I partiti? Partiti per sempre?

Nessuna delle caratteristiche fondanti della forma-partito è visibile. Nel catalogo delle urgenze per rimettere in funzione il polmone democratico della forma-partito, forse al primo posto andrebbe messa la scelta dal basso della rappresentanza. Oggi rubata dai compilatori delle liste.

Fa impressione constatare come, nel dibattito italiano rivolto alle istituzioni, si incontrino da decenni gli stessi temi. Ovviamente irrisolti.  La riforma dei partiti, per esempio.

Una manciata di giorni fa tornava sulla questione Sabino Cassese con un editoriale (sul grande giornale italiano) che argomentava sulla debolezza della forma-partito. Argomento che non si può non condividere, ovviamente: peraltro il soggetto forse non trae più il suo etimo dalla parola “pars”, parte, effetto di una divisione, ma si ricongiunge all’origine remota che deriva dal verbo partire. Dunque i partiti oggi sono solo un participio passato.

Che cosa sarebbe poi un partito politico?

A pensarci rammenteremmo alcune buone cose che oggi profumano di piccolo mondo antico: organizzazione stabile, idem sentire, metodo democratico e politica nazionale. Si tratta più o meno delle stesse cose evocate dalla Costituzione e che caratterizzano la forma-partito di ordinamenti come quello inglese, tedesco, francese, americano, tanto per fare qualche riferimento noto, con partiti politici che lì affondano le loro radici alle origini delle democrazie. Vivono con difficoltà il presente, non c’è dubbio, ma sono sempre quelli da anni. Alcuni da secoli.

Bene, in Italia vige un’altra regola in cui il partito-organizzazione stabile quasi non esiste più ( il PD? Forse. Ma molto forse), il riferimento ideologico-valoriale lasciamolo perdere nell’età orgogliosamente post-ideologica, il metodo democratico è un relitto ingombrante del secolo scorso (oggi vige il cesarismo) e la visione politica larga (“determinare la politica nazionale”, art.49 Cost.) è soppiantata dalle issues strette, quelle che si addicono al movimento.

Va da sé che l’esercizio del commentare il voto amministrativo parziale come se fosse un test generale per le politiche, rappresenta un teorema impossibile: già storicamente le elezioni amministrative hanno sempre manifestato tendenze non automaticamente replicabili sul piano nazionale fin dai tempi della prima repubblica, quando i partiti locali e quelli centrali portavano lo stesso nome e le liste civiche- che pure erano numerose-rappresentavano l’eccezione.

Figurarsi ora, con alcuni soggetti nazionali ( vedi 5Stelle), che non raccolgono voti sul piano locale, altri che hanno una consistenza solo parlamentare ed altri ancora che rinunciano a fare liste per non fare brutta figura, e il festival della lista civica è in corso dappertutto, con nomi più o meno fantasiosi. Dunque suggeriremmo di frapporre un po’ di distanza tra il voto di domenica 12 ( referendum compreso) e lo stato di salute dei soggetti politici i cui nomi sono assai noti nei pastoni dei tiggì.

Tornare a parlare di partiti, pertanto, significa ancora una volta parlare di democrazia interna, di contendibilità dei vertici, di formazione del ceto politico, di finanziamento pubblico, sì, anche, perché farne a meno significa entrare in modalità tre scimmiette facendo finta di non vedere, non sentire e non parlare del partito nelle mani di qualche tycoon che paga il servizio svolto in suo favore da chi dovrebbe agire solo nell’interesse collettivo.

E poi ci sono le leggi elettorali, che entrano direttamente nel cuore della politica, promuovendone la vitalità o infartuandola in modo irreversibile.

Da quanto tempo ha fatto ingresso nelle leggi elettorali per il Parlamento la famigerata lista bloccata? La sua epifania si ebbe addirittura 29 anni fa, con il cd.Mattarellum, nella quota proporzionale del 25% e poi non ci ha più abbandonato nella sequenza compulsiva delle successive riforme ( tre, un unicum nel mondo democratico di nevrosi manipolativa) che ci hanno accompagnato fino ad oggi, spargendo instabilità a piene mani.

In principio, quando i partiti c’erano, c’era il voto di preferenza – dal 1946 al 1992 addirittura plurimo – e il parlamentare veniva scelto da una lista che era già una selezione del meglio che circolava intorno al partito politico. Il sistema col voto di preferenza rendeva necessaria la cooperazione di tutti i candidati: più voti venivano raccolti da chi era in lista, più seggi scattavano per il partito e se ne giovavano tutti in una competizione che, quando le preferenze erano quattro, non si tramutava mai in guerra fratricida, effetto, invece, indotto con la preferenza unica.

Poi giunse la 2mano di dio” del capo di partito compilatore delle liste bloccate sulla base del criterio di appartenenza.

Si trattò di una sanzione giuridica che metteva la legge elettorale in linea con il sostanziale mutamento della forma-partito: dalla dimensione democratica a quella cesaristica del partito personale totalmente controllato dal leader. Con buona pace dell’art.67 della Costituzione.

Ecco: nel catalogo delle urgenze per rimettere in funzione il polmone democratico della forma-partito, forse al primo posto andrebbe messa la scelta dal basso della rappresentanza. Oggi rubata dai compilatori delle liste.

 

Pino Pisicchio– Professore ordine di Diritto pubblico comparato, Deputato in varie legislature

 

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