Come la Corte Costituzionale ha via via aperto porte e finestre. Ce lo raccontano Giuliano Amato e Donatella Stasio in un libro scritto a quattro mani

“Queste pagine ripercorrono gli anni della trasformazione della Corte, entrano nelle stanze dov’è maturato il cambiamento e accompagnano il lettore, come in un viaggio, lungo la strada in cui si è srotolato. Ne spiegano il significato politico. Sono cronaca, testimonianza, memoria, analisi di un’esperienza fondativa proiettata nel futuro. Raccontano un pezzo di storia del nostro paese attraverso le storie delle donne e degli uomini che, dentro e fuori il Palazzo, sono stati protagonisti, testimoni, artefici del cambiamento. Tra loro ci siamo anche noi, un costituzionalista e una giornalista, autori di questo libro che nasce da quell’esperienza comune alla Corte, l’uno come giudice e poi presidente, e l’altra come responsabile della comunicazione. Il libro è anche una sorta di racconto autobiografico perché – seppure in ruoli, con responsabilità e punti di osservazione diversi – ciascuno di noi due è stato per molti aspetti anche motore del cambiamento di quegli anni, dai quali affiorano ricordi, sentimenti ed emozioni”.

Storie di diritti e di democrazia, La Corte costituzionale nella società”, 288 pagine, Feltrinelli Editore, è l’ultimo saggio scritto a quattro mani da Giuliano Amato e Donatella Stasio.

Il libro è stato presentato alla stampa nella sala di rappresentanza del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti Italiani a Roma, testimoni insieme al Presidente dell’Ordine Carlo Bartoli, Luigi Contu, Direttore dell’ANSA, Marta Cartabia, già presidente della Corte Costituzionale e Ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, Ministro di grazia e giustizia del governo Prodi I e presidente della Corte costituzionale dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009, e lo stesso ex presidente della Camera Pierferdinando Casini. “Un parterre che ci onora”- esordisce il presidente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti Italiani Carlo Bartoli, e che ha aperto il dibattito.

 

 

Ad aprire la serata è stata la stessa Donatella Stasio con una relazione che ha dato della Corte Costituzionale un’immagine austera e solenne, per quello che la Corte rappresenta in realtà in Italia, ma insieme anche moderna, per quello che la Corte è diventata oggi nel confronto con il resto del Paese. E tutto questo, le va riconosciuto, grazie anche al lavoro meticoloso e attentissimo di Donatella Stasio all’interno della Consulta.

 

 

Dopo anni di silenzio e anche di riserbo istituzionale, a un certo punto della sua storia, la Corte Costituzionale italiana decide di cambiare passo e di “viaggiare” – tra i giovani, nelle carceri, nelle piazze – per farsi conoscere. E conoscere. Decide di essere il corpo e soprattutto la viva voce della Costituzione per contribuire a formare una vera “mentalità costituzionale” e una piena coscienza dei diritti.

 

 

“Questo libro – spiegano gli autori- racconta i cinque anni in cui quel cambiamento ha preso corpo, le difficoltà, le sfide, i traguardi, le donne e gli uomini che ne sono stati protagonisti, le loro emozioni, le decisioni più delicate. È un pezzo di storia del nostro paese, che i coautori hanno attraversato insieme dentro la Corte, in ruoli e con responsabilità diversi. In quei cinque anni emerge con chiarezza il “dovere” di creare un legame di fiducia con i cittadini, essenziale per la tenuta di una democrazia costituzionale. Questo è il senso politico della comunicazione istituzionale, che non conosce zone franche. La polis, la cittadinanza, ha il diritto di conoscere e di capire, e chi amministra giustizia in nome del popolo non può sottrarsi alla responsabilità di spiegare e farsi capire. Che non è una prerogativa esclusiva di chi fa politica né un compito da delegare a terzi, né un mezzo per guadagnare consensi. È un dovere di ogni potere dello Stato”.

L’autrice, Donatella Stasio, laureata in giurisprudenza, giornalista, attualmente editorialista de La Stampa, è stata Responsabile della comunicazione della Corte costituzionale dal 2017 al 2022, con sei presidenti, dopo aver lavorato per 33 anni al Sole 24 Ore come cronista di politica giudiziaria e istituzionale. Ha curato per 15 anni una rubrica sulla rivista giuridica Cassazione penale (Giuffrè). Insieme a Lucia Castellano ha scritto Diritti e castighi, storie di umanità cancellata in carcere (Il Saggiatore, 2009). Con Giuliano Amato è ora coautrice di “Storie di diritti e di democrazia – la Corte costituzionale nella società”

 

 

Un racconto a tratti avvincente, a tratti felpato, ma che Donatella Stasio fa in punta di penna consapevole forse della estrema delicatezza del tema.

“Tra il 2017 e il 2022, nel palazzo della Consulta avviene un cambiamento. In quei cinque anni, infatti, il rapporto della Corte con la società civile si trasforma profondamente. Non è “una rivoluzione”, come dice qualcuno, visto che la Corte non si è mai limitata a “parlare soltanto con le sentenze”; ma è un cambiamento storico perché, a differenza del passato, in quel palazzo matura la consapevolezza di un “dovere” dell’istituzione di comunicare con i cittadini, che hanno il diritto di conoscere la Corte, di capire che cosa ha deciso, e perché, di interloquire con i giudici in una relazione di scambio di saperi e di esperienze. Diritto del cittadino, dovere dell’istituzione”.

Dal novembre del 2017 a ottobre del 2022, è stata lei nei fatti la donna-immagine della Corte Costituzionale, la responsabile dell’Ufficio Stampa, la vera portavoce istituzionale del Palazzo, un ruolo di estrema delicatezza e complessità istituzionale, ma che lei ha svolto con assoluto dinamismo, con grande nonchalance professionale, e con una competenza e un rigore davvero unici nel loro genere.

 

 

“In quei cinque anni, e con ben sei presidenti, la nostra Corte costituzionale apre, come non aveva mai fatto prima, porte e finestre del settecentesco palazzo che la ospita e mette in circolo la sua esperienza di giudice per costruire un linguaggio comune e una mentalità costituzionale. Per contribuire a radicare i diritti nella coscienza sociale, passaggio indispensabile per una cittadinanza attiva. Ma anche per arginare l’analfabetismo costituzionale che, in Europa e nel mondo, sta mettendo a rischio lo stato di diritto, facendo scivolare democrazie vecchie e nuove verso le autocrazie”.

Non è un caso che sia invece unanime il riconoscimento che il giorno in cui Donatella Stasio lascia la Corte le viene formalmente dal Palazzo della Consulta. “L’intero collegio della Corte esprime vivo apprezzamento per l’impulso innovativo impresso alla comunicazione della Corte e per la grande professionalità dimostrata in questi anni”.

In effetti, Donatella Stasio è la donna che nei fatti ha “svecchiato” la Consulta, raccontandola per come andava raccontata, ma soprattutto aprendo le porte della Corte Costituzionale al mondo esterno, cosa assolutamente inimmaginabile in anni passati. Naturalmente questo processo di modernizzazione anche sul piano politico ha comportato spesso e volentieri dei malintesi e infiniti dibattiti.

 

 

Provocatoria la chiave di lettura che a questo proposito ci da l’ex Presidente della Camera Pierferdinando Casini: “Qualcuno- dice Casini- anche in Europa, ipotizza la ‘democrazia dell’uomo forte’ dove soggetti come le Corti Costituzionali sono fuori posto. Serve quindi una grande mobilitazione per spiegare che la democrazia è un insieme di pesi e contrappesi che devono stare insieme. É vero, a volte sembra che, in Italia, la Corte eserciti un ruolo di supplenza rispetto al legislatore, ma questo accade perché sta venendo meno la funzione del Parlamento che rischia di diventare un semplice passacarte.”

-Donatella Stasio, partiamo dal libro. Qual è secondo lei l’aspetto che, come giornalisti, va messo subito a fuoco?

Nel nostro libro ci sono molti passaggi, anche critici, che riguardano la narrazione mediatica sulla Corte costituzionale, aspetto essenziale di quella alfabetizzazione costituzionale che è necessaria per arginare le regressioni democratiche dilaganti nel mondo da qualche decennio, e quindi per difendere le nostre libertà, ma che è quasi sempre snobbata, banalizzata, sottovalutata da noi giornalisti a beneficio – devo dirlo con franchezza – di narrazioni strumentali, che spesso non solo ignorano i fatti ma i fatti li manipolano anche per l’incapacità di comprenderli e di interpretarli correttamente.

-È una analisi piuttosto pesante, non crede?

È un’autocritica doverosa, alla quale come giornalisti non possiamo sottrarci. Corti Costituzionali e giornalisti condividano il destino di essere “cani da guardia della democrazia” e perciò non sono tollerabili né catene né museruole. Ma condividono anche la speciale responsabilità di chi, pur in ambiti e con strumenti diversi, esercita un potere molto penetrante nella vita delle persone e delle istituzioni. Entrambi poi hanno bisogno di costruire un forte legame di fiducia con i cittadini, attraverso gli strumenti della professionalità, della trasparenza, della responsabilità, perché è la fiducia, non il consenso e neppure il mercato, che legittima l’azione di entrambi.

 

 

-Il vostro libro, tra il racconto e il saggio, vuole essere un inno alla democrazia e al pluralismo, mi pare di capire?

Certamente questo libro parla di democrazia, e lo fa raccontando un pezzo della storia istituzionale del nostro paese, i cinque anni che vanno dal 2017 al 2022 e che abbiamo attraversato insieme il presidente Amato ed io, naturalmente in ruoli e con responsabilità diverse. “Una doverosa testimonianza” l’abbiamo definita. In quegli anni, infatti, avviene un cambiamento importante, perché per la prima volta la Corte – che pure aveva alle spalle una tradizione di apertura alla società – acquisisce la consapevolezza del “dovere” di comunicare, di parlare “con” la società e non “alla” società.

 

 

-Donatella, per certi versi anche un saggio storico?

Diciamo che il libro racconta anche il senso politico di questo cambiamento, che si può riassumere in quattro parole: farsi conoscere, conoscere, accountability, alfabetizzazione costituzionale.

-Partiamo dall’inizio, “farsi conoscere”, cosa intende dire con questo?

La Corte costituzionale è l’organo di garanzia più alto della Repubblica, giudica le leggi senza appello, ha un potere penetrante nella vita politica, sociale, istituzionale del paese; con le sue decisioni ha spesso cambiato la storia dell’Italia e di ognuno di noi (pensiamo all’adulterio, all’aborto, al doppio cognome, all’identità di genere o alle decisioni sul fine vita, l’ergastolo ostativo, i figli delle coppie arcobaleno, le leggi elettorali). È lo scudo a difesa del pluralismo e delle minoranze, la garante suprema dei nostri diritti… insomma, ha un potere smisurato. Eppure, a differenza di altri Paesi in cui le Corti costituzionali sono conosciute e percepite come la coscienza del popolo, da noi la Corte è una semi-sconosciuta, un “altrove” di cui disinteressarsi o occuparsi occasionalmente. Questo è un punto centrale perché interroga anzitutto noi giornalisti e cittadini di una democrazia costituzionale, fondata su un sistema di pesi e di contrappesi a tutela del pluralismo e dei diritti di tutti.

-Arriviamo alla seconda parola, “conoscere”…

In quegli anni la Corte Costituzionale è uscita finalmente, e fisicamente, dal palazzo, dalla magnifica torre d’avorio dove si parla solo con le sentenze, e ha incontrato pezzi della società, senza esclusioni di sorta, per essere, come diceva un suo vecchio presidente, “carne e sangue del corpo sociale” e quindi per arricchire la giustizia costituzionale

-Cosa intende invece con il termine “accountability”?

Il dovere di rendere conto delle proprie decisioni, di spiegarle e di farle comprendere, proprio in virtù di quel potere così penetrante di cui parlavo prima, e anche per consentire ai cittadini di formarsi un’opinione critica autonoma.

-E quando lei parla di alfabetizzazione costituzionale a cosa pensa?

All’attività di promozione della Costituzione vivente, per contribuire a formare una vera “mentalità costituzionale” – come la chiama Paolo Grossi, il presidente con cui cominciano quei cinque anni – poiché è quella la vera barriera contro le regressioni democratiche. Questo è un altro punto centrale, che ci interroga come cittadini e come giornalisti.

 

 

-C’è una parte fondamentale di questo libro che affronta il tema complesso della regressione democratica, posso chiederle perché?

Importanti istituti di ricerca come per esempio “Freedom House”, e numerosi autorevoli costituzionalisti segnalano da tempo che oggi solo il 20% della popolazione mondiale vive in paesi che si possono considerare “liberi”. É il dato più basso dal 1997. Le regressioni democratiche colpiscono democrazie vecchie e nuove, in Europa e nel mondo. Prima della guerra, in Israele, per mesi e mesi, folle oceaniche e pacifiche di cittadini, giuristi e anche militari hanno invaso le piazze al grido di “Democrazia, democrazia” contro la riforma della giustizia di Netanyahu che voleva ridimensionare la Corte suprema israeliana, una delle più coraggiose al mondo per le sue decisioni a tutela dei diritti delle minoranze, pur nel difficile contesto di quel paese.

 

 

-Non è la sua una lettura pessimistica del quadro di insieme?

Sono gli osservatori e gli specialisti del settore che ci dicono che siamo di fronte, nel mondo, a una regressione democratica senza precedenti, con caratteri inediti.

Quali per esempio?

Non ci sono colpi di Stato, insurrezioni o rivoluzioni: la democrazia viene erosa dall’interno dalle maggioranze politiche dei governi in carica, “democraticamente eletti” e spesso supportati da ampio consenso elettorale, attraverso interventi normativi che, presi uno ad uno, non appaiono pericolosi ma che, sommati, determinano lo svuotamento della democrazia costituzionale.

-Quali sono i principali indicatori di questo progressivo svuotamento?

L’attacco all’indipendenza dei giudici, l’appropriazione delle Corti costituzionali, il silenziamento dei poteri di controllo indipendenti, compresi i media, il ridimensionamento del parlamento e del ruolo delle opposizioni, fino alle limitazioni della libertà di insegnamento.

-E qual è l’esito?

Queste “politiche” fanno scivolare le democrazie non verso veri e propri regimi autoritari -non tutti i diritti di libertà, infatti, vengono soppressi- ma verso le autocrazie, oppure qualificano quelle stesse democrazie come “illiberali”, sebbene sia un ossimoro, pensiamo all’Ungheria.

-Non crede sia la sua una lettura assolutamente politica del tema generale, più che professionale?

Non facciamo confusione. Distinguo assolutamente l’analisi storica e politica da quella professionale, sono piani diversi, ma la seconda va fatta tenendo anche conto del contesto storico e politico. La caratteristica di queste “democrazie” è di essere guidate da leader carismatici che pretendono di parlare in nome del popolo – di qui la definizione di populismo – o della nazione, e che una volta al governo rifiutano, o sono fortemente insofferenti ai limiti e alle garanzie, proprio perché si basano sulla negazione del pluralismo, e quindi della mediazione e del bilanciamento. La grande sfida di questa epoca, quindi, è arginare le regressioni democratiche. E possibilmente vederle arrivare.

 

 

-Chi lo deve fare?

Tutti. Cittadini, media, giuristi, e anche le Corti costituzionali, molte delle quali sono scese in campo in varie parti del mondo. Germania, Francia, Canada, Austria, solo per citarne alcune. Lo ha fatto anche la nostra nei cinque anni che raccontiamo, non senza problemi, tentativi di bloccarla, contestazioni. Ma lo ha fatto lo stesso. “Non ha avuto paura”, per dirla con le parole del costituzionalista Francesco Clementi.

 

 

-La vostra sembra quasi una mission istituzionale?

È un impegno civico che ognuno dovrebbe avvertire se ha a cuore la democrazia costituzionale. E’ evidente che, di fronte alle sirene dei populismi, complice la disinformazione, la cultura costituzionale deve mettere radici profonde.

-In che senso lo dice?

Nel senso che l’opinione pubblica deve essere informata, chiaramente e correttamente, per comprendere gli inganni che spesso si celano dietro tecnicismi giuridici, urla faziose, proclami propagandistici. Di qui la necessità di una costante alfabetizzazione costituzionale, che non può non passare dalla conoscenza delle Corti costituzionali, proprio per la loro “funzione contro-maggioritaria”, espressione che non ha nulla di eversivo, come invece si vorrebbe far credere, ma è tipica degli organi di garanzia, ovvero di limite all’azione delle maggioranze politiche, e di garanzia dei diritti, del pluralismo e delle minoranze.

-Il dato più singolare sulla Corte che troveremo nel suo libro quale è?

Quando sono arrivata alla Corte costituzionale ho scoperto che solo il 15% degli italiani la conosceva e sapeva che cosa fa. A qualcuno sembra persino alta come percentuale, a me è sembrata tragicamente desolante. C’era, e c’è, un enorme vuoto informativo da colmare. In questi giorni siamo tornati a parlare di bavaglio, ai giornalisti e ai magistrati. È una tentazione ciclica di una certa politica insofferente ai contrappesi. Una politica che vedrebbe volentieri anche una Corte costituzionale muta, che parli solo con le sentenze, ammesso che siano gradite. Invece, il modo in cui le istituzioni comunicano, in particolare quelle di garanzia, dice molto della qualità della democrazia e delle stesse istituzioni.

 

 

-É vero che purtroppo non sempre se ne ha consapevolezza giusta?

Sì, è proprio così. I media per primi non hanno questa consapevolezza. Ed è grave, perché questa mancanza di consapevolezza va di pari passo con la mancanza di conoscenza della Corte costituzionale, considerata, come dicevo prima, un “altrove”.

-Non è eccessivo come giudizio?

Purtroppo è frutto dell’esperienza sul campo, da tutti e due i lati della barricata. Pensiamo solo al recente dibattito sul premierato, in cui la Corte è stata a lungo ignorata mentre sarebbe destinata a subire, eccome, contraccolpi, sia pure indiretti da quella riforma. L’analfabetismo costituzionale dilaga nel nostro paese, purtroppo anche tra i giornalisti, salvo eccezioni che fortunatamente ci sono e anche di grande spessore.

-A quale esperienza concreta si riferisce?

Negli anni alla Corte, spesso mi sono imbattuta in colleghi che – o per motivi di turni di lavoro o per pigrizia o per ignoranza oppure per supponenza – sapevano niente o poco della Corte, e però discettavano. Anche qui c’è un problema da affrontare, che è quello della scarnificazione delle redazioni dei giornali e delle professionalità. L’informazione risponde sempre più a logiche di mercato – nella selezione delle notizie, nel loro confezionamento, nell’organizzazione del lavoro – per cui, per massimizzare i guadagni, i pochi giornalisti vengono inchiodati alle scrivanie di fronte a un Pc a rielaborare notizie di seconda o addirittura di terza mano, magari pescate dalla rete senza alcun controllo. E su quelle si costruiscono narrazioni deformate o strumentali, che rimbalzano sul web e che come una palla di neve rotolano giù diventando valanga e travolgendo tutto senza che si riesca più a fermarle.

-Crede che sia stato fatto abbastanza per raccontare bene la Corte?

Dobbiamo dircelo: finora la narrazione mediatica sulla Corte costituzionale non è stata all’altezza della sfida di una democrazia matura, non è stata in grado di far percepire il peso della Corte nell’equilibrio dei poteri, nella vita democratica e quindi in quella delle persone, a differenza di quanto accaduto in Israele. E temo che le piazze italiane non si riempirebbero come quelle israeliane nella malaugurata ipotesi in cui si verificasse un attacco alla Corte come in Israele.

-Eppure, nei cinque anni raccontati nel libro si è lavorato molto bene in questa direzione?

In quei cinque anni abbiamo fatto ogni sforzo per adempiere questo dovere di conoscenza, e ancora ne vanno fatti a mio giudizio, accettando il rischio di commettere qualche errore e di sollevare critiche. Il mio primo direttore ci ripeteva sempre “solo chi non lavora non sbaglia”. In ogni caso, in quel cinque anni abbiamo cercato di “organizzare un servizio” – non di “esercitare un potere”, attenzione – per supportare al meglio i media ma anche per stabilire un canale diretto con i cittadini, usando ogni strumento della comunicazione (comunicati, conferenze stampa, podcast, interviste, video, social, app, film, concerti, mostre fotografiche, Viaggi nelle carceri e nelle scuole, annuari).

-Non è stato sufficiente?

Dobbiamo riconoscere che c’è anzitutto un grave deficit di informazione professionale, che rende ancora più fragile la nostra democrazia. E non possiamo permettercelo, al di là delle contingenze politiche.

-Nasce anche per questo il vostro saggio?

Sì, questo libro, in continuità con l’impegno di quegli anni, è un piccolo ma necessario contributo alla conoscenza, per cercare di colmare almeno in parte quel deficit.

Fin qui l’autrice del libro, ma altrettanto interessante è stato il dibattito che ne è seguito.

“Comunicare e decidere, cosa viene prima?” É la domanda che l’ex Presidente della Consulta Giovanni Maria Flick rilancia agli autori. Il grande giurista si sofferma sul leit-motiv del libro, ossia la necessità della Corte di aprirsi alla società, e analizza l’impatto di alcune sue decisioni, come ad esempio, quella sul fine vita.

“La Corte ha sempre avuto il limite di non invadere le valutazioni discrezionali del legislatore e, tuttavia, tale limite è stato superato in tempi più recenti quando la Corte, prima di dichiarare la incostituzionalità di una norma, l’ha segnalata con ampia motivazione e dato uno spazio di tempo al legislatore per prenderne atto.  Spesso in questi casi – prosegue – il legislatore non sempre interviene o lo fa con tempi molto lunghi.”

Guai a dimenticare, insomma- conclude Giovanni Maria Flick che “la Costituzione ha affidato alla Corte non il compito di realizzare nuove leggi, ma la funzione di verificare che le leggi in vigore rientrino all’interno del perimetro costituzionale”.

 

Pino NanoGiornalista.Già Capo redattore capo centrale

 

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