“La guerra in Ucraina è congelata nella nostra percezione ma i governi hanno capito che qualcosa di nuovo c’è. Gli Usa non percepiscono più Mosca come una minaccia per la stabilità mondiale e hanno spostato il focus sulla competizione tecnologica con la Cina”.
Federico Fubini, scrittore, vicedirettore ad personam del Corriere della Sera, prima inviato di economia ed esteri con un decennio trascorso a Bruxelles, segue con attenzione le dinamiche del mondo globalizzato e le ricadute sulla società contemporanea.
Attraverso editoriali, interviste e reportage ha raccontato la politica monetaria, la crisi finanziaria e quest’anno l’evoluzione della guerra in Ucraina. Il suo ultimo libro è Sul vulcano. Come riprenderci il futuro in questa globalizzazione fragile (Longanesi).
Con Bee Magazine analizza le prospettive del conflitto nel 2023: “Non c’è lo spazio politico per un trattato di cessione territoriale, lo stallo può spingere a un cessate il fuoco ma servirà una forza di interposizione. Putin è molto indebolito, ma al momento non vedo le condizioni per la sua fine, è un falsopiano più che un precipizio”.
Sebbene i bombardamenti continuino, la guerra sembra “congelata” sul piano politico e mediatico. Il rischio è che in questo lungo inverno a congelarsi davvero siano gli ucraini?
La guerra è congelata nel nostro racconto e nella nostra percezione ma non sul terreno. Anche se l’opinione pubblica occidentale si è stancata di sentirselo ripetere quotidianamente, in Ucraina si combatte ancora in modo violento. E tanto nei Paesi che sostengono Kiev quanto in quelli vicini a Mosca si è capito che qualcosa di nuovo c’è.
È difficile decrittare la realtà dietro annunci vaghi e, nel caso russo, spesso contraddittori. Davvero qualcosa sta cambiando?
Gli Usa sono giunti all’implicita conclusione che la Russia non è più una minaccia per l’ordine mondiale come temevano dieci mesi fa, che comunque finisca la guerra Mosca l’ha persa perché la sua incisività militare è minore di quanto si ritenesse e il suo sistema di alleanze è poco solido. Di conseguenza la percezione di pericolo è scesa e Washington ha spostato l’attenzione su altri dossier: il Pacifico e la competizione soprattutto tecnologica con la Cina.
C’è stato un turning point?
C’è stato un evento geopolitico di grande rilevanza e non è accaduto né in Russia né in Ucraina bensì negli Usa. Con il varo a ottobre della norma all’interno di un pacchetto – la Foreign Direct Product Rule – che nell’ambito del divieto di esportare asset strategici a Paesi ostili estende e inasprisce alla Cina il bando per i semiconduttori. Questo vale anche per vendite intermediate da altri Paesi su tutta la filiera di un prodotto: se il progetto, il design, la proprietà intellettuale, la tecnologia o un altro elemento sono transitati per gli Usa, il prodotto non può finire in Cina. In sostanza, è un modo per fermare il progresso cinese in materia di A.I, l’Intelligenza Artificiale. È un cambio di scenario nuovo e importante, che avrà conseguenze in Europa. Un’auto europea con semiconduttori americani non potrebbe più essere esportata in Cina: un danno colossale per l’industria tedesca dell’automotive.
Lo spostamento del focus di Biden sul fronte commerciale con Pechino come può influire concretamente sulla guerra in Ucraina?
Il sostegno statunitense a Zelensky rimane e continuerà ma cambierà leggermente l’ordine delle priorità della Casa Bianca. Il focus torna su Pechino che supera Mosca a livello di minaccia alla stabilità internazionale.
Nella lettura mainstream dello scacchiere geopolitico pare impossibile arrivare a una fine del conflitto senza un’interlocuzione tra due protagonisti: Biden, appunto, rafforzato dall’esito delle elezioni di midterm, e Xi, indebolito dalla brusca frenata della crescita cinese. Non è più così?
Se parliamo dell’endgame della guerra è chiaro a tutti, Washington compresa, che Pechino ha un ruolo fondamentale. È molto difficile che la situazione finisca con un trattato di pace perché la Russa non può conquistare tutti i territori che vuole e l’Ucraina non può riprendersi tutti quelli perduti.
Sarebbe il compito di un negoziato comporre le rispettive pretese. Non vede questo spazio?
Nessuno potrebbe concludere un trattato di cessione territoriale. Non c’è lo spazio politico. Se lo facesse Zelensky verrebbe deposto il giorno dopo. D’altra parte, Kiev ha dietro tutta la Nato ma Putin ha più uomini che impediscono agli ucraini di riconquistare territori. Ne consegue che nessuno dei due può vincere. Lo stallo delle due parti nel confronto militare sul terreno può essere la spinta per un cessate-il-fuoco che però non riconosca le posizioni né le conquiste dell’avversario. Un po’ come successe alla fine della guerra di Corea. Ma perché lo stop alle armi duri serve una forza di interposizione, auspicabilmente con mandato Onu, che per essere accettata da Mosca implica la presenza di truppe non soltanto occidentali.
Potrebbe essere il momento di Erdogan, che dall’inizio si è ritagliato il ruolo di mediatore praticamente unico?
Di sicuro servirebbero contingenti anche dei Paesi che dialogano con Mosca: Turchia, Cina, Egitto, India. È un tasto importante anche per la fase della ricostruzione: l’unica garanzia che Mosca non la bombardi sarà la presenza di imprese e operai cinesi, turchi e indiani nei cantieri. Putin non potrebbe permettersi di colpirli.
Il ricorso alle armi nucleari è ancora sullo sfondo?
Meno di prima. Il ridimensionamento della minaccia nucleare è dovuto a due fattori. Il primo è il messaggio di Biden che una simile scelta da parte del Cremlino scatenerebbe una risposta massiccia da parte americana. Ma il secondo elemento è il chiaro no della Cina, perché tale precedente spingerebbe Taiwan a dotarsi di un arsenale nucleare puntato proprio sul Paese di Xi.
Grande assente di questa intervista è l’Europa. Bruxelles, prima alle prese con il lungo stallo sul price cap – appena giunto a soluzione – e poi con l’imbarazzo del Qatargate, che voce in capitolo ha?
Parliamoci chiaro: l’Europa fondamentalmente è stata salvata dagli Usa nel 1943-1945 e di nuovo nel 2022. I dati numerici mostrano la grande sproporzione negli aiuti all’Ucraina, Washington ha dato da sola più dell’intero Vecchio Continente. L’Italia ha fornito armi degli anni ‘70, alcune addirittura provenienti dai magazzini e risalenti al 1942. Senza gli Usa adesso Putin controllerebbe l’Ucraina, minaccerebbe Moldavia, Paesi Baltici e Polonia, fino a destabilizzare l’Ue. Siamo stati, noi europei, un soggetto piuttosto passivo. Le sanzioni sono state fatte, ma con grosse falle dall’acciaio alle banche. È andata meglio del previsto, per fortuna, sul gas naturale, dove non c’è un razionamento in vista.
Ultima domanda. Anna Zafesova su “La Stampa” descrive l’”invisibilità di Putin” che non parteciperà né alla tradizionale conferenza stampa di fine anno né al discorso in Parlamento alla nazione. Il 2023 potrebbe essere l’anno della fine di Putin? O il rischio è piuttosto che l’intera Russia collassi?
Il recente passato ci ha insegnato a essere molto prudenti nelle previsioni. Non vedo in questo momento un quadro complessivo che lasci pensare a una fine del 2023 senza Putin. Mantiene il controllo dei gangli fondamentali, esercito e servizi segreti, non si vede la rivolta degli oligarchi e delle élites economiche. Certo, il presidente è indebolito sulla scena internazionale e sul piano interno: i suoi cittadini muoiono al fronte o fuggono attraverso confini mal difesi. Anche l’economia soffre, sebbene meno del previsto per gli incassi di petrolio e gas, e la tecnologia perde terreno. Ma alla fine dei conti vedo più un falsopiano che un precipizio.
Federica Fantozzi – Giornalista