Il sogno di Sion e i suoi nemici storici

Il nuovo libro di Carlo Giacobbe Tra instant book e libro di analisi storica, un lucido e dolente affresco sulle ragioni presenti e antiche di un conflitto che non passa. La problematicità e complessità di certi concetti, come il sionismo, e la distinzione tra palestinesi –popolo e chi non riesce a governarli o li usa praticando il terrorismo.

Carlo Giacobbe, durante il suo girovagare professionale per il mondo come corrispondente della massima agenzia italiana, l’ANSA, ha vissuto alcuni anni anche in Israele, poi ci è tornato per brevi soggiorni, nel ricordo di un viaggio fatto da ragazzo, che gli aveva suscitato una sorta di innamoramento a prima vista di quella terra e di quel popolo.

Sul mondo ebraico e, per converso, su quello palestinese e arabo in generale, ha maturato quindi, oltre a una solida e sofferta esperienza, anche una preparazione storica e politica.  Sono queste e altre, che spiegheremo, ottime ragioni per leggere con interesse il suo nuovo libro Il sogno di Sion – 297 pagine, Eurolink University Press, prefazione di Sergio Della Pergola – che segue nella scia di un altro volume scritto alcuni anni fa: Il sionista gentile ( nel senso di gentile: non ebreo).

Con onestà intellettuale, Giacobbe dichiara senza infingimenti da che parte sta: dalla parte di Israele e degli ebrei, tanto da dichiararsi pronto, “se l’età non fosse più d’impaccio che d’aiuto”, a correre per difendere in armi quel Paese, qualora le circostanze lo richiedessero. Come avvenne nel 1948, quando circa quattromila volontari provenienti da molti Paesi, sia di religione ebraica sia goym (“gentili”), andarono a combattere in difesa di Israele, messo sotto attacco  dalla coalizione di Stati arabi nel primo giorno della sua indipendenza. E poi seguirono altre guerre.

Giacobbe distingue nettamente tra il popolo ebraico e chi attualmente lo governa. Mentre al popolo israeliano va tutta la simpatia, la sua partecipazione umana, il sostegno ideale e morale, non altrettanto va all’attuale premier Benjamin Netanyahu, detto Bibi, al quale l’autore riserva giudizi taglienti e feroci, ed è pronto a scommettere sulla sua imminente fine politica. Avendo comunque cura di avvertire, a ulteriore scanso di equivoci, che “a nessuno venga in mente la tentazione, futile e controproducente, di tacciare per antisemita, anti israeliano e antisionista chi non sposa toto corde la politica del governo in carica”.

Una forte attenzione umana viene riservata anche al popolo palestinese. (Parlando del progrom del 7 ottobre) Pagine con accenti quasi elegiaci scritte, perfino con sofferenza fisica,  soprattutto sulle vittime innocenti, in particolare le donne violentate e squartate e i bambini massacrati, sulla popolazione di Gaza, di volta in volta definita una “pentola a pressione”, un gigantesco poligono di tiro,  uno scatolone sabbioso di 365 kilometri quadrati, dove da quasi 20 anni vengono ammassati più di due milioni di palestinesi, “che non hanno potuto, saputo, voluto liberarsi dall’irreggimentazione imposta loro dal regime islamico”.

Esprimiano sommessamente qualche dubbio: mentre appare più verosimile quel “saputo”, lo è forse meno quel “potuto” o, peggio, quel “voluto”.

Qui sospettiamo che l’autore, a cui la passione e la predilezione verso Israele e la sua causa di solito non annebbiano né diminuiscono la lucidità d’analisi della situazione complessiva, si sia fatto per così dire prendere la mano da uno certo schematismo interpretativo. Questa in fondo è l’unica critica che sento di muovergli. Lo schematismo si percepisce anche in qualche affermazione, a dir la verità, troppo netta e non verificabile: per esempio, che a Gaza non c’è stato nessuno, neanche di quelli non appartenenti ad Hamas, che abbia espresso dolore per le vittime del 7 ottobre.

Ci riesce difficile credere, se non altro per ragioni …statistiche. A meno che, come può anche essere, l’autore non abbia voluto dare a quella frase una curvatura paradossale. O, anche, ci spieghiamo questa apoditticità quando avviene il passaggio dal punto di vista umano a quello più specificamente politico; e in tal caso non sempre è percepita come netta la distinzione,  che l’autore pure fa, tra il popolo palestinese e l’infame gruppo di potere che lo domina e lo rovina: cioè Hamas e i suoi accoliti, mentre l’Autorità legale, riconosciuta a livello internazionale, mostra tutta la sua impotenza.

Di più: uno dei motivi ricorrenti del discorso “politico” di Giacobbe è che se finora non ci sono costituiti due Stati, come tanti tentativi diplomatici internazionali (dagli accordi di Camp David a quelli di Oslo) avevano propiziato, la colpa è solo dei palestinesi. Se i palestinesi avessero fatto questo o avessero fatto quello. E a questo scopo cita una frase di Abba Eban, politico laburista israeliano, riferita agli arabi: “Non hanno mai perso l’occasione di perdere una occasione”.

Ispirato a questa frase, Giacobbe non si lascia sfuggire lui l’occasione di dare ai dirigenti politici dei palestinesi, da Arafat in giù, la responsabilità di non aver mai compiutamente voluto attuare il progetto di uno Stato palestinese vero e operante, in uno spirito di pacifica convivenza con lo Stato d’Israele. E forti strali rivolge all’Iran che vuole far scomparire Israele dalla carta geografica e usa gli arabi come utili idioti. Ma in tutti questi ragionamenti, che hanno totale fondamento, non è abbastanza sottolineato che i palestinesi, intesi come popolo, sono vittime di governanti incapaci, o, peggio, di terroristi che tengono in ostaggio un intero popolo.

Sfumature interpretative, forse. Ma non mi sento di sottacerle, tantopiù che è lo stesso autore a preoccuparsi di possibili mistificazioni sul concetto di sionismo: un concetto, una corrente di pensiero, lui stesso lo ammette, complesso, esposto a molte interpretazioni, che vanno dall’accettazione fideistica e piena alla ripulsa totale e al suo scivolamento effettuale e reattivo nell’ antisemitismo. Il sionismo è uno, dice Giacobbe, ma può avere volti differenti.

A questo punto ci permettiamo una annotazione, rivolta alle “anime belle”, tra cui non mettiamo certo l’autore di questo libro, che recitano con sterile stucchevolezza la litania “due popoli due Stati”. Una formula e niente più che una formula se non si creano i presupposti. Uno di questi sarebbe un forte sostegno internazionale, di tipo politico e finanziario, alla legittima Autorità palestinese. C’è una diffusa ipocrisia dell’occidente e in primis degli Stati Uniti che preferiscono tenersi stretto il rapporto politico con Israele cui non lesinano sostegni economici. La lobby ebraica in America è molto compatta e sposta milioni di voti alle elezioni presidenziali americane; per i palestinesi non c’è una analoga forza di sostegno. Di qui la miopia americana, occidentale, che consiste nel voler prendere atto che appoggiare concretamente ( sul piano economico e militare) l’autorità palestinese legalmente riconosciuta l’aiuterebbe a costruire uno Stato palestinese vero e a instaurare un rapporto politico tra i fatidici “due Stati”. Invece, nella situazione attuale, tutto è sbilanciato e la effettiva debolezza dell’ANP lascia di fatto campo libero ai mestatori e ai terroristi di Hamas, foraggiati dall’Iran con denaro e armi.

A onore dell’autore va la seguente “dichiarazione di intenti” antimanichea, che lo mette al riparo, se ce ne fosse ancora bisogno, da accuse di eccessiva partigianeria filo israeliana. Vediamo questo significativo passaggio: “a me non riesce di banalizzare il conflitto in modo così manicheo: da una parte gli ebrei, ‘inrinsecamente’ buoni, dall’altra gli arabi e islamici, ‘sostanzialemnte’ cattivi; o, ancora peggio, i sionisti ‘feroci e spietati’ e i poveri palestinesi ‘eterne vittime’ “.

“La realtà che sta dietro la guerra tra Israele e i palestinesi di Hamas e del Jihad islamico – sottolinea ancora Giacobbe- è molto più complessa e contraddittoria di quanto, ad esempio, non vogliano far credere i manifestanti che, armati di convinzioni e apodittiche scorciatoie socio-culturali, vestono una kefiah d’ordinanza e marciano compatti, arrivando persino a scandire ‘Allah- u-abkar’ in totale solidarietà non solo con i palestinesi ma anche direttamente con Hamas. È tutto maledettamente più complicato anche di quanto dichiara certa stampa ’di destra’ e che arriva a proclamare una acritica comprensione, quando non addirittura le lodi, verso Netanyahu.

“Sono schierato con Israele e, non ebreo, ne difendo senza il minimo tentennamento l’ideale sionista che 75 anni fa lo ha fatto nascere. Ma si deve comprendere che cosa si intende per sionismo, visto che parimenti difendo il diritto dei palestinesi ad avere un loro Stato autonomo e indipenedente”.

Si può sottoscrivere ogni parola di questa dichiarazione di principio dell’autore aggiungendo due avvertenze:                                                                                                                                                                                              che se il sionismo nella sua anima originaria è l’ideale di costruire un proprio Stato che raccolga gli ebrei sparsi nel mondo della diaspora, come è poi è in parte avvenuto con la costituzione dello Stato di Israele nel 1948, nulla quaestio; ma se il sionismo prende la faccia integralista e assolutista come può accadere alla fine a tutti gli ismi, allora chi critica alcuni aspetti del sionismo non dovrebbe essere liquidato come anti antisemita o essere tacciato di nemico di Israele e dell suo diritto a esistere.

Per converso, si può essere sionisti e criticare la politica israeliana senza essere arruolato nelle file degli antisemiti. Ma su questo punto è lo stesso autore che ci rassicura, perché egli, sionista gentile, muove aspre critiche a Netanyahu, non solo per quanto sta accadendo in tempo di guerra ma anche, se non soprattutto, per quanto stava facendo in tempo di pace: guidando il governo più a destra della storia di Israele, e picconando con le sue riforme addirittura l’essenza istituzionale di Israele come Stato di diritto. Su Netanyahu peraltro incombe, quando uscirà di scena, un possibile processo: gli si potrebbe chiedere conto di non aver dato ascolto ad alcune informazioni di fonte statunitense secondo cui i servizi segreti israeliani erano al corrente di un possibile attacco di Hamas; egli probabilmente non le ritenne verosimili.

*****

Il libro di Giacobbe ha sostanzialmente due piani: uno storico-narrativo, e uno più propriamente di analisi politica degli avvenimenti in corso.

Al primo livello corrispondono i molto interessanti medaglioni, o rapidi profili, che egli dedica ai più eminenti personaggi della storia israeliana; cominciando ovviamente da Theodor Herzl, l’ispiratore-fondatore dell’idea sionista, che invano chiese ai banchieri Rothschild i finanziamenti per costruire lo Stato d’Israele; e poi il padre dello Stato israeliano Ben Gurion. E la premier Golda Meir, di cui fa un gustoso e anche pruriginoso ritratto; Yitzhak Rabin, a cui vanno le preferenze dell’autore (“il premier con la visione più lucida” ). Parco, invece, verso un altro premier importante della storia di Israele, il laburista Shimon Peres.

Infine, di particolare interesse le tre appendici che concludono il libro.

La prima , breve, riporta dal Corano alcuni precetti che esemplificano la natura conflittuale dei
rapporti con i non musulmani. Sono citate, numerate, alcune sure e i relativi versetti.
Tra questi: uccidi gli infedeli ovunque essi siano.
I musulmani non dovranno avere gli infedeli come amici.
E’ inaccettabile qualsiasi religione all’infuori dell’Islam.
Ebrei e cristiani sono pervertiti e vanno combattuti.
Non bramare la pace con gli infedeli: taglia la testa a quanti di loro puoi.

La seconda appendice riporta l’arringa per la mia terra di Herbert Pagani, un testo di 50 anni fa che l’autore dichiara di riportare “per la freschezza e la profondità della verità”.

Herbert Pagani, cantautore, era un ebreo tripolino nato nel 1944 e morto nel 1988 negli Usa, dove era andato per sottoporsi a una cura rivelatasi inefficace.

Citiamo, tra gli altri, questo significativo passo del testo di Pagani: “Di passaggio a Fiumicino sento dei turisti dire, sfogliando un giornale: “Fra guerre e attentati non si parla che di ebrei, che scocciatori”.  È vero, siamo dei rompiscatole, sono secoli che rompiamo le balle all’universo. Ha cominciato Abramo col suo Dio unico, poi Mosè con le Tavole della Legge, poi Gesù con l’altra guancia sempre pronta per la seconda sberla, poi Freud, Marx, Einstein, tutti esseri imbarazzanti, rivoluzionari, nemici dell’ordine, Perché? Perché l’ordine, quale che fosse il secolo, non poteva soddisfarli, visto che era un ordine dal quale erano regolarmente esclusi.  …  Rimettere in discussione, cambiare il mondo per cambiare il proprio destino, tale è stato il destino dei miei antenati; per questo sono sempre stati odiati da tutti i paladini dell’ordine prestabilito”.

Ma nel libro di Giacobbe si incontra anche ” l’ebreo che odia se stesso”. Una figura abbastanza ricorrente, e ve ne sono esempi sia in Israele sia nella diaspora. Si va dall’ebreo americano iscritto al partito neonazista Usa, suicidatosi quando viene a sapere la sua origine, sino agli ultraortodossi del movimento Neturei Karta, i “guardiani della città”, che pur vivendoci osteggiano fieramente lo Stato di Israele e che ogni anno fanno viaggi d’istruzione in Iran, dove naturalmente vengono accolti a braccia aperte.

Ce n’è anche per Moni Ovadia: “io non credo che Salomone Ovadia, attore e cantante di origine bulgara e lingua yiddish ma naturalizzato italiano, sia paragonabile agli esempi citati; so però che non tralascia occasione per ricordare il suo antisionismo’’: Dopo il 7 ottobre, in un dibattito televisivo, “Ovadia ha dichiarato di avere dubbi sia sul numero delle vittime israeliane sia sulle modalità dei massacri”.

La terza appendice, di estrema utilità conoscitiva, riguarda il Glossario, una miscellanea etno – politico- religiosa di ebraismo e islam, con l’illustrazione di singole voci del lessico e delle rispettive tradizioni. Da Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese, a Yshuv, la comunità ebraica in Palestina dalla fine del secolo XIX alla fondazione di Israele nel 1948

 

Mario Nanni – Direttore editoriale

 

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