Entriamo in medias res e lasciamo alla stessa poetessa – Paola Maritati, autrice del libro Lingua volgare – di presentarci la sua poetica. Ce la presenta in versi, con due poesie. “La delicatezza è un’arte autodidatta/la mia poesia, invece, ha la stampella/che sbrocca, che è una parolaccia/ a volte una bestemmia/ che ci prova/ ad accorciare la distanza/ [….]
Questo eterno paventare una cosa che non voglio/ma che non posso, rifiutare/ … un erotico divino/mio eterno balbettare di un affetto/ che è di rabbia e che smania di planare/ Ma lontano, altro non sa fare/
Oscillo tra/ Acrobata del vizio e Fachira dello sfizio/ E mi ripeto spesso/Ahimè su questo/ non posso darvi torto/ Ma sapete/ in questa folle acrobazia/ mi diverte trovare il quinto quarto/ e così sia.
Fin qui abbiamo l’ interpretazione autentica della poetica di Paola Maritati. Ma noi ora citiamo altri due brani poetici per poi analizzare altre caratteristiche del suo fare poesia:
Mi dici sempre: “Sono qui/ non pensarmi come se/ fossi morta’’/Ora che sei viva/allora/esci dalla porta”.
E poi:
Ecco, non mi lavo/ Voglio rimanere sporca e indecente/ avere un attimo di pace/non dovere niente/fare quello che mi pare/ tenere le unghie sfatte e nere/fare schifo da paura/nausea da trattenere/gente e gente da allontanare/E finalmente/Poi/andarmi a lavare./Saponetta please
Paola Maritati è laureata in scenografia teatrale e cinematografica all’Accademia di Belle Arti. Lavora nel teatro come scenografa, costumista e progettista teatrale. Attualmente lavora presso l’Accademia Mediterranea dell’Attore di Lecce come social media manager.
Di quest’ultima attività e competenza, Paola Maritati lascia un segno anche nelle sue poesie, adottando la tecnica dell’hastag – il segno “#” davanti a una parola – contrassegnando alla fine dei brani poetici, come il secondo che abbiamo appena citato, e che ha a come titolo Pulizia infame, alcune parole chiave (appunto l’hashtag). #sporca, #indecente #unghie, #menefrego. #nonfacciocredito, #acquaragia, # jososexzy
Questi hastag, supponiamo, ma ci possiamo sbagliare, hanno verosimilmente, nella trovata dell’autrice, la funzione di fili riassuntivi-interpretativi e al tempo stesso di dilatazione degli orizzonti semantici di ciò che la poetessa vuole dire, suggerendo o alludendo.
Nel rifiuto di lavarsi, dal tono scapigliato, un po’ di un Cecco Angiolieri del Duemila, naturalmente in versione femminile, c’è simbolicamente un grido di libertà? Un ribellarsi alla omologazione? Al perbenismo? Alla pulizia di facciata?
La libertà intellettuale, la libertà interiore – espressa, a volte gridata in modo provocatorio e irriverente – appare come l’anima ispiratrice della poetica di questa giovane poetessa. Naturalmente un’opera poetica non è come il sistema circolatorio venoso (o arterioso), dove in ogni punto della rete il sangue è presente. La poesia, vale per Maritati, ma anche per i grandi poeti, somiglia più a un bosco, dove ci sono sentieri (poesie) che portano da qualche parte, e altre che assomigliano piuttosto a sentieri interrotti, che all’apparenza sembrano non portare da nessuna parte, e si limitano all’accenno, all’allusione, alla suggestione. Poi sarà il lettore a “completare”, il lettore che ricompone con l’autore la poesia, in un colloquio “cooperativo” e “con-creativo”. Su questa tematica dell’opera in cui autore e lettore “dialogano” e “collaborano” c’è un interessante saggio del professor Carlo Alberto Augieri, dell’Unisalento, professore di ermeneutica e di critica del testo.
Diversi sono i registri linguistici e semantici della poesia di Paola Maritati. C’è lo sberleffo irriverente anche rivolto a versi quasi… sacri, visto chi li ha scritti (Dante): “Amor che a nullo amato amar perdona”. “Questa – scrive Maritati – mi pare una truffa secolare”. Seguono gli hastag #tirannosaurorex ,#inferno, #ipertimesia.
Nel libro, c’è anche la satira di una certa pomposità accademica, cerimonia di laurea, discorsi.
“Son tutti laureati, a pieni voti l’han premiati/Ad essere precisi/ a scomodarsi- quel giorno – fu il rettore/ che impudenza!/ presentarsi in commissione/avendo nella borsa una ragazza:/ un modello studentessa/ …../ e va bene dai, pazienza!/ non voglio pensar male/ e finire come molti miei coetanei/ nella lista del/complottista anticapitale/me ne faccio una ragione e inizio a cazzeggiare”
Una satira della laurea; della pomposità della cerimonia? O si suggerisce l’inutilità del pezzo di carta? Una volta i liberali, lo stesso Luigi Einaudi, mi pare, proposero che fosse abolito il valore legale della laurea.
*****
Lingua volgare: perché questo titolo del libro? Per scrivere nella lingua del popolo, del volgo, perfino nelle espressioni apparentemente grevi e banali che si colgono nei discorsi quotidiani, anche in quelle che possono essere classificate parolacce. O anche nel ricorso ai proverbi: Il polpo si cucina con l’acqua sua stessa./ A puntino/come la vendetta?/ non proprio/ per quella, mantenere con prudenza/ la ricetta non la tramanda/. E poi, tu chiedi a me?/ So solo/ che va servita fredda/
Ma l’apparente grevità e banalità quotidiana di queste espressioni “volgari” viene riscattata, e quasi alleggerita, nel verseggiare di Paola Maritati, dall’ironia, dal lampo satirico, dall’arguzia epigrammatica. Eh già, perché spesso la misura poetica di Maritati è l’epigramma, con qualche tendenza alla frase sentenziosa, lapidaria, proverbiale. “La gentilezza/ evita agli altri il male che ha vinto/ La violenza/infligge tutto il male che ha subito/.
Che è un po’ la caratteristica della poesia contemporanea, dove l’argomentare raziocinante, i motti sentenziosi, quasi sapienziali prevalgono sulla rappresentazione lirica di immagini e metafore, lo schema di visione a cui per decenni ci aveva abituato l’estetica crociana.
Maritati non copia e non imita, in questa sua opera prima dà interessanti assaggi della sua misura poetica, ma si sentono certe vibrazioni o giri di versi che fanno venire in mente Patrizia Valduga, Patrizia Cavalli, Sandro Penna e altri poeti ermetici. Al sole del perdono la pelle si stira/le ossa si rinforzano/l’anima respira/.
A creare un effetto apparentemente giocoso e spiazzante c’è poi il ricorso in certe strofe a parole o intere frasi o espressioni in lingua romanesca (un omaggio dell’autrice ala Sora Lella, per le sue posizioni in difesa della donna) che all’improvviso s’insinuano nella strofa, spesso nel verso finale, creando un effetto di straniamento.
I temi del rapporto di coppia, il disagio esistenziale, una critica all’uomo, perfino feroce, pur se a volte schermata dall’uso della schwa, per cui non si capisce se il bersaglio è un uomo o una donna, hanno largo spazio in questo libro. Il rapporto sentimentale è spesso sbilanciato, dove c’è un lui assente, che non comunica, e lei lo graffia, verbalmente si capisce, fino a togliergli la pelle.
Ecco alcuni squarci di questo conflitto:
Che fare durante la giornata/se non duettare con me stessa, e con te/ che sei un fantasma?/sempre presente e che mi spia dal telefonino./ Che fantastico teatrino questa nostra fantasia/ “Non lasciarla per favore” dico a me stessa/ e se vai non dire niente/ Tanto non mi accorgo e fa lo stesso!/ Non verserò nemmeno un pianto/
“Ti odio per dispetto?/ Ti amo per ricatto’/ Ti voglio per possesso non concesso?/ Mah, io ti scanso / e se ho il dispetto di un incontro casuale/ dal destino mi dimetto/ e ti prego di star zitto/ Tanto non ci soffro, come dire…/ Il cuore me lo so’ magnato!/ A furia di digiuno/ c’avevo n’appetito….
“Avrei dovuto tenerti per il collo/ non fare affondare almeno la tua testa/ O forse avrei dovuto premere più a fondo/ lasciarti affogare e finalmente/veder salire l’ultima bolla bianca dal fondale”
O anche questo:
“Datti meno importanza per avere più importanza/ che errore maldestro/ con estrema grazia/recapitò al mittente il consiglio non richiesto/ da lì è cambiato tutto/ Fossi stato zitto…/ Ti sarebbe stato conveniente”
Nella poetica di Maritati l’amore ha quasi sempre un sapore dolce amaro, come di cosa indefinita, inattingibile, in una sottile ambivalenza, e a volte ha una forza quasi disperata:
“Pare che da sempre non conosca giustizia l’Amore/ forse è l’unica cosa che non riesci a meritare/ nemmeno con un gesto/ criminale, maniacale, preciso, professionale/ Rimane un pacco che nessuno ha chiesto/ delle volte una testa mozzata di cavallo/ delle altre un favoloso vello”.
Non manca però il registro della nausea: “Si sente una cloaca:/non c’è piacere/ ma una bava che cola -presunta- sul nostro dovere/Che strazio diocane che siete”
Nel cielo del mondo poetico dell’autrice non campeggia il sereno lucente, ci sono nuvole incombenti, che simboleggiano il disagio dell’esistenza, l’inautentiità dei sentimenti, il tradimento delle parole. Tutto questo benché l’io poetante dichiari:
“Sono una penitente/ mi piace peccare/ come la trovo sennò una scusa/ per pregare? :
C’è quindi anche un interessante registro filosofico, di un pessimismo comunque non radicale, da combattente e non da sconfitta, come suggerisce questa poesia “Giocare voglio”:
“Se questo è il mondo dei vincitori/ probabilmente è in quello dei perdenti/ che si gioca ancora la partita/E io giocare voglio”. Ma anche in questo brano c’è una scintilla di verità e di speranza:
“Fama denaro donne, successo/ Ma è il come si muore/la moneta da pagare per l’ingresso”
Come si può definire il mondo, come appare alla poetessa?
il mondo è/ una definizione. / A volte tondo, pigro stanco/ devo dire un po’ di merda/ e non è una parolaccia/ e solo il corpo che trasforma. Ma poi viene il dubbio: Il mondo è una indefinizione, forse questa è la risposta.
Ma la poesia di Maritati non si chiude nel solipsismo autoreferenziale del suo mondo più prossimo, ma ha uno sguardo attento al proprio tempo. Anche la globalizzazione, questo fenomeno che ha cambiato così in profondità la produzione, i consumi e la vita dell’umanità, viene presentata con questo punto di vista originale: la globalizzazione lunare.
“Mi piace pensare alla globalizzazione lunare/ come alla prima forma, quella vera/ che unica sarebbe dovuta restare/ Luna/ sogno popolare/… Luna globale/ l’originale/ neanche nei migliori negozi te la puoi comprare/ Che cazzo ci siamo globalizzati a fare/
Infine qualche altro esempio dell’uso romanesco:
Ah ragazzé/c’avete levato tutto…/’n lavoro serio e rispettabile/’na famiglia, ‘na mogliettina da tradì, du figli da schiaffeggià/ eccetera, ecceterà/ Ora, ve siete messi in testa che se volete piglià pure la cultura/ restiamo calmi, ragioniamo.
La ribellione al conformismo e all’accettazione dei modelli in voga è espressa in questi versi:
Ai miei Maestri/ che ho tutti tradito/Perché?/solo un uomo lo può fare/… Che emancipazione Professate?/ Sorelline triste, truccate/ ben vestite/ col diritto abbottonato/già dovuto, mai lottato/ ma servito/ dalla tata di Partito/ Non è questa/ State attente a ciò che fate/ a quel che ci rubate/ e cosa vi perdete/
Giochi di parole, ma non solo questo, nella poesia Accetta: Accetterai le mie scuse/ sperando di non farle a pezzi/
E nella poesia Distanze: prendiamo le distanze?/ Tu inizia a misurare./ All’ego e al filo ci pensa la macchina/ preòccupati solo di tenere ferma la stoffa/ Che non ceda
Conclude questo volume di poesie il brano “don Chisciotte (con la schwa al posto della “e”) e le baccanti (alla schwa l’autrice ha dedicato un’intera poesia).
“Ha un guasto al motore del vento/ il mulino dell’antieroe contento/ .. è un don Chisciotte/ un monumento / dell’uomo al femminile/ con un mulino a vento”
Non cerchiamo “la morale” di questa poesia conclusiva, né la cerchiamo nella poesia in generale e quindi neanche in questo libro. E tuttavia ci domandiamo: il dramma del nostro tempo, come pare suggerire una poesia –Prendimi – è un po’ la cifra semantica di questo libro, un compendio della vanità dell’esistenza? Soprattutto della difficoltà di comunicare, di interagire?
“Prende. Non prende/ Domande da sconquasso/ Sei connesso?/Tutti fottuti da quest’era digitale/difatti/come dal Cielo, da te/ nessun segnale”.
Mario Nanni – Direttore editoriale