Verso la dittatura del linguaggio inclusivo? Difendiamoci intanto con l’ironia

“Negli ultimi trent’anni la tendenza a utilizzare il lessico come strumento di pedagogia sociale ha conosciuto uno sviluppo più ampio e più subdolo, perché non si manifesta come un’imposizione dall’alto, ma è il prodotto di una pressione che, almeno all’apparenza, proviene dal basso”. “Nell’ultimo decennio si è passati dalla guerra delle parole alla guerra degli articoli e delle desinenze. Il revisionismo ortografico e il revisionismo del linguaggio di genere”. L’asterisco ugualitario. S’impone “la ricerca di un Caffè Aragno dello spirito”.

Enrico Nistri

 

È sempre stata aspirazione dei regimi e dei movimenti totalitari, o che ambiscono a esserlo, la tendenza ad alterare le norme grammaticali e lo stesso lessico per esercitare un’influenza globale non solo sui comportamenti, ma sullo stesso modo di parlare, e, nelle intenzioni, di pensare del popolo.

Cominciò la Rivoluzione francese, nella sua fase culminante, ribattezzando i mesi dell’anno, nell’ambito di un più vasto disegno di scristianizzazione manifestatosi nel culto della Dea Ragione (a suo modo, la Chiesa cattolica era stata assai più cauta, sovrapponendo le nuove festività religiose a precedenti festività pagane, come le Feriae Augusti o il solstizio d’Inverno).

In Italia sono ben noti i tentativi in questo senso del regime mussoliniano, prima con l’affiancamento (e negli ultimi anni persino con la sostituzione) nella datazione dell’Era Fascista all’Era Cristiana, poi con l’imposizione dell’uso del “voi” al posto del “lei” come formula di cortesia. Per tacere della lotta a oltranza ai barbarismi, con risultati ora durevoli (autista al posto di chauffeur, espressione ormai cara solo agli snob, tramezzino per sandwich) ora fortunatamente effimeri, come “arzente” per cognac.

Se l’imposizione dell’“erina” – come i cattolici intransigenti avevano ribattezzato l’Era Fascista – trasudava una blasfemo velleitarismo, alcune proposte del regime non mancavano di una certa razionalità; peccato che fossero imposte a forza di “fogli d’ordine” e di “veline” per la stampa. Il “voi” è senz’altro una forma più diretta e meno ambigua del “lei” e a farne l’elogio fu un fine letterato come Bruno Cicognani, con un elzeviro sul “Corriere della Sera” che fu preso, ahimè, troppo sul serio da Starace, tanto che la Rizzoli si sentì in dovere di ribattezzare “Annabella” la sua rivista femminile, che originariamente si chiamava “Lei”.

Soprattutto nel Mezzogiorno il “Voi” era (e in parte resta) la forma più diffusa e anche dopo la guerra sopravvisse nell’ambito cinematografico (il “voi dei doppiatori”) e non solo. Nella prima serie dell’indimenticabile Maigret con Gino Cervi, i personaggi utilizzavano ancora la seconda persona plurale come forma di cortesia, forse ricalcando l’uso francese di voussoyer.

Nel corso degli ultimi trent’anni la tendenza a utilizzare il lessico come strumento di pedagogia sociale ha conosciuto uno sviluppo più ampio e più subdolo, perché non si manifesta come un’imposizione dall’alto, ma è il prodotto di una pressione che, almeno all’apparenza, proviene dal basso. Sotto questo profilo, il mezzo secolo compreso fra il 1945, in cui non era più obbligatorio dare il Voi, e il 1995, quando vocaboli con una loro dignità letteraria e persino canzonettistica, come negro o zingaro, vennero posti al bando in nome del politicamente corretto, può essere considerato l’ultimo periodo di autentica libertà lessicale, e non solo, forse.

Si può avere un bell’argomentare che negro è forma nobile, perché derivata direttamente dal latino, come biliardo rispetto a bigliardo, o familiare per famigliare, e che nulla ha a che vedere con il dispregiativo nigger inglese. Si ha un bel citare la “terra negra” del carducciano Pianto antico: la “erre” rapita dai correttori di bozze è ormai un dato di fatto inoppugnabile (e del resto nelle scuole si leggono sempre meno le poesie del cantore dell’“eterno femminino regale”).

Dalla sfera dei riferimenti etnici, il revisionismo ortografico si è spostato a quella del sesso, o meglio del genere, termine slittato dall’ambito ortografico a quello bioetico ed esistenziale sul modello dell’inglese gender. Cominciò il ministro della Pubblica Istruzione Berlinguer varando uno “Statuto degli studenti e delle studentesse”, precisazione superflua perché “studente” è un participio presente indeclinabile (diverso sarebbe stato il caso di uno “Statuto degli scolari e delle scolare”).

Per lo stesso motivo sarebbe di cattivo gusto utilizzare come femminile di presidente “presidentessa”, vocabolo che ricorda una gustosa pochade francese della Belle époque. Si è proseguito con l’imposizione dell’anglismo gay per designare un omosessuale, scelta per altro in parte giustificata dal fatto che nel lessico familiare (o famigliare) per indicare un “diverso” si utilizzavano termini ben più crudi. Si è continuato con lo sdoganamento degli acronimi da settimana enigmistica – da Lgtb a Lgbtquia – cui le varie minoranze sessuali ricorrono per definire se stesse, dimostrando una propensione per le sigle pari soltanto a quella dei militari (qualcuno ricorda il Pao Pao di Vittorio Tondelli?).

Nell’ultimo decennio si è passati dalla guerra delle parole alla guerra degli articoli e delle desinenze, guerra ancora più insidiosa perché attenta non solo al vocabolario ma alla stessa grammatica

Prima vittima è stata la consuetudine, dettata da esigenze di chiarezza, di far precedere il cognome femminile dall’articolo determinativo. Sarebbe interessante capire come e perché tale uso, tutt’altro che dispregiativo, sia scomparso già nel corso del Novecento per i maschi, tanto che nei libri di storia si parla del Cavour e del Crispi, ma non più del Giolitti, del Mussolini, né tanto meno del Togliatti o del Craxi (l’uso è rimasto invece nel linguaggio giuridico, nelle sentenze di molti magistrati, e nel lessico familiare, almeno in Toscana).

Ma assai più imbarazzanti sono i dubbi su come declinare gli appellativi con cui rivolgersi a donne arrivate a posizioni di potere, anche perché fra le esponenti del gentil sesso (si può ancora impunemente dire così?) le preferenze non sempre coincidono e si rischia comunque di urtare delle suscettibilità. Il direttore o la direttrice, termine quest’ultimo che può apparire riduttivo, perché un tempo era pertinenza delle vecchie direttrici didattiche delle elementari, non ancora divenute dirigenti scolastiche? Il ministro o la ministra, espressione che rischia di incoraggiare irriverenti giochi di parole evocativi del tempo in cui compito precipuo della donna era considerato scodellare la minestra nel focolare domestico? L’avvocato o l’avvocata, termine quest’ultimo che sembrava confinato al Salve Regina, e che oggi – complice forse la secolarizzazione della società – sta prendendo piede? Donna medico o medica (in quest’ultimo caso il pensiero rischia di cadere sull’erba?).

Il rischio gaffe è sempre in agguato, anche perché il senso dell’humour non è particolarmente diffuso fra le femministe, come constatava Indro Montanelli, che per un certo periodo fece seguire i suoi caustici “Controcorrente” con una spiegazione a uso delle suddette, a suo dire povere di comprendonio.

La questione delle desinenze è tuttavia più complessa. Com’è noto, a differenza del latino, ma anche del tedesco, l’italiano non ha il genere neutro; in più è una lingua flessiva, a differenza dell’inglese, nel senso che ogni articolo, pronome (con qualche eccezione, come il gli che ormai nell’uso corrente sta anche per le o a loro), sostantivo e aggettivo sono declinati a seconda del genere.

Di conseguenza quando in una frase sono presenti vocaboli maschili e femminili, l’aggettivo è concordato a un maschile che di fatto fa le veci del neutro. È una vecchia regola, insegnata da generazioni di maestrine, che è senz’altro sbilanciata a favore del maschile ma non manca di una sua praticità. Per eliminare tale obiettiva disparità di trattamento si è affacciato l’uso di quello che è stato chiamato “l’asterisco egualitario” o addirittura lo schwa, strano simbolo ortografico a forma di e rovesciata, diffuso soprattutto presso le amministrazioni progressiste.

Per evitare l’uso di quello che viene definito il “maschile generalizzato”, o per evitare formule come “signore e signori”, ma anche per rivolgersi senza imbarazzo a qualcuno la cui identità sessuale è incerta, si fa terminare la frase con un segno asessuato, una sorta di artificiale desinenza neutra. Una violenza alla tradizione, che per altro risolve il problema solo nel linguaggio scritto, perché per chi legge al segno non corrisponde un suono specifico, e che oltre tutto mina uno dei pregi dell’italiano.

La nostra infatti ha il vantaggio di essere una lingua che si legge come si scrive, un po’ perché la sua codificazione ortografica è stata tardiva, un po’ perché, rispetto a una lingua romanza “usurata”, come il francese, ha mantenuto quasi inalterate dal tempo di Dante la sua pronuncia e la sua ortografia.

Si potrebbe essere tentati di liquidare l’“asterisco egualitario” come una moda effimera quanto innocua, destinata come tutte le mode a passare di moda. L’esperienza insegna purtroppo che non è così, e la tesi di Michel Foucault, citata spesso dai teorici di una nuova ortografia, secondo cui il linguaggio sarebbe un “meccanismo di controllo”, si presta anche a una lettura rovesciata. Coniare nuove parole, alterare la grammatica, rivoluzionare le desinenze e persino la pronunzia influenza il modo di parlare e di scrivere, ma anche di pensare. E il “linguaggio inclusivo” rischia di essere esclusivo per chi non vi si attiene, a rischio di essere tenuto fuori dai salotti buoni del giornalismo, dell’università e dell’editoria.

 

Achille Starace

 

Certo, per ora almeno – nonostante alcune iniziative di enti pubblici e ambienti universitari, e i tentativi della Commissione Europea – non esiste nessuno “Starace vestito d’orbace” che c’imponga di stravolgere le nostre consuetudini, imponendoci come parlare, come salutare, come scrivere.  È questa la grande differenza fra le dittature del passato e la realtà odierna. Ma è difficile non scorgere negli sforzi di modificare, sia pure dal basso, il linguaggio, il tentativo di creare un uomo o una donna nuovi, pardon nuov*: apolidi, o magari con tre cittadinanze, “fluid*”: priv* di una precisa identità etnica, culturale, sessuale, persino alimentare, vista la pretesa di farci nutrire d’insetti per il presunto bene del pianeta. Qualcosa, a pensarci bene, di molto simile all’“ultimo uomo” di nietzschiana memoria.

Dinanzi a questa deriva, l’unica alternativa sembra per il momento l’ironia. Quella che al tempo della non occulta dittatura fascista faceva raccontare ai vari Longanesi, Pannunzio, Missiroli, Flaiano barzellette sul regime nei caffè della capitale e Totò sul palcoscenico dell’avanspettacolo faceva battute su “Galileo Galivoi” per ironizzare sulla soppressione del Lei. Per chi ambisce a opporsi alla dittatura del linguaggio inclusivo, forse s’impone la ricerca di un Caffè Aragno dello spirito: quello vero, in via del Corso, ormai è ormai divenuto un Apple Store.

 

 

 

Enrico Nistrisaggista

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