Due cinquantenari sono passati quasi inosservati nel dibattito giornalistico e politico delle ultime settimane.
Uno è il cinquantesimo anniversario dello svolgimento del referendum sul divorzio, con cui il 12-13 maggio di mezzo secolo fa l’elettorato italiano con una larga maggioranza (il 59,3 per cento dei No) respinse la proposta di abrogazione della legge Fortuna – Baslini.
L’altro è la definitiva approvazione il 31 maggio 1974 dei “Decreti delegati” in materia scolastica, al termine di un lungo iter legislativo cominciato nel 1970.
Il motivo della scarsa risonanza della prima ricorrenza è comprensibile. In una società laicizzata come l’attuale l’indissolubilità per legge del vincolo matrimoniale appare, almeno alle nuove generazioni, inconcepibile e anche molti esponenti cattolici ammettono che la Chiesa avrebbe dovuto limitare il terreno dello scontro alla difesa del matrimonio concordatario, senza entrare nel merito degli effetti giuridici delle nozze celebrate in Comune.
Si potrebbe obiettare che il risultato del referendum oltre che conseguenza sarebbe stato anche concausa di una secolarizzazione dell’opinione pubblica, tradottasi sette anni dopo nei risultati di un’altra consultazione. Il quesito sull’interruzione volontaria di gravidanza proposto dal Movimento per la vita sarebbe stato infatti respinto il 17 maggio 1981 col 68 per cento dei No, nonostante l’impegno diretto di papa Giovanni Paolo II, reduce fra l’altro da un recente attentato, e le posizioni favorevoli al Sì di intellettuali laici come Norberto Bobbio. Ma è un discorso che ci porterebbe molto lontano.
Diverso il caso dei Decreti delegati, ribattezzati dagli oppositori di destra e di sinistra, con facile gioco di parole, decreti malfatti, dal nome dell’allora ministro della Pubblica Istruzione Franco Maria Malfatti, deputato democristiano di lungo corso della corrente fanfaniana.
I decreti toccavano aspetti molto diversi dell’organizzazione scolastica italiana, dallo stato giuridico del personale non docente al ruolo dei direttori didattici e dei presidi, passando ovviamente per lo status giuridico degli insegnanti. Il loro aspetto più interessante era tuttavia costituito dalla “assemblearizzazione” della vita scolastica, con l’istituzione di organi collegiali aperti a rappresentanti dei genitori e, nelle scuole medie superiori, della componente studentesca.
Venivano istituiti così organi elettivi sia a livello superiore, di distretto scolastico, sia di singolo istituto: consigli di classe, consiglio di Istituto, con rappresentanti degli insegnanti, dei genitori, del personale non docente ed eventualmente degli alunni. Al collegio dei docenti venivano conferiti nuovi poteri.
A tutto questo si aggiungeva la possibilità per i sindacalisti di indire assemblee nel luogo e in orario di lavoro, ma anche per i genitori, specie in caso di problematiche emerse, di indire riunioni nelle classi. Alla vecchia ora di ricevimento, in cui i padri e più spesso le madri venivano a chiedere rispettosamente informazioni sul rendimento dei figli, si sostituiva, o si aggiungeva, il consiglio di classe, in cui potevano essere anche i rappresentanti dei genitori (e alle superiori gli allievi) a esprimere pareri sull’andamento delle lezioni ed eventuali rimostranze sulla didattica. Si trattava di una vera rivoluzione, che per altro arrivò solo in alcuni casi alle estreme conseguenze, ma che inizialmente fu percepita sia da genitori politicizzati, sia da docenti spaventati, come una piccola presa della Bastiglia.
Eccessi a parte, in realtà, i Decreti delegati comportavano alcuni vantaggi anche per i docenti. La scuola, che sino ad allora, specie a livello di elementari, era stata una sorta di monarchia assoluta con al vertice il direttore didattico o il preside, diveniva una repubblica aristocratica, in cui gli insegnanti eleggevano all’inizio dell’anno scolastico i collaboratori del capo d’istituto, che però aveva il diritto di scegliere fra loro il suo vicario. Venivano abolite le note di qualifica, previste invece per gli altri impiegati statali, sino ad allora utili per ottenere avanzamenti di carriera nei concorsi “per merito distinto”; l’insegnante (aspetto positivo) era sottratto a ricatti morali o psicologici da parte del capo d’istituto, ma al tempo stesso (risvolto negativo) era mosso solo dall’amor proprio e dal senso del dovere a dare il meglio di sé.
Occorre aggiungere però che l’abolizione delle note di qualifica era il risultato di una lunga lotta condotta soprattutto dalla Cgil scuola per ridurre il potere del capo d’istituto, che si espresse anche nella richiesta più radicale, non recepita nei Decreti delegati, di rendere tale figura elettiva, come nel mondo universitario. Tale lotta rientrava in una logica politica abbastanza comprensibile. Presidi e direttori didattici, come la maggior parte degli ispettori ministeriali, erano stati durante il fascismo di nomina ministeriale e alcuni di loro erano ancora in servizio. Altri erano comunque figli di una cultura idealistica, crociana o gentiliana, poco compatibile col marxismo e soprattutto contraria a una politicizzazione della scuola. Limitarne il potere, nella logica assemblearistica e libertaria tipica del post-sessantotto, era un’aspirazione comprensibile.
L’impatto dei Decreti delegati fu diverso a seconda dei vari ordini e gradi della pubblica istruzione. Istituti come il Consiglio di Distretto si rivelarono alla lunga pleonastici e poco influenti sulla vita scolastica, tanto da essere soppressi. Le competenze del Consiglio di Istituto (e della Giunta, che ne rappresentava il braccio esecutivo) furono saggiamente limitate all’ambito organizzativo e burocratico, senza possibilità di interventi sulla didattica, competenza del Collegio dei Docenti.
Tutto questo non escluse attriti e conflittualità, anche perché i Decreti prevedevano che presidente del Consiglio d’Istituto fosse necessariamente un genitore, non sempre in posizione collaborativa nei confronti del capo d’Istituto. Inoltre alcune competenze del Consiglio stesso finivano per interferire sia pure indirettamente sulla didattica, come l’emanazione dei criteri di organizzazione dei viaggi d’istruzione o l’articolazione dei giorni suppletivi di vacanza (i vecchi “giorni del Provveditore”, come venivano un tempo chiamati, ambitissimi in vista dei “ponti”). Sono note le polemiche suscitate di recente dalla scelta da parte di un istituto di concedere un giorno di vacanza proprio in coincidenza con la festa della fine del ramadan.
Anche la voce in capitolo conferita al nuovo organismo in materia di intitolazione delle scuole comportò contenziosi di carattere ideologico. Un caso limite fu a Firenze il tentativo del Consiglio d’Istituto della scuola elementare Enriques-Capponi – cointitolata a un’eroina della Resistenza e al famoso Pier Capponi che si oppose a Carlo VIII minacciando di far “suonare le nostre campane” – di radiare quest’ultimo dalla denominazione dell’istituto. Ci volle l’appassionato intervento di un maestro elementare, che fece notare come anche il secondo fosse stato un eroe della “resistenza”, contro l’arroganza del sovrano francese, a far cadere la proposta. Si trattava di un caso limite, indicativo di una certa tendenza degli anni Settanta a “demistificare” la cosiddetta retorica patriottarda enfatizzando invece la lotta partigiana; ma nella quotidianità l’obbligo di far passare attraverso quel “parlamentino” ogni spesa, anche l’acquisto di una risma di fogli protocollo o di un estintore, comportò una burocratizzazione dell’amministrazione scolastica che andò a tutto danno della efficienza amministrativa.
Per molti capi d’Istituto l’impatto dei Decreti delegati non fu indolore e si sommò, a livello di scuole superiori, al trauma della contestazione studentesca.
In realtà solo pochi presidi avevano l’abitudine d’interferire con la libertà d’insegnamento dei professori e, se nei direttori didattici c’era a volte una maggior componente autoritaria, solo pochi di loro avevano la prosopopea del dott. prof. isp. Pereghi di cui Lucio Mastronardi fa una gustosa caricatura nel Maestro di Vigevano. I più consideravano semmai la scuola un luogo che doveva rimanere al di fuori delle tensioni politiche e sindacali, per tacere delle occupazioni studentesche e magari degli scontri fra opposte fazioni.
Molti di loro preferirono lasciare il servizio approfittando delle agevolazioni pensionistiche che la legge per gli ex combattenti concedeva ai dipendenti pubblici che avessero prestato servizio in zona di guerra per più di sei mesi, oltre che a quanti avessero subito perdite familiari durante il conflitto. Questo doveroso risarcimento di un debito morale per chi aveva sacrificato alla patria gli anni migliori contribuì tuttavia a privare l’amministrazione pubblica di quadri qualificati, non solo nella scuola, comportando un ricambio a volte troppo rapido soprattutto a livello dirigenziale.
Anche per gli insegnanti i Decreti delegati comportarono un disagio diffuso, tranne che fra i più politicizzati, desiderosi di aprire la turris eburnea dell’istruzione al mondo esterno: erano gli anni, del resto, in cui Gaber ammoniva che “la libertà è partecipazione”. Al prosaico disagio di pletoriche e spesso pleonastiche riunioni pomeridiane si sommava, soprattutto alle elementari, la necessità di fare i conti col “partito delle mamme”, avvertite spesso come una controparte. Non si trattava solo di una questione di quieto vivere; per molti era il venir meno di uno status, l’appannarsi di un prestigio personale. Il tutto sommato, negli anni successivi, ai disagi comportati nella scuola dell’obbligo dall’inserimento obbligato dei disabili, anche gravi, senza che gli istituti fossero dotati di un’adeguata dotazione di insegnanti di sostegno.
I casi di autentico disagio, anche psicologico, non mancarono.
Per i docenti non pensionabili anticipatamente un relativo sollievo fu recato dal ricorso a certificati medici non sempre necessariamente compiacenti, in un’epoca in cui non esistevano le “fasce orarie” e medici di famiglia o specialisti non lesinavano diagnosi di “esaurimento nervoso”, espressione omnicomprensiva e non molto impegnativa, all’epoca molto di moda.
Un rimedio per i casi più gravi era costituito però dal trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, provvedimento che non costituiva una sanzione disciplinare vera e propria, ma era la semplice presa d’atto che la convivenza di un insegnante in una realtà che a torto o a ragione gli era ostile non era vantaggiosa né per lui né per la didattica.
Il docente aveva sino ad allora goduto, come i magistrati, unici due casi fra gli impiegati statali, dell’inamovibilità, privilegio finalizzato a tutelare la sua libertà d’insegnamento da pressioni governative. La possibilità di essere trasferito senza consenso fu vissuta da molti come la perdita di una guarentigia, anche perché consentiva a gruppi di pressione composti da alunni e genitori politicizzati, e talvolta, ahimè, da colleghi di allontanare un docente scomodo. È onesto riconoscere però che tale istituto consentiva a ispettori e provveditori di risolvere con un provvedimento amministrativo contenziosi che altrimenti avrebbero generato tensioni di cui il docente sarebbe stato la prima vittima.
Le prime elezioni per gli organi collegiali si svolsero nell’autunno del 1975, in un clima, almeno nelle aree in cui più vivo era il confronto politico, che oggi potrebbe fare sorridere. I mezzi di comunicazione sociale diedero molto rilievo all’evento e si registrò una vera e propria mobilitazione a livello sia sindacale che politico e sociale.
Un dato di rilievo fu l’impegno nelle liste studentesche dei cattolici e in particolare dei giovani di Comunione e Liberazione, destinati a divenire una presenza crescente soprattutto dopo l’ascesa al pontificato di Giovanni Paolo II. Una mobilitazione simile si sarebbe riproposta dopo l’approvazione del nuovo Concordato, quando l’insegnamento della religione da obbligatoria, salvo motivata dispensa, divenne facoltativo.
Nell’insieme, comunque, la “presa della Bastiglia” non vi fu e gradualmente le elezioni persero molto del loro interesse, anche perché la assoluta gratuità della partecipazione agli organi collegiali contribuì a diminuirne il richiamo. A livello di docenti, le liste vedevano fronteggiarsi le liste facenti riferimento alla Cgil scuola e quelle legate ai sindacati autonomi, non ancora federatisi in quello che sarebbe stato lo Snals. Nelle elementari risultavano maggioritarie le liste del Sinascel, sindacato di ispirazione cattolica facente capo alla Cisl. Nell’insieme, comunque, a metà degli anni Settanta nel corpo docente prevaleva la componente moderata, contraria alla politicizzazione in base alla convinzione che l’insegnante, per il suo ruolo, dovesse evitare la politicizzazione. La stessa Cgil scuola era stata fondata solo nel 1966, fra le resistenze anche di molti docenti di sinistra, legate anche al convincimento che i sindacati confederali avrebbero fatto sempre più l’interesse della classe operaia che dei docenti, considerati privilegiati.
Una riprova di tale opinione era stata fornita nel 1969 e nel 1970 dal pesante intervento con cui Luciano Lama aveva stroncato la scelta della Cgil Scuola di partecipare al blocco degli scrutini indetto insieme ai sindacati autonomi per ottenere miglioramenti contrattuali: un’interferenza sulle scelte del sindacato che fu vissuta con intima sofferenza da molti iscritti.
Volendo trarre un bilancio dell’intera esperienza, è onesto osservare che i Decreti delegati nacquero sia come risposta a istanze provenienti dal basso, sia come conseguenza dei mutati equilibri politici nazionali. Come era successo anche in Francia, anche se in misura minore, i disordini legati al Sessantotto avevano provocato una reazione dell’opinione pubblica moderata, che alle elezioni politiche del 1972 si era tradotta nella crisi dello Psiup, nato da una scissione del Partito socialista, e dalla crescita del Movimento sociale allargatosi a Destra nazionale.
Per recuperare i suffragi ottenuti alla sua destra (i cosiddetti “voti in frigorifero”) la Dc era ritornata alla formula centrista, riaprendo ai liberali in quello che sarebbe stato battezzato governo Andreotti Malagodi. Ministro della pubblica istruzione fu nominato Oscar Luigi Scalfaro, storico esponente moderato che in quell’occasione caldeggiò, senza metterlo in atto, il ritorno dell’insegnamento del latino in forma più compiuta nella scuola media. Ma l’esecutivo, inviso alla sinistra Dc e più volte impallinato dai “franchi tiratori”, ebbe vita breve e nel luglio del 1973 si registrò un ritorno alla formula del centrosinistra. E sotto questa egida i Decreti delegati ebbero la loro definitiva formulazione.
Per rassicurare molti docenti e capi d’istituto preoccupati per la politicizzazione che i Decreti avrebbero comportato, fu obiettato che forme di partecipazione dei genitori alla gestione della scuola esistevano già in altri Paesi europei (era vero) e che l’accesso degli studenti agli organi di rappresentanza avrebbe potuto consentire una sorta di “costituzionalizzazione” della loro protesta. Fu vero solo in parte, perché gli scioperi e le occupazioni, il clima di intimidazione nei confronti di docenti non allineati e di avversari politici, descritto magistralmente da Vittoria Ronchey nel suo Figlioli miei, marxisti immaginari, diario di una docente di liceo in un liceo della periferia romana, perdurò sin quasi alla fine degli anni Settanta, quando, sull’onda del cosiddetto riflusso, i fratelli maggiori sessantottini furono sostituiti dai fratelli minori “travoltini”.
Del resto nemmeno all’università pose fine a scontri e violenze il ritorno, sempre nel 1975, alle elezioni studentesche, dopo che sull’onda del Sessantotto era venuto meno il rinnovo dei “parlamentini” in cui si erano fatti le ossa tanti futuri leader. Occorre riconoscere semmai che, in un clima mutato, gli organi collegiali a partire dagli anni Ottanta costituirono sia una palestra dialettica per molti studenti sia l’occasione per una corretta collaborazione fra insegnanti e famiglie.
Oggi occorre però riconoscere che le vere trasformazioni della scuola italiana sono avvenute oltre un quarto di secolo dopo il maggio di mezzo secolo fa, quando il ministro dell’Istruzione nel primo governo Prodi, il professor Luigi Berlinguer, introdusse l’autonomia scolastica e, in sintonia col ministro della Funzione pubblica Bassanini, promosse direttori didattici e presidi dirigenti scolastici, con un sensibile incremento di retribuzioni, ma anche con un aggravio di responsabilità e di impegni, in seguito all’accorpamento di più istituti, alla frequente assegnazione di incarichi ad interim, a competenze persino nella contrattazione sindacale d’istituto.
Da primus inter pares, il preside diveniva “controparte” degli insegnanti in una scuola in cui i suoi collaboratori non erano più elettivi, ma nominati a sua discrezione, e otteneva un ruolo paradirigenziale la vecchia figura del segretario, promosso a direttore dei servizi generali amministrativi, in una posizione a volte conflittuale con quella del capo d’Istituto. Caso all’apparenza strano, chi un quarto di secolo prima avrebbe voluto il preside elettivo, ora accoglieva benevolmente il preside manager; ma anche in questo caso non mancava una spiegazione: nell’arco di cinque lustri formazione e orientamento politico dei capi d’istituto erano radicalmente cambiati.
Oggi, poi, la situazione è ancora una volta mutata. Nella scuola odierna, digitalizzata e iperconnessa, in cui certi insegnanti assegnano i compiti via mail, magari di sabato pomeriggio, salvo lamentarsi se gli alunni stanno troppo tempo sul cellulare, alcuni presidi inviano circolari la domenica e le assemblee dei genitori si fanno spesso sulle chat, il mito della “partecipazione” conosce una sorta di reductio ad absurdum.
E nell’era del pettegolezzo informatico vien fatto di rimpiangere i tempi delle contrapposizioni ideologiche in cui ci si scontrava a viso aperto per delle idee e maestri e professori erano considerati persone importanti, proprio in quanto tali da contestare, non meri intrattenitori, da aggredire se hanno osato mettere un rapporto o dare un brutto voto al figlio.
I Decreti delegati saranno stati anche “malfatti”, ma scaturivano pur sempre da una visione alta della scuola, che al giorno d’oggi sembra a volte irrimediabilmente smarrita.
Enrico Nistri – Saggista