Non siamo un Paese per donne

Sconfortanti dati dal Rapporto del Global gender gap index

Non siamo un Paese per donne, e nemmeno per minoranze. E le cronache sono lo specchio, purtroppo non deformante, di questa ben coltivata forma di ignoranza dai connotati tribali.

Siamo il Paese dove, ad esempio, un senatore leghista (che, giusto contrappasso, non nominiamo) propone di punire per attentato alla purezza della lingua chi volge al femminile nomi di professioni, da lui supposte maschili solo perché storicamente più esercitate dagli uomini; dove i movimenti Pro Vita vengono autorizzati a entrare nei consultori e offrono mance alle ragazze perché non abortiscano; dove i giovani della destra militante seppelliscono sotto un tripudio di mani tese, omofobia e bastonate a chi dissente, come il collega de La Stampa Andrea Joly, la pretesa della premier ‘underdog, donna, madre e Giorgia’ di presentarsi come la nuova Giovanna D’Arco di un’Italia di destra al femminile.

Insomma, anche lasciando da parte l’assurdo rintocco dei femminicidi, che nelle complesse statistiche sul tema, se degne di fede, ci vedrebbe, nonostante tutto, tra gli ultimi in Europa, non possiamo davvero stupire di ritrovarci al 79° posto su 146 nazioni, con un punteggio del 70,3% nella classifica per la parità femminile.

Non è una perfida calunnia dell’informazione di sinistra, come battendo il pugno sul tavolo usa lamentarsi in questi casi, anche nelle sedi meno adatte, la sempre più infastidita presidente Meloni. Certo, non si può addossare tutta la colpa al governo, che comunque – in questo, almeno, rappresentativo – denunciando complotti e congiure mette in scena a meraviglia un discutibile copione del vittimismo nazionale: che in Italia persistano notevoli disparità tra uomini e donne in termini di occupazione, retribuzione e presenza nei ruoli di leadership, è la pura verità.

I dati del Global Gender Gap Index

I numeri della questione li dà lucidamente il Global Gender Gap Index del Forum Economico Mondiale. Valutando la parità di genere a partire da un punteggio del 100 %, l’osservatorio rileva la maggior disparità nella nostra rappresentanza politica, col 24,3% – quindi con gli uomini tre volte più numerosi delle donne – e poi nei ruoli economici, col 60,8%. Per fortuna, però, la società reale non fa politica con le parole, ma con i fatti.

La diversità di genere è tema cruciale nel mondo del lavoro, strettamente legato alla parità dei diritti e alla capacità di valorizzare le competenze senza discriminazioni. E dal momento che la disparità causa forti ritardi competitivi, perché sottrae importanti risorse umane (qui facciamo appello ai linguisti perché ‘neutralizzino’ la  nomenclatura scientifica che ci registra ancora come genere ‘homo’), molte aziende stanno, motu proprio, correndo ai ripari.

Il percorso di massima è già tracciato. Si tratta di seguire la Strategia nazionale per la Parità di Genere, messa a punto dal governo Draghi per il quinquennio 2021-2026. Il primo passo è adottare provvedimenti idonei a misurare e a certificare il livello raggiunto. L’obiettivo, sottinteso, ma altrettanto concreto, è migliorare la pessima posizione dell’Italia, al 14° posto anche nell’indice dell’Eige, l’Istituto Europeo per l’Eguaglianza di Genere.

Che non sia facile inseguire su questo terreno culture con tradizioni e attitudini più aperte della nostra non è, ovviamente, tanto facile. Oltretutto, i trabocchetti e le false scorciatoie per poter vantare presunte eccellenze sono numerosi: proprio come è accaduto con il mercato dell’adeguamento ambientale, anche quello della disparità di genere si sta affollando di presunti diplomi.

Il merito di aver aperto con piglio pragmatico questa porta dai cardini arrugginiti è della Lexis, una società di consulenza milanese, che poche settimane fa ha organizzato il “Gender Challenge, inquadrando e mettendo a confronto numerosi temi legati alla diversità di genere e all’inclusività nel lavoro.La sfida è stata raccolta da una cinquantina di aziende, e se è superfluo parlare di successo, è meno banale rilevare che i tempi erano maturi: dal dibattito è risultato, con drammatica evidenza di esperienze personali, che le persone appartenenti a minoranze etniche, religiose, di genere, sessuali, e con disabilità, affrontano ancora troppe barriere non meno dure di quelle materiali nel mondo del lavoro italiano.

Dall’evento, in particolare, è emerso che le iniziative di diversità & inclusione (D&I), che mirano a correggere queste ingiustizie, anche se gestite in buona fede, ma con poca attenzione, possono risultare superficiali.

Ad esempio – chiediamo scusa se abusiamo dell’inglese, ma come detto, ‘made in England’ è la materia e tale resta il dizionario tecnico che l’accompagna – sono stati citati fenomeni come il ‘pink washing o il ‘rainbow washing’, che descrivono la promozione, da parte delle aziende, di cause femministe o LGBTQ+ per migliorare la propria immagine pubblica, ma senza un reale impegno verso l’inclusione.

Affine a quelli, il tokenismo: assumere, cioè, o promuovere, individui appartenenti a minoranze, solo per poter vantare il rispetto dei criteri di equità. Dall’altro lato, si è discusso il rischio che le politiche di inclusione, se mal concepite o applicate, generino una reversed discrimination, cioè portino a situazioni in cui i membri della maggioranza percepiscano di essere svantaggiati, poiché non portatori di specificità. E’ quel che si verifica, ad esempio, quando le politiche di assunzione, o di carriera, sono percepite come favorevoli solo alle minoranze, oppure quando i ‘criteri di quota’ trascurano le competenze individuali in favore della rappresentanza numerica.

Per evitare questi rischi e trovare un equilibrio nelle iniziative di D&I, i protagonisti del Challenge e gli esperti della Lexis in funzione maieutica, secondo una tecnica di partecipazione per gruppi e dal bassoben collaudata nei paesi anglosassoni, hanno individuato sei pilastri della certificazione di genere, gli stessi che hanno guidato la discussione e le riflessioni della giornata. Questa sequenza offre uno strumento utile alle imprese per analoghi processi di revisione interna orientati a mitigare le disparità.

I pilastri

Il primo pilastro agisce su due livelli: la cultura aziendale, che deve avviare attività formative con esponenti delle diverse minoranze per favorire una sensibilizzazione culturale, e adottare una politica di tolleranza zero per ogni mancanza di rispetto; l’altro livello guarda alle strategie operative, assicurando una rappresentanza equilibrata di uomini e donne in eventi e convegni.

Il secondo pilastro è la governance dell’impresa, cui compete realizzare un ambiente di lavoro equo, attraverso politiche che tengano conto della diversità nei processi di assunzione e promozione, rispettino le quote di rappresentanza per ogni livello dell’organigramma aziendale, e garantiscano la presenza delle minoranze di genere, di etnia e di cultura negli organi decisionali. Un partecipante ha dichiarato “Quando nei CDA ci saranno anche donne incompetenti, avremo raggiunto la vera parità”. Può sembrare un paradosso ‘woke’, ma non lo è: è solo la banale normalità della rappresentanza sociale e dei suoi valori. Non meno importante, restando alla governance, è creare leadership in grado di esaltare qualità come l’empatia e la collaborazione che permettono alle donne in posizioni di potere di non conformarsi per forza ai modelli maschili.

Il terzo pilastro si rivolge alle risorse umane, e raccomanda la coerenza con le politiche inclusive anche verso quelle condizioni ‘meno favorevoli’ che si manifestano nel ciclo di vita di una persona all’interno di un’azienda. Uno degli strumenti naturalmente più utili in questo senso è il Reverse Monitoring: incontri programmati, nei quali i dipendenti giovani possano condividere competenze e conoscenze con i colleghi più anziani. L’altro strumento di inclusione partecipativa in mano alle risorse umane è una corretta cultura del merito: come hanno ribadito diversi partecipanti al challenge, “è importante rimuovere informazioni personali dai CV durante il processo di selezione e stabilire il principio che le decisioni di carriera e i riconoscimenti devono basarsi solo sulle performance e sui traguardi raggiunti”.

Veniamo al pilastro numero quattro, l’opportunità di crescita e inclusione delle donne. L’affermazione: “Finché non cambia la cultura, l’azienda può fare poco” è una verità, ma a volte è anche un alibi. L’azienda può diventare un agente attivo: se definisce chiaramente le traiettorie di sviluppo, permettendo alle donne di visualizzare il loro percorso professionale, di tener conto dell’impatto di eventuali periodi di genitorialità e, in generale, di trovare un ambiente che incoraggi la fiducia in sé stesse; se ripensa il modello lavorativo tradizionale maschile, fatto spesso di trasferte e di riunioni prolungate, che può risultare pesante per le donne con responsabilità familiari; se lo riorganizza, bilanciando il rapporto tra vita e lavoro, ad esempio, con lo smart working e una maggiore flessibilità; se, infine, collabora con le istituzioni educative per sensibilizzare le nuove generazioni a un’educazione inclusiva. Al quinto pilastro della discussione su come condurre un’azienda verso l’effettiva parità dei dipendenti, troviamo l’equità remunerativa per generi, che vuol dire, in sostanza, promuovere la trasparenza nelle revisioni salariali econtrastare tanto i pregiudizi legati al “malus” della maternità, quanto, ma è solo l’altra faccia della medaglia, la richiesta femminile di contratti part-time, o meno remunerati. Sesto e ultimo pilastro, la tutela della genitorialità e la conciliazione tra vita e lavoro.

Tra le principali proposte di questo capitolo, semplificare la burocrazia e, di nuovo, aumentare la flessibilità  con orari su misura, smart working e lavoro per obiettivi. Poi, offrire incentivi fiscali e servizi come il nido aziendale, le ‘tate’ a domicilio, i campus estivi. Infine, s’è parlato della necessità di coinvolgere a pieno titolo i padri nei congedi parentali: guardando in maniera corretta e inclusiva alla famiglia e alla natalità, anche loro hanno bisogno di essere sostenuti, per poter sostenere e avvicendare le compagne, o i compagni, tra le sempre più sottili mura domestiche.

Maurizio MenicucciGiornalista, autore di reportage, documentari

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