Docente di letteratura italiana del Rinascimento alla Sorbonne Université di Parigi, Frédérique Dubard de Gaillarbois si occupa da anni di Machiavelli e del fenomeno del “machiavellismo”. Di recente ha pubblicato con Alessandro Campi per Spartacus editore il libro Machiavel imaginaire, histoires d’un cliché.
Professoressa, il suo libro parla di “iconografia machiavelliana”, ci può spiegare di cosa si tratta?
“Potremmo definire lo studio dell’iconografia machiavelliana come una ramificazione di quello della ricezione di Machiavelli. L’aspetto più innovativo è quello di valorizzare la sua presenza nella cultura popolare o middlebrow, anziché indugiare su ricezioni critiche “alte”. Machiavelli è di tutti, non solo dei “machiavellisti”. Un altro elemento di originalità è quella di valorizzare e rallegrarsi della fortuna di Machiavelli, anziché disprezzarla o deplorarla. Trattasi di evidenziare la straordinarietà del caso Machiavelli, la capacità di permeare l’inconscio collettivo e varcare confini, geografici, temporali, mediatici e addirittura di genere, mostrandoci una capacità di adattamento e una sopravvivenza fuori dal comune. Pochissimi sono gli scrittori cinquecenteschi che possano vantare una simile plasticità e vitalità”.
Quali sono le ragioni per cui questi studi sulla ricezione popolare di Machiavelli si sono affermati in Francia e non in Italia?
“Credo che in Francia sia più facile prendersi delle libertà con Machiavelli. A questo proposito mi piace citare un proverbio che troviamo anche nel proemio della traduzione francese dell’Arte della guerra: “Nul n’est prophète en son pays”. Machiavelli ne è un esempio perfetto. L’Italia è stata da sempre il paese meno generoso nei suoi confronti, a causa delle sue posizioni in materia di religione. In Italia lo si studia solo come letterato, mentre in Francia è considerato un filosofo, il fondatore delle scienze politiche. Alcuni francesi – penso a Gentillet, padre dell’antimachiavellismo, o a Rousseau, capostipite della lettura repubblicana del Principe o ancora a Giuseppe Ferrari, esiliato in Francia, autore di Machiavelli giudice delle rivoluzioni del nostro tempo – hanno svolto un ruolo decisivo nella storia della ricezione di Machiavelli.
Un altro motivo potrebbe essere il predominio e il prestigio nel mondo accademico italiano dell’approccio filologico che, a mio avviso, ha ‘anestetizzato’ lo studio del Machiavelli”.
Poiché nel suo libro appare evidente che è un autore dai tanti volti, è possibile affermare che ogni paese ha voluto leggerci un messaggio diverso, piegare il suo pensiero in modo da trovarci qualcosa che gli appartenesse?
“Si tratta di una questione molto affascinante, perché in effetti (quasi) ogni paese riesce a dialogare con Machiavelli. Notevole, ad esempio, la presenza di Machiavelli in manga giapponesi e sud-coreani. Machiavelli è un classico “internazionale”; il Principe, un bestseller mondiale.
A prescindere dalla conoscenza effettiva del contenuto dei suoi testi, il fenomeno del “machiavellismo” parla a tutti perché veicola qualcosa di universale e atemporale: la questione del costo morale e umano della politica.
La mia sensazione è che la ferita aperta da Machiavelli, ovvero la necessaria dissociazione tra politica ed etica, rimanga tutt’ora un punto nodale, insuperato. Il fatto che ad un politico non si chieda di possedere realmente virtù e onestà, ma di mantenere le apparenze è qualcosa che sperimentiamo quotidianamente. Non è la sostanza né la gravità della colpa a colpire ma la cattiva gestione dell’immagine. È, se vogliamo, la ragione per cui Sangiuliano ha dovuto dimettersi e la Santanché no. Intanto Macron è stato bollato di essere un Machiavel de poche (tascabile) come se non fosse all’altezza della levatura politica personificata da Machiavelli”.
Come è nato Machiavel imaginaire, histoires d’un cliché?
“Siamo partiti con l’idea di proporre un nuovo corpus agli studi machiavelliani. Il titolo, Machiavel imaginaire, rimanda alle immagini di Machiavelli in senso proprio, ma anche alle immagini mentali, ai luoghi comuni, ai “fantasmi”. Tutto si gioca nello iato tra i termini “Machiavelli” e “machiavellico”. Ma anziché opporre questi due termini, la scommessa del libro è di collegarli: c’è un po’ di Machiavelli nel machiavellico e viceversa.
La storia iconografica di Machiavelli è, di per sé, labirintica. Possediamo tre suoi ritratti cinquecenteschi, ma uno è falso (la testina) e un altro senza autore (il ritratto gioviano). Le condizioni in cui è stato realizzato quello attribuito a Santi di Tito sono tuttora opache. Ci troviamo a lavorare, quindi, con immagini false, dubbie, incerte, ma machiavellicamente funzionali, dal momento che incarnano il mito machiavelliano e consentono di declinarlo iconograficamente e nutrire l’immaginario fantasmatico di cui parlavamo. Se facciamo l’esempio dei fotomontaggi che si trovano nella stampa o sui social, la loro costruzione richiede la conoscenza inconscia dei ritratti appena evocati. Altrimenti, come si fa a capire il significato dell’innesto della testa di Obama, Trump… sul corpo di Machiavelli?”.
Perché, secondo lei, sin dall’inizio c’è stata un’esigenza così forte di dare a Machiavelli un volto?
“Direi: ragioni editoriali. Serviva un’immagine per la copertina. Ma l’immagine si è progressivamente emancipata dal testo. Difatti c’è un’altra domanda a cui si è tentato di rispondere: in quale misura queste immagini veicolano machiavellismo, nel senso positivo e negativo della parola?”
Machiavelli crea nelle sue opere delle figure femminili molto interessanti. Accostargli un personaggio politico donna ha qualche valore particolare?
“L’accostamento di Teresa May, Angela Merkel, Ursula von der Leyen… a Machiavelli dimostra che il machiavellismo non è una questione di sesso: per essere messi a confronto con Machiavelli basta detenere il potere. Il sesso è accidentale. Un’operazione che, per certi versi, segna una parità raggiunta anche a livello di immaginario.
Peraltro, l’identificazione di questo o quel politico con Machiavelli non è più spregiativa o diffamante come lo era ai tempi di Caterina de’ Medici. Ho la sensazione che nei media e nella cultura popolare la figura di Machiavelli stia divenendo sempre più positiva: un ineludibile punto di riferimento, se non addirittura un paradigma. La demonizzazione di Machiavelli è acqua passata.
Per quanto riguarda le figure femminili nelle opere di Machiavelli, troviamo donne virili e uomini effemminati. Se è indubbio che la virilità venga connotata come positiva e il femminile come negativo, entrambi vengono dissociati dal biologico. Tra i personaggi femminili più emblematici, mi piace ricordare la “centauresca” Caterina Sforza dei Discorsi e la Lucrezia della Mandragola, figure ambigue ed indecifrabili, come il loro autore. Ma lungi dall’essere un problema, l’ambiguità è una salvaguardia contro le operazioni di semplificazione”.
È forse per questo che ha bisogno di tanti volti?
“Infatti. La pluralità dei volti rimanda alla storia plurisecolare delle letture e delle interpretazioni. Se il volto di Machiavelli è facilmente riconoscibile, la lettura di Machiavelli offre una resistenza ai riduzionismi e alle strumentalizzazioni, serbando una sua inossidabile enigmaticità. Trattasi quindi non di sacrificare il testo all’ immagine, ma di integrare le immagini allo studio della ricezione polimorfa e intermediale di Machiavelli”.