Moro Esterno notte 2 Visioni, conferme e un finale da “post hoc propter hoc”

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Abbiamo visto “Esterno notte”, seconda parte, di Marco Bellocchio, dedicata come la prima al rapimento di Moro, all’assassinio della scorta e all’epilogo tragico del presidente della Dc. Rispetto alla prima parte, recensita su https://beemagazine.it/quei-fantasmi-su-e-attorno-a-moro-impressioni-a-caldo-dopo-aver-visto-il-film-esterno-notte-di-marco-bellocchio/ ci sono alcune conferme, alcune “licenze” e qualche debole ipotesi.

Cominciamo dalle conferme.

Margherita Buy che interpreta la signora Nora Moro, e Fabrizio Gifuni, che nel film è il presidente della Dc, sono da Oscar. O, se vogliamo restare nei confini domestici, da David di Donatello.

Gifuni, non solo per la impressionante rassomiglianza fisica, che di per sé non sarebbe merito suo semmai dei truccatori, come nel caso di Pierfrancesco Favino- Craxi  in  “Hammamet”; ma per come rende il personaggio: il suo modo di parlare, l’espressione dolente e scettica, che gli era abituale, il sorriso appena accennato, il tratto mite e garbato ( “mi saluti i suoi colleghi”, dice al momento di lasciare la prigione delle Br, dopo essersi vestito; frase che fa da pendant alle parole della signora Nora, nelle ultime concitate fasi della prigionia del marito, quando parlando con un br che la incalza a far uscire allo scoperto Zaccagnini, finora inerte e passivo, arriva a ringraziare il terrorista e a chiedere scusa ( cosa su cui poi rifletterà meravigliandosi amaramente con se stessa).

Gifuni raggiunge vette massime d’interpretazione nella invettiva di Moro contro gli “amici” della Dc che lo hanno abbandonato di fatto al suo destino di morte. Al sacerdote che entra nella”prigione” un covo di due metri per un metro e mezzo, per confessarlo,  Moro domanda:  “Mi uccideranno, vero?”. Il sacerdote  smentisce e cerca di rincuorarlo, ma l’uomo che in tanti anni di politica aveva saputo leggere e antivedere  negli avvenimenti del suo Paese non si fa illusioni e dice al prete che lo saluta con un “ci rivedremo”: “Lei sa bene he non ci rivedremo fuori da qui, altrimenti non lo avrebbero fatto venire”.

Margherita Buy, forse alla più intensa prova della sua carriera, rende con tante sfaccettature il personaggio della signora Moro: si carica di tanti compiti, sotto l’infuriare della tragedia:  lotta con i dirigenti Dc, nella prima fase dei 55 giorni;   li riceve sempre più scettica,  costretta a fare buon viso quando il suo impulso spontaneo magari sarebbe di scaraventarli giù dalle scale.

Cristiana conseguente  al punto di correggere la figlia Maria Fida che lancia la parola “bastardi” contro coloro che tengono prigioniero suo padre, e  le ricorda che da cristiani bisogna comprendere e perdonare.

D’altra parte chi è integralmente  Cristiano  non si meraviglia neanche che Moro nell’ultima straziante lettera alla moglie, scriva queste parole: che possiamo farci? È la volontà di Dio.

Un concetto che magari, a un primo impulso, un essere umano non se la sentirebbe di accettare.
Ma la fede, direbbe Pascal, ha le sue ragioni che la ragione non conosce.

Anche in questa seconda parte, I dirigenti Dc sono rappresentati come maschere espressionistiche, ancor più Andreotti, volutamente caricaturizzato. Su Andreotti il regista fa scaricare da Moro, mentre si confessa,  tutto il suo odio implacabile,  e il prigioniero  si rimprovera di non aver fatto nulla in tanti anni di politica per contrastarlo, rinunciando all’azione.

Ma questa era una caratteristica di Moro: la mitezza, il suo non voler farsi nemici, come è ben descritto in una poco nota biografia del leader dc  critta nel 1969 da Corrado Pizzinelli, per l’editore Longanesi, in una collana di ritratti di personaggi famosi, politici e non…

Una biografia che letta con la lente del dopo è sorprendentemente illuminante, anche se non priva di tanti luoghi comuni che nel tempo su Moro si sono consolidati ( la propensione al rinvio, la lentezza, la meticolosità).

L’invettiva contro Andreotti che Bellocchio fa pronunciare a Moro rivolto al sacerdote è naturalmente una elaborazione del regista, che stilisticamente adotta il tempo e la circostanza della confessione per far rispondere dal presidente della Dc  ai falsi amici e ai veri detrattori: “Mi prendono per pazzo perché non voglio morire? Che cosa c’è di strano nel voler continuare a vivere?”.

Anche in questa seconda parte Cossiga è reso nella sua inquietante problematicità e bipolarità. Lo stesso Moro, confessandosi, a un certo punto si dichiara deluso dall’allora ministro dell’Interno, lo definisce un ingrato ma poi gli trova un’attenuante: è bipolare.

Una bipolarità psichica che diventa secondo alcune tesi, e libri usciti negli ultimi anni, forse  anche operativa: da una parte Cossiga è sinceramente addolorato e si sente sconfitto nel non riuscire a salvare la vita di Moro, suo mentore e Maestro a cui doveva la carriera politica, e di questa sofferenza vede le conseguenze psicosomatiche sulle mani che si vanno riempiendo di macchie; ; dall’altra gli sono state rimproverate inefficienze, cecità ( il comitato di consulenti che doveva aiutarlo a trovare Moro era fatto di infiltrati e di persone che risulteranno poi appartenenti alla loggia P2, il cui capo, Licio Gelli, era feroce nemico di Moro e della sua politica.

E anche nel film, Bellocchio pur senza accentuare troppo, lascia un certo alone di ambiguità attorno alla figura di Cossiga, e soprattutto a uno strano personaggio americano, appartenente ad ambienti d’intelligence non meglio precisati che, in una scena, si congeda dal ministro dell’Interno e gli dice: il mio lavoro qui è finito.

Quale lavoro? Apparentemente sembrerebbe un lavoro volto a favorire la liberazione di Moro.

Se poi ricordiamo le risultanze della seconda commissione Moro e soprattutto questa: in via Fani la mattina del 16 marzo c’erano ANCHE le Brigate rosse, ecco che il discorso si allarga e il delitto Moro diventa un enigma non spiegabile solo in senso autoctono, e autorizza a ipotizzare che le Br, consapevolmente o inconsapevolmente , o furono eterodirette o diventarono lo strumento di un disegno più grande di loro, e nel quale i terroristi ebbero comunque la loro parte.

Su questo punto il film sembra sorvolare, preferendo nella seconda parte mostrare, con risultati non privi di efficacia,  scene da interni: come si mossero, nei loro movimenti i terroristi, tra cui – e questo è noto – non c’era unità di intenti;  c’era chi era contrario alla uccisione di Moro, mentre il capo sembrava prussianamente deciso ad andare fino in fondo, senza un dubbio, senza una incertezza, anche umana, che invece il regista mostra in qualche terrorista, sia uomo sia donna.

Non mancano neanche scene, per fortuna solo accennate,  di effusioni tra i brigatisti, quasi a suggerire che in fondo, se erano sanguinari, erano pur sempre esseri umani( !?!).

Dall’altra parte, ci sono le scene vissute in casa Moro, le telefonate della signora Nora ( molto emozionante, per intensità psicologica, quella fatta alla vedova Leonardi). Il regista mette in piazza anche alcuni particolari che alla famiglia non piaceranno, anzi non sono piaciuti, e per esempio Maria Fida ha protestato. Ci sono cenni ad alcuni dissapori coniugali dei Moro, una certa animosità pregressa della signora Nora verso il marito sempre troppo occupato, che ora dopo anni, nota la signora Moro – Margherita Buy,  si rivolge alla moglie con accenti di tenerezza che risalivano al tempo del fidanzamento; o i rimproveri di Nora Moro alla figlia Maria Fida che propone di reagire, di gridare le ragioni , anzi di urlare, e la madre  invita a tacere e a non compromettere tutto con parole sbagliate., anzi la invita ad andarsene a casa sua.

E naturalmente c’è Luca, il nipotino adorato di Moro, citato nelle lettere dal carcere delle Br.

Lo spettatore, che viene coinvolto molto intensamente sul piano emotivo dalle sequenze che vanno da un interno a un altro, sta naturalmente e umanamente dalla parte delle vittime. Ed è inorridito dal comportamento dei carnefici che, dopo aver detto a Moro: ti liberiamo (gli davano del Tu, ma questo è il …meno) poi lo caricano sull’auto e a tradimento lo massacrano di mitragliate.

Ma questa preferenza alle vittime non è solo dettata da ragioni di etica e di umanità, ma anche da ragioni diremmo estetiche, di resa artistica.

Moro e la signora Nora sono resi nella loro umanità come personaggi concreti e vivi.

Meno riuscita, a nostro avviso, la interpretazione di Paolo VI: non traspare nulla della dolente umanità e sofferenza del Pontefice nella interpretazione del solitamente bravo Toni Servillo. Ma è questione di toni e forse anche di voce, e soprattutto di espressione.

Dall’altra parte,  quella dei carnefici, i terroristi sono di fatto delle marionette tragicamente incolori, e lo stesso capo che li guida, pur con il suo piglio deciso e senza rimorsi, non si differenzia più di tanto dal resto dei complici che egli comanda a bacchetta.

Bellocchio ha poi voluto replicare, anche in questo film,  dopo “Buongiorno notte” del 2003, l’ipotesi fantasiosa della liberazione di Moro, giocata sulla domanda: le Br avrebbero fatto meglio a liberarlo, invece di ucciderlo? Era più destabilizzante Moro vivo o Moro assassinato?

Domande purtroppo inutili, ma il dubbio sfiorò, non per molto purtroppo, alcune frange delle Br.

Ma a decidere che Moro doveva scomparire non solo dalla politica italiana ma dalla vita, concorsero in molti: le Br, ufficialmente, ma anche forze d’intelligence, e tutti coloro – individui o anche potenze straniere – a cui la politica di Moro di allargare la base democratica dello Stato alle masse comuniste, nella prospettiva di una terza fase della democrazia italiana al fine di realizzare in Italia la “democrazia compiuta”, una democrazia bloccata per anni dal fattore K ( Kommunism), era sempre più insopportabile.

Uccidendo Moro si uccideva una politica, una prospettiva, che solo lui sarebbe stato capace di  garantire. Uccidendo Moro gli si impediva anche di diventare presidente della Repubblica, di lì a pochi mesi dopo il 16 marzo, come disse Pertini nel suo discorso d’insediamento. “Se non lo avessero crudelmente assassinato – disse ai deputati e senatori che lo applaudirono freneticamente – Aldo Moro non io starebbe qui, al mio posto, a parlare a voi”.

Diamo infine una spiegazione perché abbiamo accennato che nella seconda parte di “Esterno notte” si adombra un “post hoc propter hoc”.

A chiusura del film, il regista mostra le didascalie riferite ad alcuni personaggi, di cui aveva illustrato il ruolo nella vicenda Moro: Pertini, Cossiga e Andreotti.

Pertini, che si era dichiarato contrario all’atteggiamento del Psi di Craxi di perseguire una via  per far liberare Moro viene mostrato mentre parla alle Camere riunite appena eletto nel 1978 presidente della Repubblica.

Nell’altra scena Cossiga  giura, nel 1985, da presidente della Repubblica. Infine si mostra il volto di Andreotti e la didascalia recita:  restò al potere fino al 1992.

Qualche spettatore, sarà stato tentato di collegare la tragica fine di Moro con i successi dei tre  su nominati personaggi? Chissà…

 

Spectator

 

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