Fact checking: letteralmente “verifica dei fatti”, alla ricerca di eventuali falsità. Effettuata sull’intervento del ministro dell’Istruzione Valditara, in occasione della nascita della fondazione Cecchettin per aiutare le donne vittime di violenza di genere, rivela, a dir poco, grossolane inesattezze.
Per Valditara sarebbe una visione ideologica quella che “vorrebbe risolvere la questione femminile lottando contro il patriarcato” che “come fenomeno giuridico è finito con la riforma del diritto di famiglia”. Quanto, poi, alla violenza di genere, in particolare la violenza sessuale, l’incremento – secondo il ministro – sarebbe “legato anche a fenomeni di marginalità e di devianza, in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”.
Una discussione surreale
In disparte, da un lato, l’inopportunità di un intervento del genere in un contesto quale quello, rievocativo e doloroso, voluto da Gino Cecchettin e, dall’altro, ogni considerazione sulla fine (o persistenza) del “patriarcato” (su cui si è scatenata sui media una discussione a dir poco surreale, dal momento che ciò che rileva, quando si parla di violenza di genere, è il persistere di una concezione “padronale” dell’uomo nei confronti della donna), il nocciolo dell’intervento in parola pare ridursi, alla fin fine, a quella sorta di chiodo fisso che è, per taluni, l’immigrazione illegale. Causa di tutti i mali; pur se, nella fattispecie in esame, pare essere malamente invocata.
Lo dicono i dati, forniti dal ministro dell’interno (non dalle solite “toghe rosse”), che Valditara, prima di avventurarsi nelle sue disquisizioni, avrebbe ben potuto consultare: nel 2024, sino al 3 novembre, sono stati 96 i femminicidi in Italia (grosso modo in linea con gli anni precedenti); di questi quasi l’80% risulta commesso da italianissimi nostri concittadini, mentre il restante 20 %, se pur ascrivibile a stranieri, con l’immigrazione clandestina ha poco a che fare, posto che, per un verso, molti di tali stranieri sono europei, mentre per i restanti le causali dei delitti – quali emerse dalle indagini – sono rinvenibili, ancora una volta, in quella concezione padronale (visto che patriarcale non piace) della famiglia e dunque del rapporto uomo/donna, in tutto analoga a quella rilevata nei confronti degli italiani.
Quanto alle altre violenze di genere, comprese quelle sessuali, valgono le medesime statistiche: la più gran parte di esse avviene in famiglia e ad esserne responsabili sono, anche qui, in prevalenza nostri italianissimi concittadini, sicché anche tale fenomeno con l’immigrazione illegale poco ha a che vedere. Certo, non mancano situazioni di marginalità e delitti perpetrati da immigrati giunti (o trattenutisi) illegalmente in Italia, ma da ciò non può inferirsi quanto sostenuto dal ministro, dal momento che ciò che rileva, una volta che sono in Italia e che non ne è possibile il rimpatrio (come si è visto in questi giorni), è (rectius: sarebbe) eliminare – attraverso idonee politiche di inclusione – proprio quelle situazioni di marginalità, astrattamente idonee a generare violenza. Ma, come al solito, alla prevenzione si preferisce la repressione.
Il genere. E il principio di parità
Ciò detto, volendo analizzare la violenza di genere, essa può essere definita, forse in maniera piuttosto semplicistica, come la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, considerato in uno o più degli aspetti che lo compongono (l’identità, il ruolo e l’orientamento sessuale): statisticamente è una violenza che colpisce in modo sproporzionato le donne. E tutto ciò nonostante nel corso degli anni, soprattutto dopo il 1968, la nostra legislazione, di concerto con la normativa sovranazionale, si sia mossa verso un obbiettivo di pari uguaglianza giuridica e sociale fra uomini e donne, in coerenza col dettato della nostra Costituzione (ma cambiare la legge – Valditara dovrebbe saperlo – non equivale a cambiare automaticamente costumi radicati da anni o da secoli).
Si pensi, per un attimo, con riferimento all’ambito familiare, al percorso tracciato dalla nostra legislazione, a partire dalla riforma del 1975, con la progressiva acquisizione sociale del principio di parità dei coniugi, e si consideri invece come proprio le relazioni familiari, coniugali o affini (convivenze, frequentazioni), costituiscano oggi le sedi elettive primarie per le manifestazioni della violenza di genere contro le donne.
La drammatica cronaca dei femminicidi, quotidianamente ribadita dai giornali, evidenzia infatti, a fronte dei positivi mutamenti della sensibilità sociale che si specchiano nella già illustrata evoluzione normativa, come moltissimi uomini, di tutte le estrazioni sociali e culturali, siano affetti da una patologia relazionale profonda che impedisce loro di accettare come un possibile, anche se doloroso, evento della vita l’abbandono da parte della donna con cui hanno condiviso una relazione e un periodo importante della loro esistenza; ancora profondamente radicati nell’idea di rappresentare il genere dominante e di poter agire con coazione sul genere subordinato, gli uomini non riescono a percepire la donna come soggetto paritario e del tutto autonomo rispetto alla loro potestà/protezione/area di consenso (quello che, impropriamente secondo qualcuno, viene definito “patriarcato”).
Proprio a causa di tale patologia relazionale e della conseguente impossibilità di accettazione dell’abbandono, molti uomini si spingono ad azioni estreme, fino al femminicidio, non di rado affiancato dal contestuale suicidio. Alla base di questa patologia relazionale, nella maggior parte dei casi, non sta probabilmente una anomalia di carattere psicologico o psichiatrico, quanto invece una modalità educativa del genere maschile ancora molto diffusa e accettata a livello sociale, che fa perno sul concetto di possesso della donna da parte dell’uomo (naturalmente portato ad esercitare su di essa il suo dominio).
Le legge del codice rosso
Si tratta di una impostazione culturale che mi è capitato di rilevare spesso nei processi per reati come i maltrattamenti in famiglia, lo stalking e, per fortuna raramente, l’omicidio. Purtroppo, riuscire a intervenire in tempo all’interno di una dinamica di coppia, o familiare, per prevenire la degenerazione femminicidiaria è molto difficile e richiede, prima di tutto, un’attivazione della vittima (ancora piuttosto rara, pur se qualcosa sta migliorando). Peraltro, le volte in cui la vittima chiede aiuto, denunciando il responsabile oppure avanzando la richiesta di un ordine di protezione, l’intervento dell’autorità – Polizia, in certi casi il Prefetto, il P.M. o il Giudice – non sempre risulta come invece dovrebbe essere, e cioè immediato, preciso ed efficace.
Nel 2019 è stata varata la cosiddetta legge del “codice rosso” (n. 69/19), poi ulteriormente modificata (negli ultimi giorni del 2023), con la quale sono state fissate ulteriori modalità procedurali atte a tutelare le donne e a far sì che le relative indagini per fatti di violenza siano attivate il prima possibile.
In particolare, con la legge n. 168/23 si è insistito maggiormente sulla prevenzione, per esempio evitando che i c.d. “reati spia” (lesioni personali, percosse, minacce, violazioni di domicilio, stalking ecc.) possano degenerare in fatti più gravi, e rendendo più efficaci le misure di protezione nei confronti della donna, anche con misure tese ad evitare la reiterazione dei reati (provvedimenti di allontanamento, divieti di avvicinamento anche con braccialetto elettronico, addirittura possibile adozione di misure di prevenzione, di cui al c.d. codice antimafia, ecc.). Va detto, però, che non sempre tali misure raggiungono l’obbiettivo sperato. In alcune sedi giudiziarie – per esempio a Lecce – sono stati costituiti comitati, composti dai capi degli Uffici e da magistrati dei Tribunali e delle Procure, da funzionari dei servizi sociale e delle ASL, medici del Pronto soccorso, proprio per rendere quanto più efficaci tali disposizioni e prevenire, per quanto possibile, che la violenza, anche quella minima o solo psicologica, sconfini in fatti molto più gravi.
Ma tutto ciò serve a poco se a mutare non sono educazione e cultura, sin dalle più giovani generazioni.
Il lavoro sulla cultura
Scrive Dacia Maraini: “Troppo spesso si sente dire: ‘l’ha uccisa perché l’amava troppo’, come se si potesse ammazzare per amore. È un controsenso che viene da un’antica cultura, la quale sostiene che l’amore sia possesso… Le persone dovrebbero essere educate al rispetto dell’altro fin dall’infanzia. Bisognerà fare un lavoro sulla cultura. Educare al rispetto fin dalle scuole elementari… C’è bisogno di far capire che non si può possedere nessuno. E che l’amore non giustifica il possesso”.
I maschi, poi, dovrebbero cominciare a guardare bene dentro se stessi: ma non in maniera fugace ed autoassolutoria, basata sulla considerazione che a compiere i femminicidi siano solo psicopatici, squilibrati e reietti della società (il che non è).
Dovrebbero, invece, chiedersi, i maschi, se nella loro vita di tutti i giorni non si siano resi responsabili di una complicità passiva, girando la testa dall’altra parte, quando, invece, avrebbero dovuto intervenire; anche modificando propri comportamenti nel rapporto con l’altro sesso, che indulgano a quel senso di possesso o di intolleranza, pur se non a livello patologico. Già questo potrebbe servire a segnare un’inversione di tendenza culturale, che releghi nel passato l’idea di “possesso” rispetto alla donna, magari sostituendola con una più idonea idea di protezione.
Se, per certi versi, il quadro complessivo ancora oggi non può definirsi confortante, “c’è ancora domani” (richiamando il bel film di Paola Cortellesi) per sperare che qualcosa, finalmente, possa cambiare!
Roberto Tanisi – Magistrato, già presidente di Tribunale e di Corte d’Appello