Alla luce della notizia della chiusura di almeno tre stabilimenti della Volkswagen con annesso il taglio di decine di migliaia di posti di lavoro, pubblichiamo nuovamente il nostro recente pezzo sulla grave crisi dell’industria dell’auto in Europa.
L’automobile è libertà, si usava dire un tempo, quando si sognava di volare alla guida di una Chevrolet sulle strade della California o sul lungomare della Costa Azzurra. Oggi quei sogni – forse erano solo illusioni – rischiano d’infrangersi per l’incapacità di affrontare cambiamenti epocali, con immagini e cifre degne di una tragedia shakespeariana: fabbriche nelle quali si produce meno della metà delle macchine che potrebbero uscire dalle linee di produzione, vendite che languono, profitti in picchiata, la concorrenza cinese che si addensa all’orizzonte. Causa e motore della crisi dell’auto, la lunga e tortuosa transizione verso l’elettromobilità.
Un terremoto esistenziale
Un terremoto, nell’industria delle quattro ruote, un testacoda forse esistenziale. Non c’è dubbio, in Germania – che fonda sull’auto (“Das Auto!”) buona parte della sua struttura industriale e dunque del suo benessere, ben 770 mila persone sono impiegate nel settore – le scosse telluriche sono particolarmente forti: Bmw, Volkswagen e Mercedes annaspano provocando profonda inquietudine tra i tedeschi, i numeri sono impietosi. La prima nei primi sei mesi dell’anno ha visto gli utili crollare del 15%, per la casa della “macchina del popolo” l’emorragia è stata del 14%, Mercedes segna un calo del 16%. In media, gli stabilimenti delle tre maggiori case automobilistiche tedesche hanno prodotto solo i due terzi delle capacità, per la prima volta da circa 30 anni l’orizzonte dei lavoratori della Vw è fatto anche di chiusure di stabilimenti e tagli massicci al personale (aggiornamento: il 28 ottobre 2024, il consiglio di fabbrica dell’azienda ha riferito che saranno fermate tre fabbriche ed un taglio dei salari pari al 10% per gli anni 2025 e 2026: è la prima volta in 87 anni che il colosso delle quattro ruote chiude stabilimenti in Germania, ndr) .
La crisi ha raggiunto pure le aziende fornitrici: la ZF, per esempio, sta pianificando di eliminare fino a 14 mila posti di lavoro in Germania nei prossimi quattro anni.
L’autorevole istituto economico Ifo riferisce che la fiducia dei produttori “è precipitata”, l’indicatore è crollato di 24,7 punti. Il futuro è quantomai fosco: “L’industria delle quattro ruote soffre di una mancanza verticale di commesse, soprattutto dall’estero”, viene ripresa da tutti i media tedeschi Anita Wölfl, economista esperta del settore automotive. Altrove in Europa non va meglio. Mentre in Belgio si trema per il futuro dello stabilimento Audi in cui si costruisce la Q8 e-tron e in Francia la Renault piange da tempo, alla Mirafiori – fabbrica simbolo della Fiat – nella prima metà dell’anno la produzione è calata del 60%. Colpa della 500 elettrica, della quale Stellantis ha prolungato fino al primo novembre la sospensione della produzione, inizialmente prevista fino all’11 ottobre.
Lo storico stabilimento ha visto le sue catene di montaggio spegnersi negli anni: oggi la produzione è limitata, appunto, alla 500 elettrica e a due modelli di Maserati. Motivo della scelta draconiana è ovviamente la scarsità degli ordini, legata “all’andamento del mercato elettrico in Europa, che è profondamente in difficoltà per tutti i produttori, soprattutto europei”.
Profondo rosso nell’auto
“Profondo rosso in casa Stellantis”, lancia da par suo l’allarme la Fim-Cisl con un report presentato a inizio ottobre: dopo tre anni di crescita, il dato sul 2023 è negativo soli 387.600 auto e furgoni commerciali prodotti, e sono in sofferenza anche i due siti che nel primo semestre erano in positivo, ossia Pomigliano e Atessa (-5,5% e – 10,2%). Per il 2024 la Fim prevede una produzione delle auto sotto le 300 mila unità e complessiva di 500 mila unità, un terzo in meno di 2023. Per la prima volta sono in negativo tutti gli stabilimenti e perdono sia le auto (- 40,7%) che i furgoni commerciali (-10,2%). Sono numeri da far tremare i polsi.
Ha un nome, questa grande crisi dell’automobile d’inizio millennio (se il Novecento era il secolo dell’auto, gli anni duemila cosa sono? Quelli della sua fine?): si sa, l’elefante nella stanza è l’immensa transizione verso la mobilità a impatto climatico zero. Dal 2035 nell’Unione europea si potranno immatricolare solo vetture che non emettano Co2. È, sì, il lungo addio ai motori mossi da benzina o diesel: peccato però che le vendite di auto elettriche stiano crollando più o meno ovunque. L’osservatorio della Germania, paese del quale l’auto è l’industria-chiave, è sempre il più emblematico: qui fino allo scorso agosto il mercato ha contato nel segmento una flessione del 22,4% rispetto agli otto mesi precedenti. La caccia a responsabili del grande disastro è appena agli inizi.
Errori di strategia, innovazione mancata
Molti esperti puntano il dito contro l’industria stessa delle quattro ruote, accusandola di aver agguantato con estremo ritardo il passaggio alla mobilità elettrica. Analoghe le critiche dei sindacati tedeschi, in prima fila l’associazione che riunisce i lavoratori metalmeccanici IG Metall: errori di management, strategie fallimentari sia per quel che riguarda i modelli (troppi lusso, le utilitarie sono ormai un ricordo lontano), che per quanto concerne le modalità tecnologiche della mutazione elettrica, infrastrutture (a cominciare dalle colonnine) che latitano.
Mentre le organizzazioni sindacali minacciano tempesta se qualcuno crede che le soluzioni dei problemi si troveranno sulla pelle esclusiva dei lavoratori, l’associazione dell’industria automobilistica tedesca (VDA) punta l’indice contro “i prezzi energetici e il costo del lavoro troppo alti”. Dice la presidente del VDA, Hildegard Müller, che “chi si chiede sempre perché gli altri paesi producano vetture più economiche, sappia che questo ha a che vedere esattamente con questi temi”.
Nel tentativo di trovare delle soluzioni, a fine settembre il ministro all’Economia tedesco, Robert Habeck, ha convocato un “vertice dell’auto” con i produttori, i fornitori, le associazioni e i sindacati, il cui risultato è stato, tuttavia, nullo, a parte un generico impegno a valutare se chiedere una ridefinizione dei limiti di Co2 stabiliti dall’Unione europea.
Circolano anche proposte di aiuti statali, magari in forma di sconti alle auto elettriche se gli acquirenti accetteranno di rottamare i loro motori a scoppio, ma prevale uno scetticismo che sa un po’ anche di disperazione. “Abbiamo speso miliardi come industria per rendere possibile la mobilità elettrica”, sospira Holger Klein, a capo della già citata ZF, produttrice di componenti tedesca che impiega circa 165 mila persone in tutto il mondo. “Ora la domanda è: abbiamo i parametri giusti?”.
Grande dragone all’orizzonte
Ebbene. Sussurra all’emittente Deutsche Welle l’economista Carsten Brzeski che il settore “si trova nel bel mezzo di una transizione strutturale, che ovviamente porterà anche ad una crescita decisa della concorrenza”: vedi alla voce Cina. In barba alla minaccia di dazi, il grande dragone è fermamente intenzionato a produrre le proprie macchine elettriche anche in Europa: oltre a Lynk & co, vogliono aprire i battenti nel Vecchio Continente, con propri stabilimenti, Chery Automobile, Great Wall Motors o BYD. In quanto a prezzi, prendiamo, ad esempio, il Dolphin di BYD: circa 7000 euro in meno rispetto a una Volkswagen ID.3, vettura dalle dotazioni analoghe, che la casa tedesca aveva lanciato come il Maggiolino dell’era elettrica.
Ma la “vera verità”, incalzano esperti come Stefan Bratzel del Center of Automotive Management, è che l’industria europea delle quattro ruote non ha capito per tempo le sfide della transizione elettrica. Le grandi case automobilistiche sono arrivate in ritardo e senza la necessaria velocità all’appuntamento con le trasformazioni dell’elettromobilità. Non erano pronte ad una rivoluzione ineludibile, già in atto. Come disse Mikhail Gorbaciov agli alti dignitari della Ddr nell’ottobre del fatidico 1989: “Chi arriva in ritardo viene punito dalla Storia”. Un mese dopo il Muro di Berlino crollò rumorosamente. Perché il mondo era già un altro e loro, i potentissimi, non lo avevano visto arrivare.
Roberto Brunelli – Giornalista