“Stanno tirando di tutto”. Così la giornalista Rai Valeria Coiante commentava in diretta in linciaggio subito da Bettino Craxi trent’anni fa, in largo Febo, sotto l’Hotel Raphael, storica residenza romana del leader socialista.
Quel giorno rappresentò la fine politica (e non solo) del più longevo segretario del PSI, dalla cui direzione si era dimesso l’11 febbraio, due mesi e mezzo prima. Ma quel 29 aprile fu anche l’apice di quel giustizialismo che Mani Pulite aveva reso normalità, cosi come era diventata prassi quell’eccessivo utilizzo della carcerazione preventiva che distrusse vite e famiglie.
L’anniversario di quell’aggressione (perché di aggressione dobbiamo parlare) oggi lo ricordano tutti in maniera negativa, la degenerazione delle proteste contro un sistema che doveva crollare, la genesi di un populismo di cui ancora oggi paghiamo lo scotto. Ma si dimentica troppo spesso che quasi nessuno si indignò contro quella violenza squadrista che subì Bettino Craxi, anzi venne cavalcata da chiunque, perché quella era “la vittoria del popolo”, perché lui era il nemico da abbattere, il Cinghialone. Già dai primi mesi di Tangentopoli, infatti, i più importanti quotidiani italiani avevano iniziato una campagna mediatica contro Craxi, dal Corriere sotto la direzione Mieli, all’eterna nemica Repubblica di Scalfari, passando per L’Indipendente guidato da Vittorio Feltri.
Ghino di Tacco e Cinghialone, veniva apostrofato così in maniera spregiativa da La Repubblica e L’Indipendente, ma anche per il “moderato” Corriere Bettino Craxi “aveva perso, a prescindere dalla sentenza dei giudici.
Non serviva un processo, il verdetto era già scritto prima ancora che Craxi ricevesse il primo avviso di garanzia.
Quindi nessuno si indignò per quelle monetine squadriste, anche perché coloro che si sarebbero dovuti indignare erano gli stessi che avevano gettato benzina sul fuoco da mesi, alimentando la rabbia di un intero paese che aveva innegabilmente voglia di cambiamento.
Ecco perché nessuno il giorno successivo spese una parola per condannare l’aggressione subita da un ex Presidente del Consiglio. Nulla di grave era accaduto. O meglio, era accaduto ciò che si voleva accadesse, vale a dire, come ha affermato il Professor Giovanni Orsina, “il collasso della Prima Repubblica”.
Certo, poi gran parte dei giornalisti che parteciparono all’assalto nei confronti di Craxi (a parte Eugenio Scalfari che rimase anticraxiano sino alla fine) mutarono posizione. Paolo Mieli negli ultimi anni ha preso una posizione molto dura nei confronti del clima giustizialista che ha caratterizzato quegli anni, sebbene è doveroso ricordare come commentò il primo avviso di garanzia (non ancora quindi, né un rinvio a giudizio né tantomeno una condanna) ricevuto da Bettino Craxi, il 16 dicembre 1992: «A differenza di qualsiasi altro leader del mondo occidentale, eccezion fatta per i dittatori, Craxi ha impostato la sua avventura politica su almeno due punti: l’impunità, vale a dire l’impossibilità di ammettere abusi e irregolarità, e la vittoria certa….il tutto nascondendosi in bunker».
Il più sincero nelle scuse fu sicuramente Feltri che nel corso degli anni più volte tornò sui toni utilizzati in quei 18 mesi alla guida dell’Indipendente: «Craxi era un colpevole predestinato, odiato e dunque condannato in partenza. A lui ho dedicato i titoli più carogna della mia vita professionale…Non sono stato cinico, ma cieco. Avrei dovuto alzare lo sguardo e mettere a frutto l’esperienza acquisita durante il processo contro Enzo Tortora». Furono scuse vere le sue. Forse le uniche sincere, oltre a quelle di Staino che definì quel lancio di monetine “l’inizio della degenerazione della politica, il primo atto di vera antipoitica”.
Dopo 30 anni da quell’evento, vi è certo una nota positiva, ossia la possibilità di esprimere un giudizio obiettivo, scevro da pregiudizi, sulla figura politica di Bettino Craxi, considerato finalmente un uomo di Stato, uno dei più significativi della nostra storia Repubblicana, ma la macchia indelebile che la stampa ha giocato in quegli anni rimarrà per sempre, da monito per i giovani cronisti affinché non ci sia più un 29 aprile 1993.
Francesco Spartà – Giornalista