie di cui si discute: il sistema elettorale. Giusto trent’anni fa le Camere cancellarono, sulla scia del referendum elettorale, il sistema proporzionale basato sul voto di preferenza, dapprima multiplo, introducendo ciò che avrebbe dovuto rappresentare-chissà perché, poi- il rimedio a tutti i mali del sistema: il maggioritario. Il modello che il dibattito pubblico vagheggiava era quello inglese, tendente alla semplificazione con la riduzione a solo due attori: il bipartitismo.
A parte l’irrompere malevolo dei principi maggioritari nel sistema costituzionale che non lo tollerava-Cassese faceva l’esempio dello spoils system, in un contesto pubblico che prevede procedure concorsuali – si trascurò di considerare che ogni Paese è portatore di una cultura politica peculiare. Così l’Italia maggioritaria si scoprì presto refrattaria alla semplificazione, rimanendo ancorata alla prassi del molteplice.
Da allora (1993) abbiamo battuto tutti i record mondiali del cambio di sistemi elettorali (quattro dal ’93 al 2017), peggiorandoli ogni volta con la cancellazione di ogni possibilità di scelta da parte del corpo elettorale. Insomma: liste bloccate, scelte dal capo. La cosa singolare è che nell’ordinamento elettorale italiano, dai Comuni alle Regioni alla rappresentanza al Parlamento europeo, vige la regola del voto di preferenza. Arrivati al livello parlamentare no. Perché? Non si sa.
Pensiamo davvero che l’impropria cooptazione della rappresentanza parlamentare, che ruba al popolo sovrano il diritto di scelta ponendo l’eletto alla mercé del suo capo-bastone, non abbia nulla a che fare con il declino del Parlamento e con la penosa condizione in cui versano i partiti? Forse è anche alla frustrazione dell’elettore chiamato solo a ratificare le scelte del capo che bisognerà guardare per trovare qualche risposta alla diserzione delle urne. Varrebbe forse la pena di rifletterci un po’ su.
Pino Pisicchio – Professore di Diritto pubblico comparato. Già deputato in varie legislature, presidente di Commissione, Capogruppo parlamentare, sottosegretario di Stato. Scrittore