Di piccoli libri memorabili è fatta una serie di ricordi di viaggio, che solo riduttivamente si possono chiamare “guide”, pubblicate dalla metà del Novecento dal direttore dell’Istituto centrale del restauro dalla sua fondazione, Cesare Brandi.
Questi fu forse l’interprete più consapevole e innovativo della tradizione della periegetica, un genere letterario ancora oggi importantissimo per la storia dell’arte. Brandi ha affidato a maneggevoli libri intitolati Diario cinese, Budda sorride, Persia mirabile, Città del deserto, Verde Nilo, Sicilia mia, la registrazione di impressioni e scoperte di viaggi in tutto il mondo.
Tra questi è particolarmente degno di attenzione il resoconto dal titolo altrettanto esotico Pellegrino di Puglia, risultato della rielaborazione di una serie di resoconti di sopralluoghi, soste, verifiche nella regione pugliese nei primi anni Cinquanta, uscito nel 1960 e ristampato numerose volte fino a oggi. Da giovane ho regalato spesso Pellegrino di Puglia a cari amici, e adesso penso che andrebbe letto dopo avere visto Il racconto dei racconti di Garrone e prima dell’ultima sfilata di Gucci in streaming.
Pellegrino di Puglia è un itinerario che ancora adesso aiuta uno storico dell’arte a capire certi momenti della fortuna storica di artisti e opere e che mostra a tutti una Puglia quasi preistorica e sospesa in un tempo senza tempo. Cosa ben diversa rispetto a quella specie di Sardegna per poveri, sventrata dal turismo di massa, che la Puglia è oggi, soprattutto in estate e soprattutto sulle coste e nei centri urbani non lontani dal mare.
Da Pellegrino di Puglia una citazione per tutte, attualissima: “Se Gallipoli non fosse in Italia […], che ci si troverebbe, oltre i fabbricanti di quelle meravigliose nasse […] che parevano lo scheletro di un mappamondo gigantesco […]? Queste nasse, si troverebbe, e dei pesci arrostiti”. Non molto di più ci si trova oggi tra giugno e settembre, a parte lo stordimento vacanziero di gruppi di balordi, grandi e piccini, che lasciano sporcizia e macerie, anche culturali. E i balordi di passaggio (ma spesso pure i residenti) neanche sanno che quando di passaggio a Gallipoli ci fu d’Annunzio egli visitò la chiesa dei Francescani e che in un piccolo museo in una strada non lontana dal mare c’è una pala d’altare proveniente dalla stessa chiesa francescana, dipinta dal rivale di Tiziano, il Pordenone, con i colori di un tramonto (oltre a Pellegrino di Puglia, chi è interessato alle vicende della più bella pala del Cinquecento settentrionale in Puglia potrà leggere un mio saggio in corso di pubblicazione entro l’anno, realizzato anche a partire da un censimento delle guide antiche della Puglia).
Brandi ha riconnesso la storia dell’arte alla tradizione di un genere, la letteratura periegetica, con cui gli storici dell’arte hanno familiarità a partire dalle forme in cui si codifica dal Cinquecento, con le guide di Firenze e di Roma di Francesco Albertini. Si tratta di libri di tipo descrittivo destinati a un pubblico non specialistico, scritti in una lingua contaminata dai tecnicismi della trattatistica architettonica, dall’uso di fonti di varia provenienza, con un registro espressivo medio che alterna resoconti personali (in relazione al luogo descritto) a referti scritti con parole e costrutti del parlato quotidiani (importante e accessibile a chiunque gratuitamente è il corpus online con Le antiche guide delle città verificate e uniformate per il trattamento informatico e ordinate topograficamente dal gruppo di lavoro della Fondazione Memofonte, creata da Paola Barocchi e presieduta da Donata Levi: https://www.memofonte.it/ricerche/le-antiche-guide-delle-citta/).
Insieme al catalogo della mostra Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura, chiusa alla Galleria Borghese il 22 maggio, a marzo scorso è uscito Guido Reni a Roma. Itinerari, ugualmente pubblicati da Marsilio Arte. Alla fortuna di Guido Reni a Roma. Itinerari tiene particolarmente, con la generosità scientifica e con lo spirito di servizio che la contraddistinguono, la studiosa che ne ha promosso la confezione, Francesca Cappelletti, professoressa ordinaria di Storia dell’arte moderna all’Università di Ferrara, esperta di Caravaggio riconosciuta a livello internazionale e poliedrica e attivissima Direttrice della Galleria Borghese.
Un lunedì pomeriggio di maggio nella Sala 3 della Galleria ho il privilegio di sorprendermi insieme a lei, ancora una volta, dell’incredibile metamorfosi garantita da Gian Lorenzo Bernini al marmo di Carrara delle unghie allungate di Dafne che hanno già messo radici nella pianta di alloro in cui si sta trasformando il suo corpo per sfuggire allo stupratore Apollo (qui la scheda del gruppo Apollo e Dafne nel catalogo online della Galleria): nella mitologia e nella realtà di oggi, sempre meglio che una donna rinunci a sembianze umane e perfino a bellezza e a giovinezza, come la ninfa, se non vuole incorrere nello stigma degli uomini, e spesso pure delle donne giudicatrici, ove decida di denunciare una violenza maschile subita.
Francesca Cappelletti mi dice che in questa sala c’era uno degli allestimenti temporanei più eloquenti della mostra su Guido Reni e aggiunge che l’idea dell’itinerario sulle tracce delle opere del pittore bolognese “nasce dalla speranza che le mostre temporanee all’interno dei musei si riflettano sulla città e ne alimentino la conoscenza” (così si esprime all’inizio della Prefazione agli Itinerari, Alla scoperta di Guido, a Roma, pp. 6-7: 6).
L’idea quanto mai opportuna, dunque, è che le mostre temporanee della Galleria siano occasioni di studio attrattive anche per il pubblico e che connettano sempre di più in forma permanente il museo, con le sue straordinarie collezioni, al territorio e in particolare alla città. Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura ha messo “a fuoco gli anni che il grande artista bolognese trascorse nella città dei papi, fra il 1601 e il 1614. In realtà Guido ebbe altre occasioni di tornare in città e di spedirvi alcune sue opere, ma il soggiorno all’inizio del secolo è” (cito ancora Cappelletti dalla Prefazione agli Itinerari, p. 6) fondamentale, anche per dare della storia dell’arte del primo Seicento a Roma una visione alternativa a quella Caravaggiocentrica: il bolognese Guido, difatti, si afferma a Roma mentre il lombardo Caravaggio è famoso prima per ciò che dipinge e poi per i reati che commette, che lo obbligano a peregrinare per mezza Europa mediterranea, trovando infine la morte nel 1610.
Perciò gli Itinerari aiutano a ricostruire una Roma secentesca fatta di artisti forestieri che diventano famosi lavorando tanto, che condividono i committenti e i mecenati e che rendono la città ciò che ancora oggi ne fa un’attrazione continua: “La Roma di Guido Reni si dipana in un percorso che, uscendo dalla Galleria Borghese, si snoda fra chiese, musei, palazzi. Con la guida alla mano riscopriamo non solo i luoghi dove Guido trascorse il periodo” (ancora da p. 6), ma anche tutta la sua attività e quella di chi lavorò durante, prima e dopo di lui, lasciando nei luoghi oggi visitabili testimonianze straordinarie di una città inclusiva e bellissima, dove gli artisti arrivavano in cerca di lavoro nei cantieri aperti e nei palazzi nobiliari. Sempre guida alla mano, “il viaggio si conclude dove tutto cominciò: il cantiere di Santa Cecilia in Trastevere. Qui Guido lavorò appena arrivato a Roma per Paolo Emilio Sfondrati […] in quel clima di recupero febbrile ed entusiasta delle reliquie paleocristiane” (p. 7).
La guida segue un criterio topografico che necessariamente prevale sulla cronologia assoluta, con indicazioni anche logistiche per i luoghi di conservazione delle opere e l’inserimento, in ogni sezione topografica, “di alcune stampe contemporanee o di poco successive all’epoca in cui il pittore è vissuto”, per meglio contestualizzare storicamente il luogo di visita nel tempo più prossimo a quello di Reni (Nota al percorso, p. 11).
La “guida moderna aggiorna, a quasi quattrocento anni di distanza, quella di Pompilio Totti” (cito dall’Introduzione, pp. 9-10 di Raffaella Morselli, ordinaria di Storia dell’arte moderna all’Università di Teramo e tra gli studiosi che hanno collaborato anche al catalogo della mostra Guido Reni a Roma. Il sacro e la natura), Ritratto di Roma moderna del 1638, dedicata al cardinale Antonio Barberini (per il quale si veda oltre). Nella sua guida di Roma Totti elenca molti luoghi in cui trovare le imprese degli artisti bolognesi, compreso Guido che era ancora attivo a Bologna.
Ho provato a usare la guida partendo da “dove tutto cominciò”, la Basilica di Santa Cecilia in Trastevere, scegliendo per un percorso a piedi altri tre tra i dieci siti catalogati negli Itinerari ai quali si accede gratuitamente: Santa Maria della Concezione dei Cappuccini, Santa Maria della Vittoria, San Luigi dei Francesi (in Guido Reni a Roma. Itinerari le sezioni occupano rispettivamente le pp. 112-117, 22-24, 34-37, 90-92, e spettano ai giovani studiosi Lara Scanu e Romeo Pio Cristofori, così come le altre sezioni topografiche; la suddivisione del lavoro tra Scanu e Cristofori è dichiarata a p. 4).
Cominciando la visita durante un pomeriggio, per completare il piccolo itinerario che suggerisco per iniziare, ci vogliono al massimo due giorni di permanenza a Roma (dato che ormai si è abituati a misurare le visite a luoghi d’arte e a musei in termini di durata minima e massima, pur se per chi della storia dell’arte ha fatto un mestiere è un’altra storia e due giorni possono servire per studiare una sola opera nello stesso posto).
Roma, ultima domenica di maggio, tardo pomeriggio. Nell’atrio della chiesa voci femminili cantano i vespri a cappella. Il canto attira verso la porta aperta sulla navata centrale chi passa da lì dopo avere attraversato a piedi strade lorde di spazzatura su cui si aggirano gabbiani ed essere stato osservato con insistenza da un grosso corvo fermo alla finestra chiusa di un edificio scolastico. Lo scenario vagamente alla Hitchcock si completa all’arrivo, come quando in uno dei thriller della fine degli anni Cinquanta del geniale regista la macchina da presa insegue la protagonista lungo un percorso alla fine del quale c’è un cadavere.
Difatti, fin dall’atrio esterno si intravede al termine della navata della chiesa una sagoma bianca che somiglia a un cadavere opalescente di una giovane donna, distesa davanti alla mensa dell’altare maggiore, a sua volta sovrastato da un ciborio in marmo nero e bianco. Di tutte queste cose si intuisce, a distanza, l’antichità e quindi lo statuto di opera d’arte; ma della sagoma bianca distesa si vuole vedere di più e allora si cammina percorrendo la navata, a metà della quale un uomo e una donna miei coetanei partecipano al canto, così come una signora anziana e sottile che ogni tanto si interrompe e prega. Arrivati davanti alla sagoma bianca reclinata sul fianco sinistro, che si trova alla stessa altezza dei piedi del visitatore, diventa chiaro che la sagoma sta distesa in una teca preziosa di marmi e bronzi dorati che è anche il suo sarcofago.
La morta ha le mani legate, il collo tagliato con il sangue che cola ancora e la testa avvolta da un turbante di tela, povera come quella della lunga tunica che ne copre il corpo di aspetto adolescente fino ai piedi scalzi. Intanto le suore benedettine, di ogni età e provenienti da ogni continente, continuano a cantare insieme nel coro (i vari momenti quotidiani della liturgia sono elencati sul sito web del monastero: http://www.benedettinesantacecilia.it/htm/Ora.html).
Il cadavere della ragazza morta dissanguata e lentamente dopo tre colpi di spada autorizzati dallo Stato nel 230 d. C., sotto Alessandro Severo, è il simulacro di quello di una dissidente, Cecilia, che abitava, pare, proprio nell’area su cui è stata edificata la più grande basilica intitolata a lei che è anche la patrona dei musicisti. Nel 1599 il cardinale Sfondrati fece riesumare il corpo di Cecilia, e, avendone constatato l’ottimo stato di conservazione, incaricò Stefano Maderno di scolpire la statua in marmo riproducendo la presunta posizione in cui si trovava (ma su questo esistono dubbi, allo stato degli studi sulle fonti contemporanee al ritrovamento: se ne è occupato Tomaso Montanari in un articolo del 2005 e anche Francesca Cappelletti, Il pittore che sapeva troppo. Guido Reni a Roma, fra Aldobrandini e Borghese, nel catalogo della mostra Guido Reni a Roma. Il sacro e la natura, p. 58 nota 17, conferma che non c’è certezza sulla relazione iconografica tra lo stato dei resti di Cecilia e la statua di Maderno).
Il volto di Cecilia è nascosto per sempre alla vista di chi percorre la navata della basilica a lei intitolata, accertandosi a ogni passo che quella sagoma bianca è un cadavere di marmo. Cecilia è anche l’unica santa che abbia mai avuto l’onore di vedere il proprio simulacro tridimensionale allineato così prepotentemente a un altare maggiore, distogliendo da ogni altra opera (perfino, inizialmente, dallo splendido ciborio capolavoro del 1293 di Arnolfo di Cambio) lo sguardo di chi entra in uno dei più importanti monasteri benedettini del mondo. Un’esperienza visiva superiore a quella del finale di Vertigo: anche lì il mistero ruota, in modi diversi e fino alla fine, attorno al simulacro animato di una giovane donna bellissima che sfida le regole e che deve infine morire cadendo dal campanile di un monastero di suore.
Roma, un lunedì mattina di fine giugno.
Davanti all’altare maggiore le sei righe in grandi capitali maiuscole incise su una lastra pavimentale semplicissima e lunga quanto un uomo adulto avvertono che “qui giace polvere, cenere e nient’altro”: è l’understatement della sepoltura, tuttavia collocata nel punto più importante della chiesa, voluta per sé dal cardinale Antonio Barberini (morto nel 1646), cappuccino che rinnovò completamente un convento votato alla povertà quando fu richiamato a Roma da Firenze dal fratello Maffeo, diventato papa Urbano VIII. Anche solo fermandosi alla prima cappella a destra, si dispone di un compendio di primo piano del classicismo e del caravaggismo praticati da forestieri a Roma: il San Michele arcangelo a olio su seta di Guido Reni sull’altare maggiore, il Cristo deriso di Gerrit van Honthorst sulla parete sinistra (Honthorst è detto “Gherardo delle notti” per l’abitudine di realizzare scene notturne illuminate da luci artificiali visibili). Il Seicento classicista e barocco è rappresentato anche da opere di Domenichino, Lanfranco, Andrea Sacchi, Pietro da Cortona.
Viene accontentato anche chi cerca in ogni chiesa esempi di scultura monumentale a destinazione funebre: sulla sinistra nel presbiterio c’è la tomba a parete settecentesca in marmo bianco di Alessandro Sobieski, figlio di Giovanni III, ultimo re di Polonia, realizzata dal milanese Camillo Rusconi. Insomma, nel complesso conventuale dei Cappuccini su via Veneto è la Chiesa di Santa Maria della Concezione il vero e proprio museo ad alta concentrazione di capolavori del Seicento e del Settecento; dato che l’ingresso è gratuito non c’è nessuno, invece la fila si forma su per la scala accanto per il museo a pagamento con annessa cripta, ma senza che l’obolo fisso dia accesso a opere d’arte realmente di alto livello.
Museo e cripta offrono, come autentiche attrazioni, lo spaventevole cimitero decorato con statue e ornamenti ricavati dalle ossa di circa quattromila frati morti tra 1528 e 1870, oltre a varie salette, di cui una dedicata ai cappuccini mediaticamente più noti dal secolo scorso, l’evangelizzatore radiotelevisivo padre Mariano e lo stigmatizzato padre Pio, un santo amico di famiglia dei picchiatori fascisti di Capitanata Caradonna (le notizie sono nel libro di controversa ricezione Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del ‘900, pubblicato da Einaudi nel 2007 da Sergio Luzzatto, ordinario di Storia moderna all’Università di Torino); nella sala precedente i pannelli esplicativi didattici sul “San Francesco in preghiera anticamente attribuito a Caravaggio” (p. 22) si contraddicono a vicenda, confondendo soltanto il visitatore non aggiornato sulle questioni attributive, anziché istruirlo.
Basta percorrere a piedi per una ventina di minuti un tratto di centro trafficatissimo e si entra nello scrigno di Santa Maria della Vittoria. La chiesa, già dedicata a San Paolo, cambia intestazione non per una sopravvenuta devozione a una divinità più alta e propizia ma per enfatizzare un sanguinoso episodio bellico: la vittoria dei cattolici sui protestanti nella Battaglia della Montagna bianca durante la Guerra dei Trent’anni, l’8 novembre 1620. A essa fanno inequivocabile riferimento le due armature dorate a grandezza naturale issate sulla controfacciata sopra l’ingresso della chiesa.
Anche Santa Maria della Vittoria è un vero e proprio museo dell’arte secentesca: finanziato dal cardinale Scipione Borghese, il progetto è di Carlo Maderno, Domenichino ha realizzato le pitture della seconda cappella a destra, Gherardo delle Notti Il rapimento di Paolo al terzo cielo per il coro dietro l’altare, La terza cappella da sinistra racchiude una pala d’altare di Guercino del 1642 ca., e, sulla parete destra, il monumento funebre del cardinale bolognese Berlinghiero Gessi (morto nel 1639), culminante nello state-portrait del defunto, che il conterraneo Guido Reni ha giocato su una tavolozza variata sui toni del rosso anche nello sfondo.
La cappella, arricchita da marmi colorati, comunica con quella seguente, organizzata come un palcoscenico con due palchi laterali occupati da spettatori membri della famiglia Cornaro impegnati a leggere e a parlare. Qui Bernini ha orchestrato la più spettacolare e ambigua scena di transverberazione altrimenti invisibile a occhi estranei: Teresa d’Avila è in procinto di essere colpita dal dardo che un angelo sta per scoccare dritto al cuore e non vedremmo né l’una né l’altro se il marmo e il bronzo dorato non li esponessero per sempre alla nostra vista.
Martedì mattina, via vai consueto vicino a Palazzo Giustiniani, sede del Senato della Repubblica. A pochissimi passi, la chiesa nazionale di Francia, voluta dal 1518 dal futuro papa Clemente VII (Giulio de’ Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico e per volere di lui allevato da un artista, l’architetto e scultore Antonio da Sangallo il vecchio, quando il padre Giuliano resta ucciso durante la Congiura dei Pazzi), è frequentata dai soliti fanatici di Caravaggio: arrivano davanti alla cappella Contarelli, inseriscono la monetina per illuminarla, scattano qualche selfie dando le spalle ai tre primi quadri pubblici del pittore lombardo e se ne vanno.
Ma San Luigi dei Francesi conserva anche alcune delle più esemplari opere del Seicento romano. Nella stessa cappella in cui sono esposte le storie di Matteo ci sono gli affreschi dell’affermato artista presso cui Caravaggio lavorò di malavoglia per qualche tempo, Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino, che obbligò il collaboratore a dipingere solo nature morte. Ci sono inoltre, in altre delle dieci cappelle della chiesa, opere di Charles Mellin e di Giovanni Baglione, protagonista con Caravaggio del più famoso processo in cui siano stati coinvolti degli artisti in età moderna (nell’agosto 1603 Baglione querelò Caravaggio, il padre di Artemisia Gentileschi, Orazio, e Onorio Longhi perché avevano fatto circolare contro di lui, “della pittura vituperio”, sonetti denigratori anonimi).
La cappella Polet dedicata a santa Cecilia è decorata da un capolavoro ad affresco di Domenichino con il Martirio e la carità di santa Cecilia e la copia di Guido Reni dell’Estasi di santa Cecilia di Raffaello (allora in San Giovanni in Monte a Bologna, ora nella Pinacoteca Nazionale della stessa città), che più volte tradusse il celebre quadro nel proprio stile dopo che a Roma era scoppiata la “Cecilia-mania” (si veda sopra, a proposito di Santa Cecilia in Trastevere).
Lo zoom sul più bel profilo perduto femminile della statuaria italiana, la visita alla tomba parchissima voluta per sé da un cardinale ricchissimo, lo spettacolo eterno sul palcoscenico dei Cornaro di marmi e bronzo dorato su cui Teresa e Dio si scambiano per procura amore eterno, la copia del quadro di Raffaello più famoso d’Italia nella stessa chiesa in cui c’è la prima commissione pubblica di Caravaggio, sono solo alcune delle rilevantissime sorprese per il lettore non specialista di storia dell’arte suggerite da un libro che è un compagno di viaggio, o di passeggiate anche per i residenti a Roma.
I quattro siti dei dieci ad accesso gratuito indicati negli Itinerari sono chiese, aperte al pubblico per il culto e visitabili come veri e propri musei, ma più ricche di storia e suscitatrici di memorie perché spesso dentro di esse restano le salme di chi ne ha voluto i capolavori, come nel caso del cardinale Barberini sepolto nella chiesa cappuccina.
Soprattutto, si tratta di un patrimonio collettivo ad accesso gratuito dove è possibile vedere i capolavori della storia dell’arte universale nei luoghi per i quali furono realizzati: dunque, se si è bene informati si vanno a vedere Caravaggio, Guido Reni, Bernini senza ressa, in silenzio, senza pagare biglietti i cui costi spesso anche molti studenti accampano come scuse per giustificare l’impossibilità di vedere le opere dal vivo (ma le giornate negli stabilimenti balneari attrezzati sono pure a pagamento, se non sbaglio).
Come nella tradizione periegetica, anche Guido Reni a Roma è un libro di piccole dimensioni: è più piccolo di un laptop, pesa meno di mezzo kg. (424 g. per la precisione), perché si deve poterlo leggere camminando e sostando davanti alle opere e non deve pesare in una borsa; costa poco. Un plauso va all’Indice dei nomi finale (pp. 139-142), ormai inconsueto anche nei libri scientifici, figurarsi in un lavoro divulgativo e agile che si rivolge prevalentemente a un pubblico non specialista (l’indice dei nomi è la prima parte che cerco in un libro quando ne ho in mano uno nuovo).
L’Indice dei nomi è preceduto e seguito da un altrettanto utile Indice dei luoghi e da Suggerimenti bibliografici: da consultare prima della lettura degli Itinerari e da usare come viatico per un primo approfondimento su Guido Reni a Roma e la sua fortuna europea e su “nuovi itinerari dentro e fuori di Roma” (p. 143).
Molte cose si vedono e si imparano camminando con Guido Reni a Roma, la guida voluta da Francesca Cappelletti. A conferma di quanto possono restituire alla comunità piccoli libri come questo, ideati per riconnettere i musei al territorio dopo le mostre e per renderci quindi cittadini consapevoli della stratificazione secolare delle città in cui viviamo o che visitiamo (basta cercare, basta guardare) e che dobbiamo imparare a riconoscere come patrimonio identitario da tutelare e da difendere.
Floriana Conte –Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; @FlConte) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia