1994: le tre “rivoluzioni liberali” di Berlusconi

Il racconto di un intellettuale liberale che partecipò al progetto, anche da deputato

Gli ultimi giorni del 1993 la politica prese a ribollire come l’uva pigiata nei tini. Agli inizi del 1994, con le elezioni indette a marzo, le forze politiche erano impegnate al massimo. Non era un agitarsi dei partiti soltanto. Nella popolazione fervevano le discussioni. Lo spirito di parte aveva ripreso a soffiare fortissimo. Chi di suo avesse appena studiato o conoscesse per racconto dei genitori lo scontro epocale del 1948 non tardava a intravedere quante analogie, sebbene in un contesto radicalmente mutato, esistessero tra le elezioni del ’48 e del ’94.

 

Mario Segni

 

Benché il povero Mario Segni, padre politico della riforma elettorale della quale Sergio Mattarella fu padre parlamentare, tentasse di raccoglierne i frutti presentandosi al voto con un partito che portava il suo nome nel simbolo, fu presto chiaro che la battaglia sarebbe stata tra l’alleanza progressista e il polo delle libertà. La prima era preparata e attesa; il secondo, un fungo spuntato all’improvviso. Destra contro sinistra, laburisti contro conservatori, comunisti e anticomunisti. Ma non così nettamente; all’italiana, piuttosto. I democristiani: metà di qua, metà di là, metà al centro. I socialisti: a destra i craxiani, a sinistra i puri, a casa gl’indecisi. I liberali: un po’ aventiniani per disgusto, un po’ allettati dalla sinistra, un po’ a destra.

 

Mattarella

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Antonio Martino fu l’autore di massima del programma degli “azzurri”, come Berlusconi amava che si chiamassero e fossero chiamati i militanti, anziché lo sgradito “forzisti”. Il Cavaliere trasferì spesso il gergo del pallone nel linguaggio della politica, una scelta dettatagli dalla passione calcistica e dal talento commerciale, l’una e l’altro alla massima potenza.  E l’azzurro è il colore della nazionale italiana. Così Forza Italia! Forza Azzurri! dal tifo degli stadi risuonarono nella propaganda elettorale.

Martino fu sequestrato e rinchiuso da Berlusconi nella sua casa milanese, dove lavorò per giorni a preparare un imponente apparato di temi e proposte da servire ai candidati e ai simpatizzanti per illustrare la posizione del partito in ogni sede, dai comizi ai seminari, dai media agli incontri. L’opera di Martino, raccolta in documenti e cassette, costruì la fisionomia pubblica di Forza Italia come pure ne costituì l’ossatura ideologica e politica. Tutto questo impianto era genuinamente, convincentemente, programmaticamente liberale. Finalmente un partito del liberalismo: copyright Antonio Martino.

 

Antonio Martino

 

Il Polo delle libertà e del Buon Governo fu più attrattivo dei Progressisti. Questi avevano la patina opaca del già visto. Quello, il fascino della prospettiva sfavillante.  Le speranze allettanti prevalsero sulle speranze deluse. Silvio Berlusconi aveva concepito Forza Italia come suo braccio armato o come braccio del liberalismo? Armato contro chi, contro cosa, perché? That is the question! L’amletismo berlusconiano era parte integrante del suo mezzo insuccesso politico. Berlusconi impugnò le armi contro il mare di guai del cattocomunismo, ma contrastandolo non pose fine ad esso. Non era il tipo da soffrire nobilmente una sfortuna oltraggiosa. Ma neppure di andare fino in fondo per scongiurarla, eliminandone le cause.

 

Achille Occhetto

 

Egli ricostruì la diga anticomunista che era stata la DC nel 1948 con i mattoni di un proclamato partito liberale di massa. La diga tenne al primo urto della forza contraria, ma la fragilità del materiale minò le basi che presto crollarono. Qualcuno potrà dire che l’impresa di Berlusconi, temeraria nel concepimento e nell’esecuzione iniziale, fu poi prudente e difensiva negli svolgimenti successivi, secondo l’arte del possibile. Qualcun altro vorrà vedervi il riflesso dell’adattamento ad interessi economici implicati e connessi alle mosse politiche. Alla domanda cruciale sul perché Berlusconi sguarnisse il bastione del liberalismo sul quale aveva proclamato di attestarsi, la prima risposta è che gli mancarono truppe così motivate a difenderlo. Pur avendo reclutato quattro gatti liberali, li concepì come fiori all’occhiello, invece che nerbo vitale delle sue forze. Ma la risposta completa è che egli, al dunque, costituisse la quintessenza del liberale all’italiana, che ama la libertà meno per servirla che per servirsene. Non liberalismo, ma ‘tornacontismo’ la definì un arguto elettore di Forza Italia, deluso da Berlusconi.

 

Alfredo Biondi

 

Quanto alla “rivoluzione liberale” promessa, avrebbe dovuto, come tutte le rivoluzioni, essere fatta da “rivoluzionari”, mentre Berlusconi, seppure fosse stato un liberale integrale, tutto era fuorché rivoluzionario. Parlando di rivoluzione per metafora. I liberali restavano talvolta sconcertati da una certa qual doppiezza o, sfumando, incoerenza dell’azione politica e parlamentare.

Nel primo anno, il governo Berlusconi dovette difendersi in ogni modo e a tutti i costi da un’opposizione invelenita dalla bruciante sconfitta inattesa. I progressisti avevano già stilato la lista dei ministri. I nominati in pectore non erano tranquillizzanti. A parte tutto il resto, cioè portare i postcomunisti e i cattocomunisti al governo senza lavacro ideologico, il fronte progressista intendeva traslocare “Mani pulite” a Palazzo Chigi, in carne ed ossa per qualche ministero, sempre come mentalità.

Il capo dei progressisti, che aveva appena pianto lacrime di coccodrillo nel cambiare il nome del Pci in Pds restando acrobaticamente segretario dello stesso partito, volle dipingere l’alleanza progressista come “gioiosa macchina da guerra”, nella speranza che gli elettori fossero attratti dalla gioia inesistente anziché spaventati dalla bellicosità vera.

Ora che su quello scontro epocale è calata la prima luce della storia, un fatto è chiaro, indiscutibile, assodato. Gli eredi del Pci ed i loro satelliti erano straconvinti di avere un diritto morale e politico a governare. Era venuto il loro tempo, nel disfacimento dei partiti che li avevano tenuti fuori del governo centrale. Così pensavano. Adesso il potere spettava a loro, nella convinzione presuntuosa che fossero non solo la maior pars ma soprattutto la melior pars della nazione. Berlusconi, mettendo insieme la contrapposta alleanza del Polo delle libertà, dimostrò che non erano né maggioritari né migliori. Questo è il suo merito storico, da considerare “rivoluzionario” in quella temperie. Gli sconfitti non dimenticarono mai. Utilizzarono ogni mezzo per vendicare la disfatta, percepita come un’onta morale più che una sconfitta politica.

***

Il 13 luglio 1994 il Consiglio dei ministri all’unanimità, con le firme del presidente Berlusconi, del ministro dell’Interno Maroni, del ministro della Giustizia Biondi, adottò un decreto legge che riduceva il potere dei giudici di applicare la custodia cautelare in carcere. “Decreto Biondi” o, peggio, “decreto salvaladri” fu chiamato. Una settimana dopo, il 21 luglio, la Camera deliberò che non avesse i requisiti costituzionali di necessità ed urgenza. Il decreto Biondi decadde per il voto di 418 favorevoli, 33 contrari, 41 astenuti.  Dopo tanti lustri e in prospettiva storica quel voto fu tra le pagine più nere del Parlamento italiano, non meno degli eventi che lo precedettero e determinarono.

La bufera di “Mani pulite” squassava l’Italia. I magistrati delle procure erano tenuti alla stregua dell’arcangelo Michele che debella la corruzione demoniaca dei partiti e della società. L’onda moralizzatrice di Tangentopoli aveva contribuito alla vittoria del Polo delle libertà. Il “decreto Biondi” del governo appena insediato sembrava perciò un paradossale rovesciamento delle posizioni. I beneficiari di “Mani pulite” cercavano di tagliarle le unghie. Accadde qualcosa che, illic et tunc, ebbe caratteri più che abnormi perché un decreto dell’Esecutivo, all’esame del Legislativo, fu contestato dal Giudiziario, con una dichiarazione pubblica in diretta televisiva. Un nucleo di magistrati della procura della Repubblica, diretti destinatari della legislazione decretata dal Governo legittimo, alla quale perciò erano già soggetti, vi si “ribellarono”, pure con il sostegno del Consiglio superiore della magistratura, accampando la scusa che rendeva difficoltoso l’esercizio dell’azione penale ma in realtà appoggiandosi all’imponente favore popolare.

Riflesso e fomentato dai media, il successo dell’alzamiento del Giudiziario fu dovuto a due fattori principali: l’indignazione dei cittadini per il marcio scoperto dai magistrati; la debolezza della politica intimorita e coinvolta. Il dibattito svoltosi in quella seduta resta esemplare nel mostrare l’intreccio tra pretesti e argomenti, giustizia e giustizialismo. Dall’opposizione, un autorevole giurista democristiano, parlamentare, ministro, presidente della Corte costituzionale, giunse ad affermare che i presupposti di necessità ed urgenza non esistevano perché il decreto era “incostituzionale”, a suo errato giudizio, e perché “una condizione migliore per il nostro habeas corpus non è motivo sufficiente per emanare un decreto-legge”.  Dalla maggioranza gli fu ribattuto, con le parole di un eminente politologo, che “le libertà personali, e la carcerazione preventiva riguarda quelle libertà, costituiscono un problema così cruciale per la cultura liberaldemocratica da postulare di per sé stesse la necessità e l’urgenza».

Il ministro dell’Interno prese immediatamente le distanze dal decreto appena firmato e la Lega se ne dissociò, essendo stata paladina di “Mani pulite” che pure aveva scoperchiato proprio il marcio della Padania. L’alzamiento della magistratura terrorizzò la fragile maggioranza governativa che presto, con arzigogoli da azzeccagarbugli, abbandonò il decreto adducendo un misero pretesto: avrebbe presentato immediatamente un disegno di legge per poter accogliere le proposte dell’opposizione.

La verità amarissima era invece che il Governo e il Parlamento erano stati piegati dalla commistione tra la politica della giustizia e il giustizialismo della politica. Non sbagliarono quelli che evocarono Caporetto per qualificare l’abdicazione dell’Esecutivo e del Legislativo dalle loro essenziali prerogative, in favore del Giudiziario. Sbagliarono quelli che equipararono il “decreto Biondi” alla reazione termidoriana contro Robespierre. Termidoro fu un successo contro la barbarie del Terrore. Il “decreto Biondi” rappresentò la sconfitta dell’ideale costituzionale della carcerazione preventiva come eccezionale limitazione della libertà personale.

Quanto fosse diventata normale l’esecrabile pratica arbitraria della custodia cautelare fu dimostrato dal contorto, sprezzante, agghiacciante pensiero di un procuratore della Repubblica, riportato nel corso del dibattito: “Non è vero che gl’imputati venivano scarcerati quando parlavano, bensì rimanevano dentro fino a quando non parlavano.” Questa affermazione, concluse il deputato (un magistrato!) che la citò, “nasce dalla bocca di persona alla quale è affidata una delicatissima responsabilità, è grave e disegna un ruolo del pubblico ministero che va divenendo imperiale e difficilmente contrastabile all’interno della realtà giurisdizionale”.

Da allora il potere “imperiale” dei pubblici ministeri ha intaccato la libertà personale del cittadino, riducendolo in minorata difesa, ed ha sottomesso il potere politico, che, spaventato, ha temuto di adeguare la realtà effettuale della giustizia persino alla riforma costituzionale del “giusto processo”, approvata nel 1999, che perciò in alcune disposizioni suona addirittura beffarda.

Quel 21 luglio ’94, nella discussione del “decreto Biondi”, irriducibili liberali di nome o di fatto concentrarono il fuoco argomentativo sull’essenza del provvedimento. La restrizione della custodia cautelare in carcere era una necessità di principio, aggravata dagli abusi. Il tintinnare delle manette alle orecchie del popolo e l’eccitazione degli onesti per la carcerazione preventiva dei disonesti dovevano essere riportati nell’alveo della “giustizia giusta”, espressione evocativa di squilibri, eccessi, iniquità. Avevano parlato ed argomentato contro la costituzionalità del decreto, ma sbagliando. I decreti-legge per incarcerare erano stati adottati in passato. Potevano esserlo anche i decreti-legge per scarcerare. Non sapevano trovare, dissero, una ragione superiore a quella di liberare persone innocenti e di restituire la libertà personale a semplici accusati. Era un decreto giusto e provvido, perché liberale e “liberante”. Liberante un centinaio di tangentisti e migliaia di poveri diavoli sbattuti in galera senza processo e senza condanna, travolti da un’onda giudiziaria meno accusatoria che persecutoria.

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Forza Italia, vale a dire Berlusconi, in politica non volle andare fino in fondo.

In parte la riluttanza era giustificata dal tipo di alleati che il Polo aveva accomunato e dai motivi che li avevano spinti ad allearsi. Erano gli stessi, quelli eterni della politica: speranza e potere. Solo accodandosi alla novità del berlusconismo i “vecchi” dirigenti partitocratici assemblati nel polo delle libertà potevano sperare di agguantare il governo della Repubblica.

Berlusconi, che amava alla follia paragonarsi alla Fata Smemorina, aveva compiuto la magia di unirli nel suo patto. Dal suo punto di vista, che era pure una profonda convinzione e una realtà di fatto, egli aveva miracolosamente trasformato davvero le zucche partitiche in una carrozza politica.  D’altro canto in cuor suo era convinto, e lo dava a vedere con malcelata albagia, che i suoi parlamentari fossero cucuzze prima d’esser stati toccati dalla sua bacchetta magica.

Più in generale, questa specifica considerazione dell’asserita sua magia lo portava a convincersi che mai sbagliasse nella scelta delle persone. Era il suo modo d’incoraggiarsi sempre. Pure quando sbagliava. Una variante del suo ottimismo inattaccabile.

Ma la forza frenante l’adozione dell’indirizzo politico liberale è imputabile meno a cause esogene (gli alleati) che a cause endogene del berlusconismo stesso (milieu aziendale in senso largo). L’azione parlamentare non era spinta al massimo ma rattenuta. Non si capiva se qualcuno tenesse il piede sul freno o fosse una semplice questione di scoordinamento oppure soltanto naturali divergenze d’opinione.

Il mandato ufficiale degli “azzurri” era tener duro, difendere e attaccare sulla linea del “partito liberale di massa”. Però nei fatti le cose non quadravano. Tra il dire e il fare, c’era soluzione di continuità.

Come se una regia nell’ombra sceneggiasse un copione diverso dalla recita pubblica sulla scena politica.

Del resto, Berlusconi riluttava nella pratica a distinguere tra azione economica e azione politica, che nell’arte di governo sono disomogenee.

Il coefficiente personalistico, che egli era portato ad imprimere al massimo nel dirigere la politica nazionale, lo portava a confondere interesse pubblico e affermazione individuale. Se ne ebbe la prova devastante nella richiesta al ministro dell’Interno del suo stesso partito di apprestare un decreto legge per annullare le elezioni politiche appena perse per poche migliaia di voti. Ambiva ad incarnare lo Stato senza averne appieno il senso, il che costituisce un handicap insuperabile per uno statista che intenda agire come tale. Una richiesta del genere, lo statista liberale non deve avanzarla, neppure pensarla.

Finché dalla procura di “Mani Pulite”, che aveva esercitato il potere non solo di perseguire i reati ma anche di fornire una sorta di “certificazione” coram populo del buon nome giudiziario di questo e di quello, fu notificato a Berlusconi, presidente del Consiglio, un avviso a comparire nell’ambito di un’inchiesta che vedeva coinvolto il fratello. Fu il colpo di grazia, assestatogli tramite il “Corriere della Sera” che anticipò la notizia che era stata anticipata al giornale da suoi giornalisti ai quali era stata anticipata dalle stanze parlanti del palazzo di Giustizia. Nei giorni dopo la morte di Berlusconi, Paolo Mieli, che il “Corriere della Sera” lo dirigeva, ha rivelato in televisione che nessuno dei magistrati inquirenti, né quelli che lo confezionarono né gli altri che indagarono, gli ha mai più chiesto il come e il quando l’avviso a comparire fosse giunto sulla sua scrivania, mentre il perché lo capirono già al momento quelli che vollero capirlo. L’avviso a comparire non fu un’occasionale comparsata, ma l’inizio di una seriale tragicommedia giudiziaria terminata con la morte del protagonista.

 

Berlusconi

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In conclusione, nel fatidico 1994 Silvio Berlusconi fu l’artefice di tre “rivoluzioni liberali”, quale realizzata, quale avviata, quale fallita

La prima: elettorale, totalmente vittoriosa, sbarrò la strada all’avvento del fronte illiberale delle sinistre e cambiò il corso della storia della Repubblica. La seconda: giudiziaria, fu perdente in Parlamento, ma moralmente vincente sul cammino di avvicinamento alla vera giustizia rispettosa della libertà personale. La terza: politica, fu un insuccesso e risultò socialmente inconsistente a dispetto delle aspettative e dei programmi, e delle necessità dell’Italia.

 

Pietro Di Muccio de Quattro

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