La risata della Sfinge

Enigmi di ieri e di oggi, sulla scia di un racconto di Durrenmatt. La risata della Sfinge è il nostro dramma, un distillato del pensiero dello scorso secolo, che ci ricorda l’irrilevanza delle nostre “verità”, la presunzione di aver capito, di dominare le cose del mondo e di rappresentarle in modo inconfutabile

La verità esiste solo nei limiti in cui la lasciamo in pace. Voglio prendere le mosse da questo pensiero, inserito quasi con noncuranza da Friedrich Dürrenmatt nella parte conclusiva del suo splendido racconto La morte della Pizia, per cercare di condensarne il significato, anche in rapporto al nostro tempo e agli eventi di questi giorni.

Friedrich Durrenmatt

Venti di guerra, profezie di sciagure, previsioni che ci proiettano in un futuro descritto a tinte fosche: un dispiegarsi di ragioni locali, nazionali, internazionali, attraverso le quali da più parti si tenta di fare luce sugli avvenimenti drammatici di cui siamo testimoni più o meno inquieti. Forse anche ingenui ascoltatori, come il giovane claudicante Edipo di fronte alla sacerdotessa delfica Pannychis XI che, per puro capriccio e per sottrarsi alle sue petulanti domande sui veri genitori, gli profetizzò qualcosa di assolutamente insensato e inverosimile, nella certezza che non si sarebbe mai avverato.

Questo è l’inizio beffardo e irriverente nei confronti del mito tragico, con cui il grande drammaturgo e scrittore elvetico di lingua tedesca rovescia la narrazione tragica partendo dall’epilogo molto poco sublime di una  Pizia sull’orlo della fine, rissosa e scorbutica perché ha sempre guadagnato molto meno del sacerdote, e che presso il santuario umido e pieno di spifferi, al servizio del tiranno Merope XXVII, ha sparso e persevera nel pronunciare oracoli a getto continuo per burlarsi dei visitatori: paradossalmente più inventa più è creduta con fede incondizionata.

Le fake news sono sempre esistite, anche nell’immaginario! La vecchia, maliziosa sacerdotessa di un dio sempre più trasandato nelle sue profezie dice di odiare i veggenti che le hanno sempre imposto oracoli su ordinazione, dettati da finalità politiche e frutto di corruzione: ben altra cosa rispetto alle sue innocue farneticazioni! Come ai tempi della peste di Tebe, una città sudicia e maleodorante che neppure le aquile di Zeus riuscivano a sorvolare costrette a tapparsi il naso. Il corrotto Tiresia le aveva imposto di profetizzare al primo occasionale cliente la fine della peste solo se si fosse scoperto l’assassino di Laio, re di Tebe. Nel ricordo di Pannichide l’orrido mito incestuoso di Edipo è subito ridotto così al casuale, improbabile racconto di una fantasiosa imbrogliona immersa nei vapori e assisa sul tripode.

Sembra di essere in un Luna Park di second’ordine, con una sacerdotessa – operaia stizzita e lamentosa, costretta dall’incontro con un Edipo – ora accecato, mendicante e lacero – a prendere atto degli sviluppi imprevedibili della sua falsa profezia: e dire che l’aveva inventata così improbabile e per di più in miserabili giambi proprio perché non si realizzasse! La Pizia chiuse gli occhi: essere ciechi come Edipo, ecco la cosa migliore. Sente avvicinarsi la morte, è curiosa di conoscere come avviene il procedimento del morire, ma mentre aspetta è assalita dai fantasmi dei protagonisti dei suoi vaticini, sue involontarie vittime. Visioni inquietanti che l’assalgono,ricordi di cui ricompone il tessuto valutando e giudicando impietosamente i comportamenti per nulla eroici di ognuno di loro: Laio, aristocratico borioso e despota con tendenze omosessuali; Tiresia, lo spietato veggente tirato da un bambino, e che vantava conoscenze personali tra gli dei, di certo corrotto da qualcuno perché la Pizia pronunciasse un oracolo così perfido; Meneceo, l’unico uomo-drago disponibile, che non si era votato al sacrificio per eroismo ma per insolvenza verso i creditori, e al centro di questa sfilata Edipo, che demolisce il valore della rivelazione tragica, ammettendo nella dimensione cosciente il tabù dell’incesto:Quando a un incrocio uccisi un vecchio irascibile e borioso sapevo già, prima di ucciderlo, che era mio padre, chi altri avrei potuto uccidere io se non mio padre [..] Io volevo diventare re di Tebe, anche gli dei lo volevano e fu con un senso di trionfo che andai a letto con mia madre [..] erano stati gli dei a decidere quella mostruosità, e quindi avvenisse pure quella mostruosità [..] Con un senso di trionfo celebrai il processo contro di me, , con un senso di trionfo trovai Giocasta impiccata nella sua stanza, con un senso di trionfo mi forai gli occhi: dopo tutto gli dei mi facevano dono del maggior diritto immaginabile, della più eletta delle libertà, quella di odiare coloro che ci hanno messi al mondo [..] e se ora vago per la Grecia come un mendicante cieco, non lo faccio per magnificare la potenza degli dei, ma per irriderli.

Una narrazione irrisoria dal sapore pienamente nichilista, confermata dalla successiva, sconvolgente rivelazione di Giocasta, moglie-madre che spudoratamente dichiara di aver provato con quel figlio-marito un piacere mai provato con nessun altro uomo e che parla- anche lei – di trionfo, perché unica fra le donne mortali era stata sottomessa non a un estraneo, bensì all’uomo da me generato: a me stessa, in sostanza.

La forza tragica del mito si abbassa ulteriormente nella versione moderna, direi borghese, della stessa morte di Giocasta: non il suicidio sublime e nobile che nel mythos innesca poi l’autopunizione di Edipo, ma un qualunque “femminicidio” per gelosia dovuto a Molorchos, primo ufficiale della sua guardia. In questo dispiegarsi del gioco di specchi (pirandelliano, ma con derive di cupa violenza legata al potere e alla lussuria) scorrono duetti rivelatori, agnizioni, contro-narrazioni che appesantiscono il senso di responsabilità della povera Pizia, finché, nel groviglio degli avvenimenti messi in moto dalla smania di potere, si erge la parola di Tiresia, quasi a tirare le somme di tutto questo caos in una serie di filosofemi. Solo l’ignoranza del futuro ci rende sopportabile il presente. Mi ha sempre stupito moltissimo questa fissazione degli uomini di voler conoscere l’avvenire. Sembrano preferire l’infelicità alla felicità.

Anche Tiresia rivela la sua “verità”: si è sempre finto cieco perché gli uomini preferiscono i veggenti ciechi e non bisogna deludere la clientela. Dunque i ministri del sacro come Pannichide e Tiresia sono persone assennate, credono nella forza della ragione e non in quella dei vaticini, che permette loro di essere “democratici” e di biasimare le stravaganze e le intemperanze di un’aristocrazia malata e degradata: gente che mangia i propri figli come Tieste, o come l’alcolista Prometeo che attribuisce la sua cirrosi epatica alle aquile di Zeus, o come quel vorace di un Tantalo le limitazioni punitive all’ira degli dei e non al suo diabete!

Tra questi rimaneggiamenti grotteschi dei miti greci più famosi, nella girandola di dubbi e contraddizioni, vale la pena estrapolare un passo di grandissima attualità, una considerazione sempreverde: Creonte è leale – afferma ancora Tiresia-… la lealtà è qualcosa di meraviglioso, ma se tu togli la lealtà scompare anche la dittatura, la lealtà è la roccia su cui poggia lo stato totalitario, senza la lealtà sprofonderebbe nella sabbia; mentre alla democrazia una certa moderata dose di slealtà è necessaria, le occorre un che di volubile, di evanescente, di fantastico. Credi tu che Creonte abbia fantasia? In lui cova un uomo di Stato tremendo.

Tiresia ha fallito più ancora della Pizia burlona, lui che credeva di controllare il mondo con la ragione ed evitare la tirannia con le sue profezie… L’acme del racconto, costruito come un atto unico dalla vena drammaturgica di Dürrenmatt, si ha quando arriva sulla scena a raccontare la sua storia la Sfinge stessa. La figlia punita, costretta ad assediare Tebe con le sue leonesse, declama la sua verità sul padre: era un tiranno perfido e superstizioso. Sapeva benissimo che ogni tirannia diventa insopportabile quando si basa sui principi: non c’è niente che l’uomo sopporti meno d’una giustizia ottusa. L’avverte come ingiusta. Un’altra osservazione dal valore perenne.

Segue un diverso racconto del mito incentrato su Edipo, di cui la Sfinge dice di essere stata l’amante perfetta in un intrigante balletto di infingimenti, segreti più o meno indicibili, verità nascoste. E così Edipo si sdoppia e si triplica in questo bizzarro, a volte esilarante racconto che resta purtuttavia tragico, modernamente tragico, perché mescola ad ogni giro le carte della storia e della vita, per accedere all’unica certezza stabile nella relatività del conoscere: la loro insondabilità.

A restare è l’eternità dell’enigma, oltre la Sfinge, oltre Edipo, oltre le ingenue credenze umane, oltre l’assurda violenza del potere: ride la Sfinge e continua a ridere mentre le leonesse la sbranano fino al suo svanire davanti a una Pannichide sbigottita. La risata della Sfinge è il nostro dramma, che si condensa nella volontà imperscrutabile del fato da cui provengono infelicità e felicità e il loro casuale alternarsi. Un condensato tutto novecentesco, direi un distillato del pensiero dello scorso secolo, che ci ricorda l’irrilevanza delle nostre “verità”, la presunzione di aver capito, di dominare le cose del mondo e di rappresentarle in modo inconfutabile.

Anche la versione della Sfinge viene messa in dubbio da un Tiresia pensieroso quando rileva che ella è sacerdotessa di Hermes, dio dei ladri e degli imbroglioni. E perché Edipo non aveva sospettato di essere figlio della sfinge e dell’auriga? – chiede la povera sacerdotessa sempre più disorientata –“Perché preferiva essere il figlio di un re piuttosto che di un cocchiere”- le risponde Tiresia. Rispetto al filone esistenzialistico, con il quale sembra condividere alcuni pensieri fondamentali quali la finitezza delle possibilità umane, in questo racconto, come in quasi tutti gli scritti di Dürrenmatt, si affermano piuttosto l’assoluta sovranità del caso, l’arbitrio cui obbediscono i fatti sociali e che viene strumentalizzato dai potenti nei confronti dei quali possiamo però esercitare l’arte del sospetto (titolo di un suo famoso romanzo) e non rinunciare ad indagare.

Su tutto e tutti ne La morte della Pizia domina la cecità: cecità del potere, cecità del sapere oracolare e di chi lo accoglie fideisticamente. Il precipitato del groviglio narrativo è l’idea che non resta che accettare il forse di tutte le cose, accogliere il paradosso che l’infinitamente inverisimile (come il racconto assurdo inventato da Pannichide) possa far centro più del razionale verisimile degli oracoli di Tiresia. Siamo al trionfo del principio di indeterminazione: Stupido sono stato, con la mia ragione mettevo in moto una catena di cause ed effetti che determinavano il contrario di quello che mi proponevo. Ma ha perso la partita anche la sacerdotessa ciarlatana, ha fallito anche la sua fantasia capricciosa. Il mondo [..] si modifica da sé come un mostro che faccia sempre nuove smorfie, ed è criticabile solo nella misura in cui lo spessore minimo della ragione umana è capace di influire sulle preponderanti forze tettoniche degli istinti umani.

Così sentenziava Dürrenmatt nell’ormai lontano 1976. Alla luce di quanto sta accadendo, mentre ci sforziamo inutilmente di dare un senso a quanto sta fatalmente (?) accadendo, come dargli torto? Però pervicacemente raccontiamo, raccontiamo, vaticiniamo, interpretiamo, cerchiamo La Verità.

 

Caterina Valchera – Docente, saggista

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