Genere e lingua, fenomenologia di alcune tendenze nel mondo

A volte capita che un episodio fortuito, capitato per caso, ti faccia riflettere su aspetti della realtà che fino a quel momento non avevi considerato a fondo, nella loro complessità. Credi che siano lontani, visto che non riguardano direttamente la tua persona, la sfera dei tuoi familiari e dei tuoi amici. E alcune questioni appaiono un po’ astratte, quasi sfocate.

Può aver senso parlare di fatti linguistici, di fronte a problemi che coinvolgono la vita delle persone? La parola inglese «transgender» è composta dall’accostamento di «trans» “al di là” e «gender» “genere sessuale” e indica chi si identifica in modo transitorio o persistente con un genere diverso da quello assegnato alla nascita.

Può essere usata come sostantivo (è un transgender) e come aggettivo (movimento transgender, locale transgender), per definire l’atteggiamento personale, sociale e sessuale che combina caratteristiche del genere maschile e di quello femminile, senza identificarsi interamente e definitivamente in nessuno dei due.

Le persone transgender sono individui che hanno un’identità o un’espressione di genere che si discosta dal sesso assegnato alla nascita. Esiste anche il corrispettivo italiano: «transgenere», molto meno diffuso. Ma ora non voglio discutere della presenza spesso eccessiva degli anglicismi nella nostra lingua e della preferenza che sarebbe giusto accordare a parole italiane che possono ragionevolmente essere usate in luogo di quelle straniere. Questa volta parlo d’altro.

La parola ha un significato originariamente politico e culturale, è un termine ombrello che punta a includere senza discriminazione tutte le forme di non conformità di genere. Definisce il movimento che contesta la visione duale (o binaria) dei generi, secondo la quale le identità di genere nell’essere umano sarebbero soltanto due, sarebbero immutabili e scaturirebbero del sesso genetico degli individui.

Il genere rappresenta il modo in cui il soggetto mostra la propria identità al resto del mondo, il modo in cui ci vestiamo, come ci pettiniamo, come parliamo e come usiamo il linguaggio del corpo. Il movimento è nato negli Usa negli anni Ottanta. Vladimir Luxuria, parlamentare transgender in Europa, ha reso il termine popolare anche in Italia, ormai ricorre ampiamente nei media, scritti e orali. Ecco l’episodio casuale che mi ha fatto riflettere, come ho scritto all’inizio dell’articolo.

Alle 10,15 circa dell’11 dicembre ascolto una trasmissione di radio 3 che si intitola «Expat. Storie di italiani nel mondo» (chi vuole può riascoltarla: https://www.raiplaysound.it/audio/2021/12/EXPAT-ab08f1e4-e479-4d26-adf2-1988da311afc.html). Vengono intervistate persone che per studiare o perché non hanno trovato lavoro in Italia o per altri motivi, hanno tentato la via dell’emigrazione, traferendosi all’estero per periodi più o meno lunghi. Per lo più giovani, con progetti, professionalità e qualifiche elevati, che all’estero studiano, fanno lavori sufficientemente remunerati, vedono riconosciute le loro qualità, si misurano con esperienze nuove, con modi di vivere e di pensare diversi, con lingue differenti dalla propria.

La trasmissione mi piace molto perché gli intervistati non si lasciano andare a lamentele nei confronti della sorte e della madre-patria ingrate, non hanno reciso definitivamente i legami con la propria terra d’origine, confrontano con lucidità stili di vita diversi, sono propositivi e guardano al futuro con ragionato ottimismo che nasce dalla propria intraprendenza. Quel mattino dell’11 dicembre parla B., un’intervista registrata qualche giorno prima al computer.

B. ha 25 anni, viene dal Veneto, studia in Svezia all’università di Malmö. Mi colpiscono gli aggettivi con cui B. si descrive, alternativamente maschili e femminili. Si definisce essere umano, non uomo, non donna. Si pone alcune domande. Cosa rispondo quando un questionario mi chiede se sono uomo o donna? Che tipo di linguaggio posso usare, che tipo di linguaggio posso richiedere dagli altri? In un luogo pubblico, in quale bagno devo andare? Ha imparato lo svedese, ha imparato che in svedese esistono tre pronomi, maschile per lui, femminile per lei e un terzo pronome appartenente al genere neutro, prevalentemente usato nelle comunicazioni di tipo ufficiale.

Conclusione: il genere grammaticale non esiste in svedese, mentre l’italiano distingue sempre, anche nel caso di oggetti inanimati come tavolo (maschile) e penna (femminile), che non hanno sesso. Ha imparato che il sesso delle cose inanimate può cambiare nelle lingue: in italiano «il sole» è maschile e «la luna» è femminile, ma in tedesco «die sonne»  è femminile e «der mond» è maschile (come in persiano).

A un certo punto ha preso coraggio, al termine di una riunione di lavoro ha chiesto alle persone con cui lavora di usare sempre il pronome neutro quando si riferiscono a B. Ha chiesto questa cortesia, così dice. Ha spiegato che è molto importante. Le persone con cui lavora hanno capito. Hanno modificato il loro linguaggio, a volte si indirizzano a B. con il genere femminile, poi si correggono e chiedono scusa. Anch’io probabilmente dovrei scusarmi, scrivo di B. usando al femminile pronome e aggettivo, dovrei fare altrimenti, ma non saprei con quale mezzo linguistico.

Anche in Svezia non è sempre tutto facile per B. La prima volta che è andata in un Commissariato di polizia, quando ha dichiarato che non sapeva se definirsi uomo o donna, le hanno riso in faccia e hanno detto che aveva bisogno di uno psichiatra. La seconda volta, dopo alcuni mesi, tutto è cambiato. Il governo svedese suggerisce di non discriminare i cittadini, i poliziotti hanno fatto un vero corso di istruzione in proposito. B. non si sente in colpa. Tornerà in Italia per le vacanze di Natale. Sa che a volte si rivolgeranno a lei chiamandola figlia, sorella, zia. Lei vuol venire incontro ai suoi parenti, ma spera che qualcuno le chieda quale è la sua identità di genere. Spera che la famiglia e la società capiscano. Quando le hanno detto che la sua registrazione sarebbe andata in onda, ha avvertito la famiglia, perché la ascoltino e la comprendano.

Confesso che le parole di B. mi hanno colpito moltissimo, ho modificato alcune mie idee anche sulla lingua. L’edizione digitale del dizionario «Le petit Robert de la langue française» contiene una novità morfologica, inserisce il pronome neutro «iel» (unione di «il» maschile e «elle» femminile), pronome che intende definire una persona quale che sia il suo genere, sempre più utilizzato nella lingua parlata e scritta, spiega un comunicato stampa di Charles Bimbenet, direttore della casa editrice del dizionario. Polemica subito divampata, come era prevedibile, fino a raggiungere il governo e persone di grande rinomanza.

La ministra per le Pari opportunità, Elisabeth Moreno, ha definito la mossa di Le petit Robert «un progresso per le persone che vogliono riconoscersi in questo pronome. Non capisco cosa possa togliere a coloro che non lo utilizzano». «Il femminismo è una giusta causa, ma non dobbiamo triturare la lingua francese, che è già abbastanza complessa così com’è.

Va bene femminilizzare i nomi delle professioni, ma le modifiche improvvise non vanno bene», ha reagito il ministro dell’Educazione, Jean-Michel Blanquer. Con lui si è schierata Brigitte Macron: la moglie del presidente della Repubblica Emmanuel Macron ha voluto sottolineare che «la divisione binaria dei pronomi va benissimo». Qualcuno invoca l’intervento dell’«Academie française».

Chiunque comprende: non è una questione solo linguistica, dietro le scelte ci sono ragioni ideologiche e sociali. Non solo della società francese. Demi Lovato, cantante statunitense, ha detto pubblicamente di essere una persona non binaria, la sua identità di genere non è né femminile né maschile e ha aggiunto che cambierà i suoi pronomi («I identify as non-binary and will officially be changing my pronouns»), che d’ora in poi saranno «they» e «them». Ha chiesto che non si parli più della sua persona usando i pronomi femminili «she»/«her», ma appunto «they»/«them». Negli Stati Uniti, con l’emergere di nuove sensibilità e attenzioni ai linguaggi più inclusivi, tra chi non si riconosce come donna o come uomo, e quindi nei pronomi “lui” o “lei”, si è diffusa la pratica di definirsi in modo neutro con il «singular they», cioè “they singolare”. Non ha niente a che fare con l’italiano “loro”, ha invece la funzione di pronome singolare neutro.

Finora nessuno in Italia ha proposto di usare un pronome neutro come «lule» (lui + lei), o qualcosa di analogo. E nessuno chiede all’Accademia della Crusca di intervenire, almeno per il momento. Ma una cosa mi sentirei di affermare. Non chiudiamoci a priori ai cambiamenti della lingua, se affioreranno.

Le lingue sono organismi viventi, che variano a seconda del variare delle società  che in quelle lingue si identificano. Ecco perché solo le lingue che evolvono storicamente nei secoli sono attraversate dai fenomeni fisiologici di neoformazione da un lato e di obsolescenza  dall’altro che ne modificano la struttura (grafia, fonomorfologia, sintassi e lessico), con processi di durata variabile, accelerati nel lessico, assai più lenti negli altri livelli.

Processi che non riguardano le lingue morte (come il latino o il greco classico, immutabili per definizione) o le lingue artificiali, anche ben elaborate (come l’esperanto, nel quale nessuna comunità reale di parlanti nativi può identificarsi). Nella lingua le previsioni sono difficili, quasi impossibili.

Non gode di grande nomea la cosiddetta linguistica prognostica, che cerca di divinare quale potrebbe essere l’italiano di domani. L’evoluzione dei fenomeni linguistici non può essere pilotata dall’alto, con imposizioni dirigistiche. I parlanti decidono liberamente, scegliendo le forme linguistiche adatte a rappresentare la propria sensibilità. Poi, collettivamente e nei tempi necessari, un tratto linguistico, se condiviso dalla maggioranza, prevale e si generalizza, diventa norma.

 

*Professore emerito di storia della lingua italiana, accademico della Crusca  

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